Questa nota analizza il ruolo dei servizi di sviluppo agricolo (SSA) per la promozione dell’innovazione nel settore agricolo. Ci si propone di indagare sui seguenti temi: i) se tali servizi nel nostro Paese meritino ancora di essere sostenuti dall’intervento pubblico; ii) quale configurazione organizzativa sia da ritenere più adeguata, alla luce dei cambiamenti di contesto che l’agricoltura deve affrontare. La tesi di fondo è che l’individuazione di un’adeguata governance, in grado di coinvolgere i destinatari, le istituzioni pubbliche e il mondo della ricerca, costituisce una chiave prioritaria per il successo dei SSA.
Innovazione e servizi in agricoltura
I documenti strategici delle maggiori organizzazioni internazionali dichiarano che l’innovazione è un fattore fondamentale per lo sviluppo socio-economico (UN, 2005; Fao, 2007). Nel documento “Mettere in pratica la conoscenza” (Commissione Europea, 2006), si afferma che l’innovazione, via maestra per la crescita e l'occupazione, deve essere condotta dall’industria e guidata dalla società mediante politiche pubbliche. Il ruolo dell’innovazione è ritenuto strategico anche per lo sviluppo dell’agricoltura, come è sancito in documenti ufficiali della Banca Mondiale (The World Bank, 2006), della Fao (2000) e dell’Unione Europea (Commissione Europea, 2005).
In Italia, per la diffusione dell’innovazione in agricoltura sono utilizzati i SSA. Sotto questo termine si raggruppano varie attività (ricerca, formazione, consulenza) volte a sostenere i redditi, l’occupazione e il benessere nelle aree agricole e nei comparti collegati, nonché a migliorare la qualità e la sicurezza degli alimenti a beneficio dei consumatori. Da lungo tempo, tali attività sono considerate di interesse collettivo e quindi oggetto di sostegno pubblico.
L’importanza strategica dell’innovazione è ampiamente condivisa tra gli economisti. Tuttavia, se per la scuola neoclassica il progresso tecnico è ipotizzato come un dato di natura esterna al quadro economico, un ruolo molto più centrale gli è attribuito da coloro che si ispirano ai lavori di Schumpeter (1912; 1942), che ha separato l’invenzione dall’innovazione, intesa come introduzione di un nuovo prodotto (o processo, o mercato) nel sistema economico. Egli ha inoltre avviato un’analisi dei processi innovativi basata sull’evoluzione storica dei settori produttivi. Al proposito, sono noti i due modelli Mark I e Mark II (1). Entrambi nascono dall’esplorazione della dinamica industriale e non da quella agricola, che mostra caratteristiche peculiari. Le aziende agricole presentano una struttura frammentata, simile a quella concorrenziale, richiamata nel primo modello, ma se ne allontanano per la minore dinamicità. Ciò non significa che non vi sia adozione di nuove tecnologie. Per esempio, durante la “rivoluzione verde” degli anni Sessanta-Settanta, le innovazioni chimiche, meccaniche e genetiche hanno raddoppiato la produttività dei terreni. Oggi, gli sviluppi delle biotecnologie hanno aperto una controversa “seconda rivoluzione verde” biotecnologica. Queste innovazioni provengono da grandi industrie multinazionali, analogamente al secondo modello, ove l’attività di ricerca e sviluppo (R&S) è favorita da economie di dimensione.
L’agricoltura è un caso tipico del fenomeno per il quale l’innovazione non è necessariamente prodotta nel settore in cui è impiegata. A riguardo, è particolarmente illuminante la tassonomia di Pavitt (1984), che ha costruito una griglia dei settori produttori e fruitori di innovazione, basata sui flussi di tecnologia, individuando quattro macrosettori (2). L’agricoltura appartiene al gruppo dei fornitori di materie prime, che risultano assorbitori netti di tecnologia. Guardando alle relazioni tra i macrosettori e l’agricoltura, si può affermare che tutti offrono innovazioni alle aziende agricole mediante una rete di servizi di vendita e di assistenza, finalizzata ad accompagnare il processo di adozione. Accanto alle citate tipologie di fornitori industriali, operano tradizionalmente i SSA che, sono prevalentemente di natura pubblica o semipubblica.
Servizi di sviluppo e intervento pubblico
I meccanismi economici che regolano i processi innovativi in agricoltura si differenziano dunque da quelli prevalenti negli altri settori. È interessante indagare sulle implicazioni che possono derivarne per la politica tecnologica.
Alcune ragioni per giustificare l’intervento pubblico nei SSA sono riconducibili al fallimento del mercato, laddove gli incentivi del mercato inducono investimenti sottodimensionati rispetto a quanto sarebbe socialmente desiderabile (Nelson, 1959). Nel caso della R&S, la causa del fallimento è che la conoscenza si comporta sul piano economico come un bene “pubblico”. Ciò accade quando l’adozione di una tecnica innovativa da parte di un coltivatore non limita l’uso che ne possono fare altri. È il caso della difesa antiparassitaria integrata, che è un’innovazione prevalentemente immateriale. Anche per alcune innovazioni materiali, è oggettivamente difficile negare il consumo a soggetti non paganti, una volta che sono state prodotte e diffuse. Se le sementi di una nuova cultivar sono riproducibili presso l’azienda agricola, non è possibile escludere i riproduttori dai benefici. Al contrario, l’esclusione riesce con le sementi ibride, che non possono essere prodotte in azienda senza un know how specialistico.
Le innovazioni agricole non sono quasi mai beni pubblici assoluti, ma presentano vari gradi di rivalità ed escludibilità (Alston et al., 1999). I benefici non appropriabili delle innovazioni agricole superano mediamente il 50% del totale (Sorrentino, 2001). Perciò, appare comprensibile che il settore privato investa una quantità di risorse inferiore rispetto a quanto ritenuto desiderabile per la società, soprattutto per le innovazioni non protette da brevetto.
Una seconda tipologia di malfunzionamento del mercato è legata all’incertezza delle attività sperimentali. Questo vale particolarmente per le scienze agrarie, che sono rivolte ad ambiti biologici complessi, caratterizzate da cicli aleatori. L’invenzione dei mais ibridi è nata da un evento accidentale, nell’ambito di una ricerca con obiettivi del tutto diversi. L’incertezza diminuisce la percezione delle opportunità di guadagno da parte dei privati e sollecita l’intervento pubblico nella ricerca.
Un terzo elemento è costituito dalle esternalità ambientali. L’inquinamento delle falde acquifere causato dai fertilizzanti è un esempio tra i tanti di effetti negativi dell’agricoltura. La bellezza del paesaggio agrario è invece un esempio positivo. Oggi, sono gli effetti negativi che allarmano i cittadini e ciò giustifica l’intervento pubblico nella R&S.
Chi lavora nei SSA sa che non è sufficiente che si producano tecnologie miglioratrici dell’ambiente e della salute. È necessario creare anche le condizioni per la loro adozione in azienda, che avviene quando la tecnologia è percepita come conveniente. Un esempio è offerto dalle misure agro-ambientali introdotte dalla Pac. Tra le tante proposte, le misure che hanno funzionato meglio sono state quelle che, nella percezione degli agricoltori, sono risultate coerenti sul piano tecnico e profittevoli sul piano economico. Lo stesso discorso vale oggi per le norme della condizionalità, che combinano le sanzioni economiche alla consulenza pubblica.
L’analisi empirica ha dimostrato l’effettiva esistenza di queste distorsioni di mercato. Infatti, se si valutano i benefici sociali, le iniziative pubbliche di ricerca e divulgazione in agricoltura presentano tassi di rendimento molto elevati, fino a oltrepassare il 100% annuo (Alston et al., 2000; Esposti, 2000). Le ragioni economiche sono ulteriormente corroborate dalle motivazioni etiche, quando il discorso è calato in contesti rurali particolarmente bisognosi di sostegno allo sviluppo, a causa delle condizioni di isolamento e di povertà.
Ascesa e declino dei servizi di sviluppo
In Italia il sostegno pubblico ai SSA vanta una lunga storia, che De Benedictis (1984) ha definito “di occasioni mancate”. Pur in presenza di esperienze positive, il giudizio complessivo dopo un quarto di secolo rimane invariato, a causa della mancata messa a sistema delle attività.
Un esempio di buona pratica fu offerto dalle “Cattedre ambulanti di agricoltura” (1886), grazie all’attenzione ai problemi locali, alla preparazione del personale e alla flessibilità organizzativa. Durante il ventennio fascista, con la smobilitazione delle Cattedre e la centralizzazione, prevalsero i compiti burocratici e diminuì l’assistenza sul campo. L’alternanza tra decentramento e accentramento continuò nel dopoguerra, prima con le iniziative della Riforma fondiaria e della Cassa del Mezzogiorno. Partite con ottimi intendimenti, queste iniziative finirono presto per occuparsi prevalentemente di pratiche burocratiche. Una nuova spinta per lo sviluppo agricolo fu esercitata dall’istituzione delle Regioni e dall’intensificazione degli interventi comunitari. In Italia furono creati vari centri di formazione per più di 2000 divulgatori. Si è trattato di un grande sforzo finanziario con interessanti realizzazioni, come la rapida diffusione dell’agricoltura integrata e di quella biologica. Tuttavia, gli esiti sono stati inferiori rispetto ai paesi nord-europei, al punto che, con l’assottigliamento dei fondi comunitari, nell’ultimo decennio una quota consistente delle attività si è arrestata, non trovando fonti autonome con cui proseguire (Vagnozzi, 2005). Le cause di questo parziale insuccesso sono varie. In primo luogo, la presunta refrattarietà della categoria dei fruitori, che unisce, accanto a caratteristiche oggettive, quali l’elevata età e il basso livello di scolarizzazione, anche elementi soggettivi di diffidenza, alla radice dell’avversione all’innovazione. L’atteggiamento scettico degli utenti è correlato alla demotivazione dei tecnici, con il conseguente scadimento della qualità dei servizi. Ma le critiche più rilevanti sono indirizzate agli organismi pubblici finanziatori e a quelli responsabili della gestione dei servizi. Ai primi sono attribuibili le tipiche inadeguatezze della macchina pubblica: lentezza, burocrazia, scarso coordinamento con la ricerca. Ai secondi, la modesta importanza assegnata ai servizi “sul campo” e l’incapacità di creare adeguati incentivi per i divulgatori. Gli addebiti all’indirizzo delle istituzioni di ricerca riguardano la frammentazione dei progetti di ricerca, l’eccessiva astrattezza dei contributi e il limitato impegno nella divulgazione. I giudizi critici rivelano una chiara matrice comune: la difficoltà di interazione tra tutti gli attori coinvolti, a causa di un contesto istituzionale rigido e autoreferenziale (Di Santo et al., 2007). In questa situazione di carenza dell’intervento pubblico, sono stati premiati i servizi di natura privata, prevalentemente collegati alle imprese produttrici di mezzi tecnici. Essi hanno soddisfatto solo alcune delle esigenze tecnologiche dell’agricoltura italiana, in particolare quelle legate alle innovazioni brevettabili, secondo un modello di agricoltura “industriale”.
Il futuro: dai servizi di sviluppo ai sistemi di innovazione
Oggi il settore agricolo è entrato in una fase che si può definire “post-industriale”. Accanto alle commodities per i mercati tradizionali, crescono i beni alimentari differenziati, volti a soddisfare specifiche esigenze di qualità e sicurezza del consumatore. Ciò richiede una gestione integrata del sistema agro-alimentare, con nuove forme di coordinamento tra la fase agricola e gli altri stadi della catena: organizzazione orizzontale dei produttori, accordi verticali di filiera e così via. Inoltre, il settore vede crescere il suo carattere multifunzionale. Alle aziende produttrici di materie prime e di prodotti alimentari, si affiancano quelle impegnate nell’agriturismo e quelle che svolgono compiti di manutenzione degli spazi rurali.
In questo sistema, la conoscenza e l’accesso all’informazione si rivelano decisivi per fare innovazione. Con l’integrazione delle attività di R&S, si persegue l’efficienza di sistema e non solo quella dei singoli attori. Nel caso di filiere integrate, l’industria fornisce più agevolmente agli agricoltori le innovazioni necessarie per produrre materie prime adatte alla trasformazione e questi le adottano con più tempestività e maggiori benefici. L’integrazione facilita una più solidale distribuzione dei margini, a beneficio del mondo agricolo (Boccaletti, 2001).
La crescente complessità sollecita il superamento della rigida separazione tra ricerca di base, applicata e divulgazione. Il “modello lineare”, con il quale per lungo tempo è stato concepito il processo di generazione dell’innovazione, attraverso fasi distinte e sequenziali, è oggi sottoposto a una revisione, che ne mette in discussione le implicazioni a livello di politica della ricerca. Secondo il modello centrato sulla scienza, è la ricerca che spinge l’innovazione (Arnold e Bell, 2001). I centri di ricerca stanno al vertice del processo, fornendo conoscenze che sono trasformate negli stadi successivi dalle imprese. Lungo il percorso cambia la natura della conoscenza (da pubblica a privata) e la motivazione degli agenti (dalla curiosità scientifica al profitto). Man mano che le forze economiche hanno dimostrato di pesare nei meccanismi innovativi, ha preso corpo un modello lineare rovesciato, centrato sul mercato. In agricoltura, l’ipotesi di innovazione indotta da condizioni economiche è stata documentata da Hayami e Ruttan (1985), che hanno evidenziato come le innovazioni agricole emergano in risposta a situazioni di scarsità di risorse e a specifiche opportunità economiche: negli Stati Uniti, dove abbonda la terra, sono state sviluppate le innovazioni meccaniche, risparmiatrici di lavoro, mentre in Giappone, dove è scarsa, hanno prevalso innovazioni tese ad aumentare le rese produttive.
I risultati più recenti, fondati su indagini empiriche, suggeriscono che gli obiettivi di curiosità e di applicazione pratica non sono del tutto separati, né conflittuali. Kline e Rosenberg (1986) hanno messo in evidenza che i modelli lineari non colgono adeguatamente la complessità delle relazioni tra i diversi tipi di conoscenza e la natura del processo innovativo. Non sempre, infatti, le fasi sono sequenziali. È stato perciò proposto il “modello a catena”, che sottolinea il ruolo giocato dai collegamenti tra la fase della ricerca e la percezione dei bisogni del mercato. L’innovazione è un processo iterativo, in cui l’impresa assume un ruolo centrale e ogni fase partecipa alla realizzazione del risultato finale. Ricercatori, tecnologi, clienti e fornitori si influenzano a vicenda, per mezzo di successive retroazioni (Malerba, 2000).
Il valore dello scambio è riconosciuto non solo alla scala aziendale, ma anche a quella di sistema, cioè prendendo come unità di riferimento un settore produttivo o un territorio. Per innovare, infatti, le imprese interagiscono con una vasta rete di istituzioni: centri di ricerca, di consulenza, banche, enti pubblici. Il ruolo delle istituzioni conduce al concetto di “sistema innovativo”. La sua elaborazione nasce da un lungo dibattito economico, centrato sull’evoluzione dello sviluppo industriale. Con lo smantellamento delle barriere commerciali e la diffusione dei mezzi di comunicazione e trasporto, l’innovazione si è diffusa in tutto il mondo e si è estesa dai settori a maggiore contenuto tecnologico verso quelli più tradizionali. Oggi quasi ovunque le aziende locali sono spinte a innovare e premono sui governi affinché sviluppino politiche di stimolo al progresso tecnologico. Le analisi degli economisti evolutivi offrono spiegazioni del processo di innovazione sempre più idonee a fornire linee pratiche di intervento (3). Le economie di maggior successo sono caratterizzate da "sistemi nazionali d’innovazione", che favoriscono l’interazione tra gli attori imprenditoriali, scientifici e istituzionali, innescando processi di apprendimento continuo, in risposta ai cambiamenti economici e tecnologici (Lundvall, 1992).
Sebbene il concetto di sistema d’innovazione sia relativamente nuovo per i responsabili delle politiche agricole, oggi è adottato come modello di intervento anche dalla Banca Mondiale (2006), per potenziare l’innovazione in agricoltura.
Il concetto di sistema di innovazione, inizialmente focalizzato sui fattori macroeconomici, si è successivamente spostato verso la dimensione locale, con gli studi sui sistemi regionali e locali d’innovazione. Essi si basano sull’idea che, sebbene la produzione di nuove conoscenze avvenga su scala globale, i processi di applicazione si sviluppano in loco, mediante le interazioni fra attori, che ricombinano i saperi e li adattano alle esigenze delle imprese (Cooke et al., 2004).
Questo approccio si presta particolarmente alla situazione italiana, dove lo sviluppo agricolo e rurale è fortemente correlato alla dimensione locale, come testimoniato dal rilevante peso assegnato all’agricoltura all’interno dei progetti Leader e dalle speranze riposte nell’avvio dei distretti rurali e agro-alimentari di qualità.
La tripla elica e i servizi di sviluppo
Nell’ambito degli studi sui processi locali di innovazione, si è recentemente avviato un ampio dibattito sul tema dei Distretti Tecnologici (DT). I DT sono aree di scala sub-regionale a vocazione scientifico-industriale, in cui esistono eccellenze di ricerca e filiere produttive in grado di valorizzarle. Anche in Italia si sta puntando sulla creazione di DT quale leva di competitività territoriale. Un modello analitico di riferimento per l’istituzione dei DT è quello della “Tripla Elica” (Etzkovitz, Leydesdorff, 2000), che cerca di individuare la forma più adatta da dare ai rapporti tra i tre pilastri dello sviluppo tecnologico nel territorio: ricerca, impresa e Stato (Figura 1).
Figura 1 - Modelli della Tripla Elica
Fonte: Etzkovitz e Leydesdorff, 2000, modificato
Vi sono tre possibili rappresentazioni. La prima, ove lo Stato incorpora l’università e l'industria e dirige i rapporti fra loro. La versione forte è quella presente nei Paesi dell’Europa orientale, prima del crollo del 1989. Quella debole è riscontrabile nelle politiche di molti Paesi latino-americani e in alcuni europei, come la Norvegia. Una seconda configurazione, opposta alla precedente, vede le tre sfere separate da robusti confini e con rapporti circoscritti tra di loro. Essa è assimilabile ai sistemi innovativi basati su politiche tecnologiche di laissez faire, come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e quei Paesi che sperimentano terapie shock al fine di superare la transizione verso il mercato. La proposta innovativa consiste nella terza tipologia, finalizzata a creare una zona di stretta interazione tra le tre sfere istituzionali. Questa intersezione si concretizza nell’istituzione di organismi “ibridi” (le agenzie), snelli ma con un mandato pieno a coordinare le attività in modo unitario, al fine di favorire l’erogazione di servizi di pubblica utilità per la diffusione dell’innovazione (4).
Le tre configurazioni della Tripla Elica si prestano come prototipi delle possibili modalità di organizzazione dei SSA e del futuro assetto del sistema innovativo agricolo nel nostro Paese. L’approccio dirigista ai SSA è quello prevalente nel passato, ove lo Stato non solo finanziava, ma entrava pesantemente nella gestione, con la mediazione degli organismi corporativi. Non avendo ottenuto risultati soddisfacenti, appare oggi un modello da superare. Lo schema liberista è proposto da chi sostiene che la gestione dei servizi debba essere affidata al mercato. Secondo questo punto di vista, il sostegno pubblico, se previsto, deve essere limitato al mero finanziamento, mentre la gestione delle attività deve essere lasciata alle dinamiche della domanda e dell’offerta. Questa è la strada intrapresa nell’ultimo decennio presso i SSA di molti paesi nordeuropei. È anche la via scelta dall’UE per finanziare i servizi di consulenza previsti dal regolamento sullo sviluppo rurale. Infatti, i nuovi PSR prevedono un sostegno alle aziende per migliorare la gestione, sia diffondendo il rispetto delle norme di condizionalità, sia elevandone la competitività. Si pone, pertanto, un problema di assetto dei SSA a livello regionale. La carenza di fondi indirizza le Regioni verso la privatizzazione dei servizi. In questo modo si persegue l’efficienza, ma si escludono molte aziende e si rinuncia a orientare il sistema.
Se lo scopo è invece quello di guidare il cambiamento verso gli obiettivi collettivi, la sfida è l’attivazione di sistemi innovativi ispirati all’ultimo dei modelli della tripla elica, in grado di valorizzare i SSA in una versione più adatta ai mutamenti in atto. È una sfida ardua, che prevede che si continui a produrre conoscenza, ma senza oltrepassare i limiti di sostenibilità della spesa pubblica. Come centrare questo doppio obiettivo, considerando che i bisogni di specializzazione degli agricoltori sono in espansione, in campi di grande interesse pubblico, mentre le risorse diminuiscono?
L’istituzione di Agenzie regionali, intese come “case comuni”, da una parte favorisce una più puntuale individuazione dei bisogni di R&S, grazie alla partecipazione diretta delle imprese beneficiarie. Dall’altra, se dotate di reali poteri di gestione, rappresenta la creazione di concreti luoghi d’incontro tra il finanziatore pubblico e le istanze tecnico-scientifiche, in grado di razionalizzare l’offerta di innovazione e renderla coerente con le reali disponibilità di risorse. Una governance partecipata può facilitare anche la composizione degli interessi dei vari attori coinvolti nei processi attivati nei SSA (soprattutto riguardo ai soggetti erogatori, quali organizzazioni agricole, associazioni dei produttori, cooperative, studi professionali, strutture tecniche pubbliche ecc.), la cui contrapposizione rischia di ostacolarne il buon funzionamento. Infine, lo sviluppo delle tecnologie informatiche e la diffusione degli strumenti di comunicazione consente una più efficiente costruzione di “piattaforme di conoscenza”, create con la collaborazione di tutti gli attori, continuamente aggiornate e fruibili a più livelli a costi sempre più ridotti (Klerkx, 2008).
In definitiva, si tratta di creare le basi per fare di più e meglio, ma con meno risorse. Si tratta di riprendere il cammino dei docenti delle “Cattedre ambulanti”, sostituendoli con moderni professionisti della consulenza, dotati di tecnologia, capacità di ascolto e desiderio di imparare. E non tanto predisposti a calare dall’alto ciò che la Scienza rivela, quanto capaci di facilitare gli agricoltori a scoprire ciò di cui hanno realmente bisogno.
Note
(1) Il primo deriva dall’osservazione della struttura industriale di fine ottocento, fondata su molte piccole aziende, in cui emerge la figura dell’imprenditore creativo. Il secondo è ispirato al contesto industriale americano di metà novecento, basato sulle grandi imprese, in cui l’innovazione è pianificata nei laboratori di R&S (Nelson, 1982).
(2)La prima è quella dei settori in cui le innovazioni provengono prevalentemente dai fornitori di materie prime e sono finalizzate soprattutto alla riduzione dei costi. Le caratteristiche tipiche del gruppo sono la piccola dimensione aziendale, le basse barriere all’entrata e l’assenza di funzioni interne di R&S. Al contrario, i settori “basati sulla scienza” e i “fornitori specializzati” risultano sostanzialmente dei generatori di innovazione verso gli altri settori. Le imprese “ad ampia scala” presentano una natura mista.
(3) Per un approfondimento sull’approccio evolutivo nell’economia dell’innovazione, si rimanda al testo di Malerba (2000).
(4) Per un approfondimento su varie applicazioni di modelli di Tripla Elica, si rimanda a Etkovitz e Zhou (2007).
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