Sviluppo rurale e donne: alla ricerca di nuovi paradigmi di competitività

Sviluppo rurale e donne: alla ricerca di nuovi paradigmi di competitività
a Università di Verona, Dipartimento di Scienze Economiche
b Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Statistiche «Paolo Fortunati»

Introduzione

L’analisi delle principali caratteristiche del capitale umano presente nell’agricoltura italiana sotto un profilo di genere ha lo scopo di evidenziare il ruolo delle donne nello sviluppo rurale, nonché di individuare alcune strategie per una piena applicazione delle pari opportunità per donne e uomini nel complesso sistema agro-alimentare italiano.
Le assunzioni alla base dell’indagine sono due. Da un lato, si assiste alla crescente femminilizzazione del settore agricolo, soprattutto se l’ottica è quella dell’imprenditoria femminile; questo processo investe tutti i paesi dell’UE, ma in misura più accentuata la realtà italiana. Su altro versante vi è invece la sostanziale assenza delle donne nella costruzione delle politiche rurali e agricole ai differenti livelli, nonché nella attuazione dei piani di sviluppo a livello locale, nonostante l’apprezzabile sforzo delle organizzazioni professionali e del Ministero delle Politiche Agricole Agroalimentari e Forestali nella creazione di istituzioni ed osservatori per affrontare la questione femminile.
Da queste assunzioni discendono alcuni quesiti. Il primo riguarda il reale ruolo delle donne nello scenario italiano, ricco di complessità ed eterogeneità. Profonde sono state infatti le trasformazioni: nuovi rapporti tra proprietà e impresa, nuove organizzazioni della produzione e del lavoro, più stretti e diversificati rapporti con i mercati, nuove forme di imprenditorialità. Queste trasformazioni, ancora più rilevanti a livello territoriale, dipendono dai mutamenti economici, sociali e demografici che hanno investito le diverse aree del paese. In questo quadro la crescente femminilizzazione del settore assume una connotazione positiva o deve essere considerato come un fenomeno residuale?
Il secondo quesito è legato alle profonde riforme istituzionali dell’UE. La multifunzionalità dell’azienda agricola, non più solo produttrice di beni alimentari, ma in grado anche di fornire servizi ambientali e paesaggistici, ricreativi e turistici, nonché di sicurezza e qualità degli alimenti per l’intera società, è stata posta al centro delle politiche agricole. Questo ampliamento di funzioni può consentire un miglioramento della posizione delle donne e delle loro opportunità di vita e di lavoro? In che misura e in quali contesti territoriali le donne possono concorrere a trovare nuove modalità di competitività nel mondo rurale e nel sistema agroalimentare italiano?
Su un altro versante, a partire dal 1996 (COM, n. 67 final) si è affermato il principio del mainstreaming gender, una svolta sostanziale nell’agenda politica della UE, ispirata fino a quel momento al principio di women’s perspective, in base al quale le donne rappresentavano un gruppo svantaggiato nella società, al quale riservare iniziative particolari. Il nuovo approccio riconosce invece che l’adattamento della società deve avere lo scopo di introdurre significativi miglioramenti nella vita sia degli uomini, sia delle donne. A ciò si accompagna un altro concetto, cioè che le donne non devono più essere considerate come un gruppo omogeneo, ma che occorre tenerne presenti le differenziazioni, in base al ciclo di vita, all’età, alla classe di reddito ecc. La prospettiva di genere non è però ancora riuscita a modificare pienamente i più importanti ambiti decisionali dell’UE, soprattutto perché si scontra con un’ineguale distribuzione di potere gerarchico rispetto alle altre politiche; ciò si rileva anche per le politiche agricole, al di fuori delle enunciazioni formali.

Le donne nell’agricoltura italiana

Secondo le rilevazioni censuarie del 2000 (1), le donne presenti nelle famiglie agricole italiane a qualsiasi titolo e con qualsiasi impegno erano oltre 2,1 milioni (Tabella 1). Il 79% di esse erano impegnate nelle attività aziendali, rispettivamente quasi il 37% come conduttrici e il 35% come mogli, mentre il resto faceva parte del nucleo familiare in qualità di ascendenti, discendenti o con altri legami di parentela, con un minimo apporto alle attività agricole in forma saltuaria e stagionale.

Tabella 1 - Le donne nell’agricoltura italiana

Fonte: Censimenti dell’agricoltura

La quota maggiore di lavoro femminile agricolo era espressa dalle donne presenti nella famiglia (88%) Il lavoro femminile familiare, oltre 88 milioni di giornate e oltre un terzo del lavoro familiare totale, presenta una contrazione (-26%) rispetto agli anni Novanta, in linea però con la diminuzione registrata per gli uomini. Le salariate, pressoché equamente suddivise fra tempo determinato e tempo indeterminato, presentano la più elevata riduzione rispetto ai decenni precedenti, sulla cui reale entità sorgono alcuni interrogativi. Il calo sembra collegarsi infatti solo in parte ai profondi mutamenti nei processi produttivi e da un sempre maggiore apporto dei servizi di contoterzismo. Vi è invece da chiedersi se questo dato non nasconda fenomeni di lavoro non dichiarato, soprattutto per le lavoratrici immigrate stagionali.
Il dato complessivo del lavoro familiare nasconde alcune dinamiche di segno opposto. Mentre le conduttrici aumentano, anche se di poco, sia nel numero sia nelle giornate lavorate, le altre figure femminili diminuiscono fortemente il loro apporto. In particolare, prosegue anche negli anni Novanta, in misura ancora più consistente dei decenni precedenti, la drastica diminuzione dell’apporto delle mogli alle attività aziendali, passando da oltre 1,7 milioni di unità a poco più di 1,2 milioni (-28%, con punte del -36% nelle aree montane). Soprattutto il loro contributo lavorativo diminuisce in misura accentuata, con quasi il 40% in meno delle giornate lavorate. Se la contrazione numerica può essere legata anche alla diminuzione delle unità aziendali soprattutto nei contesti più svantaggiati, le dinamiche in atto nella società sembrano aver mutato significativamente le strategie di queste figure nei confronti dell’impegno aziendale.
Solo il 60% delle mogli dichiarano un apporto nelle attività aziendali e questo valore decresce nelle aree di pianura. Purtroppo non esistono informazioni disaggregate per sesso per il lavoro prestato al di fuori dell'azienda dai singoli componenti. Alcune considerazioni possono essere dedotte dai dati complessivi, dato che i coniugi al femminile rappresentano il 75% del totale. Se consideriamo che i coniugi prevalentemente o esclusivamente presenti in azienda sono circa il 50%, mentre quelli esclusivamente impegnati nel mercato del lavoro sono il 16%, si può ragionevolmente supporre che una larga parte delle mogli abbia preferito l'inserimento nel mercato del lavoro, anche in forma precaria, soprattutto nelle aree dove le condizioni dello sviluppo offrono opportunità. A fronte di una sempre maggior dipendenza delle famiglie agricole dai redditi monetari percepiti extra-azienda e ad una mancata riconoscibilità di uno professionale nell’azienda, molte di esse hanno preferito la ricerca di un'identità specifica nel mercato del lavoro e la percezione di redditi monetari, su cui forse possono detenere meglio il controllo. Sulla reale entità dell’abbandono delle mogli e delle altre componenti familiari, possono sorgere alcuni dubbi. La flessibilità nel lavoro, che nell’azienda agricola non consente spesso di separare nettamente lavoro di produzione e di ri-produzione, tende a renderne invisibile l'impegno, in particolare in presenza di ordinamenti altamente intensivi di lavoro e nei periodi di punta. Anche il rilevamento di un unico conduttore o capo azienda, di sesso maschile o femminile, conduce alla sottostima del loro contributo alle attività aziendali, in cui spesso esplicano un ruolo di co-conduzione.
Va tuttavia sottolineato che la presenza delle mogli sembra fondamentale per la prosecuzione dell'attività agricola; gli imprenditori maschi continuano nel 89% dei casi soltanto grazie alla presenza di una compagna, indipendentemente dal fatto che sia impegnata in azienda o meno, senza scarti territoriali tra montagna, collina e pianura.
Nulla possiamo invece conoscere circa la presenza di giovani donne, non imprenditrici e non mogli, all’interno dell’azienda familiare, che rappresenta la tipologia prevalente nella realtà italiana. Queste informazioni sarebbero state estremamente rilevanti per valutare se esista o meno un ricambio generazionale al femminile nelle aziende. Il problema dell’invecchiamento dei conduttori agricoli in Italia ha raggiunto punte drammatiche rispetto agli altri settori (con oltre 82% dei conduttori con più di 55 anni nel 2000). Capire se è prevedibile un potenziale ingresso da parte di giovani donne, forse ora occupate altrove, forse impegnate in percorso scolastico, riveste perciò un’importanza fondamentale per comprendere attraverso quali misure sarà possibile favorire un maggiore impegno delle donne nel mondo rurale.

Le imprese al femminile

Il tasso di femminilizzazione delle aziende agricole italiane muta, ma non in misura significativa, secondo la fonte utilizzata. Secondo le rilevazioni di Unioncamere, le imprese agricole femminili attive al dicembre 2003 erano circa 280 mila (Tabella 2) e il rapporto tra imprese in rosa rispetto all’universo totale era pari al 28,5%, che scendeva al 23,5% con l’inclusione delle imprese relative al comparto della pesca. I più elevati livelli di imprese femminili si rilevavano nelle regioni meridionali, in linea con la “meridionalizzazione” delle strutture agricole italiane, mentre nel Nord del paese solo un’impresa agricola su 5 era condotta da donne.
Secondo le rilevazioni censuarie, l’universo aziendale al femminile risulta invece sovradimensionato. Le aziende in rosa erano oltre 795 mila con un saggio di femminilizzazione solo leggermente superiore (30,9%) (Tabelle 3 e 4), con picchi più elevati nelle aree montane (quasi il 32,5%). Su questi dati pesa un limite di carattere più generale, sottolineato sia nella ricerca, sia dalle organizzazioni professionali, rappresentato dal fatto di non operare in sede censuaria alcuna distinzione tra imprese e aziende agricole. In questa direzione la definizione di impresa agricola adottata nel Censimento del 2000, quella cioè che intrattiene rapporti con il mercato anche se per importi assolutamente irrisori, non sembra ancora sufficiente.

Tabella 2 - Tasso di femminilizzazione delle imprese agricole attive per circoscrizione

Fonte: Rilevazioni Unionecamere, 2003

 

Tabella 3 - Le aziende agricole al femminile per zona altimetrica

Fonte: Censimento dell’agricoltura, 2000

 

Le imprenditrici rappresentano dunque una realtà ormai consolidata nell’agricoltura italiana, anche se sembra interrotto il processo di forte crescita dei decenni precedenti. Tuttavia, se l’incremento degli anni Novanta (1,7%) appare limitato rispetto a quello degli anni Settanta (4,7%) e degli anni Novanta (9,9%), si tratta comunque di un processo in netta controtendenza rispetto alla forte contrazione delle imprese maschili (-19,7%). La disaggregazione a livello territoriale evidenzia come, a fronte di una netta contrazione nelle aree montane, le aziende in rosa aumentano in pianura e in collina. Complessivamente la superficie agricola condotta è pari ad oltre 2.4 milioni di ettari (18,5% del totale italiano).
La maggior parte delle aziende in rosa (61%) è condotta da imprenditrici anziane, con quasi il 53% della Sau (Tabella 4); le imprenditrici con più di 65 anni sono incrementate nel decennio Novanta, a dimostrazione di un processo di invecchiamento più accentuato rispetto agli uomini. A fianco di questa imprenditoria anziana, di cui purtroppo nulla è possibile conoscere sulla collocazione territoriale, esiste una quota consistente di donne tra i 24 ed i 54 anni, che conducono circa il 46% delle superfici agricole al femminile. Le giovanissime rappresentano invece una realtà pressoché irrilevante, anche se le modeste superfici a loro disposizione aumentano nel corso del tempo.

Tabella 4 - Le imprenditrici per classe di età

Fonte: Censimento dell’agricoltura, 2000

 Sotto un profilo familiare, le imprenditrici sono per quasi la metà donne sole, ma quando vi è la presenza di un coniuge, vi è un impegno di quest’ultimo nell’attività aziendali nell’85% dei casi, con scarse differenziazioni territoriali. Da un lato, vi sono dunque processi per molti aspetti scontati, cioè un'ampia quota di imprenditoria al femminile anziana, legata alla mancanza di un compagno de jure o de facto, come effetto di maggiori probabilità di vita delle donne rispetto agli uomini, ed alla marginalità dell'azienda e del contesto territoriale. Dall'altro sembrano delinearsi alcune realtà molto interessanti caratterizzate da imprenditrici più giovani, forse più dinamiche (2).
La trasmissione dell’azienda agricola alla conduzione femminile sembra per la quasi totalità avvenire all’interno della famiglia. Interessanti a questo proposito risultano alcuni dati relativi all’utilizzo della legge 215 del 1992 rivolta all’imprenditoria femminile (3), che emergono dal rapporto nazionale sulle imprese femminili, condotto dal Ministero delle Attività Produttive in collaborazione con Unioncamere. Nei primi tre bandi le domande per le quali era stata concessa un’agevolazione erano soltanto 144, appena il 5% del totale, percentuale ulteriormente scesa nell’ultimo bando (2,7% del totale), ma con notevole aumento dell’agevolazione media concessa, da circa 26 mila euro a oltre 44 mila euro. Ulteriori elementi di riflessione emergono se si considerano le domande inattive per i primi 3 bandi, cioè quelle per le quali si sono verificate rinunce, revoche o il decadimento per il non ottemperamento dei requisiti necessari. Per il settore primario le domande inattive rappresentavano ben il 64% delle domande ammissibili, in misura nettamente superiore agli altri settori. Questi dati dimostrano come il provvedimento non sembri aver risposto alle specificità del settore agricolo, ma anche il limitato ricorso all’intervento pubblico da parte delle donne per fare “impresa” in agricoltura. A questo proposito sarebbe interessante poter valutare in che misura le imprenditrici ricorrano alle misure previste dai Piani di sviluppo rurale regionali.
Le informazioni sul livello di formazione (Tabella 5) evidenziano un capitale umano femminile in continua crescita, anche se ancora permane una quota di conduttrici senza alcun titolo di studio (13%). La quota maggiore di laureate, anche nell'indirizzo agrario, si rileva nelle regioni meridionali, dove però si presenta una dicotomia: da un lato, una più elevata formazione, dall'altro, ancora un largo peso di imprenditrici prive di titolo di studio o con la licenza elementare. Interessante è sottolineare la partecipazione a corsi di formazione, che si mantiene in tutto il paese, ad eccezione delle regioni nord-orientali.

Tabella 5 - Capi azienda donne per circoscrizione e titolo di studio (valori in migliaia)

Fonte: Censimento dell’Agricoltura, 2000

 Larga parte delle aziende al femminile si concentra nelle più basse dimensioni fisiche ed economiche. Circa 30 mila aziende in rosa non intrattengono alcun rapporto con il mercato (circa il 4% del totale, percentuale nettamente più bassa rispetto all’universo totale). All’interno di quelle che sono definite imprese ai fini censuari, quasi il 90% dichiarano un Rls al disotto degli 8 Ude (9600 euro), importo in media inferiore ad un trattamento pensionistico. Si tratta dunque di aziende accessorie e marginali, spesso destrutturate, che non hanno rilievo sotto un profilo economico, ma possono rivestire un ruolo importante da un punto di vista ambientale. Solo 5,6% delle unità si collocano nella fascia dell’agricoltura professionale (tra gli 8 ed i 40 Ude); infine appena l’1% appartiene alla tipologia delle imprese di accumulazione. A livello territoriale, il 65% delle imprese di piccola dimensione economica si rileva nelle regioni meridionali e insulari; di segno contrario sono le dinamiche nelle aziende professionali e di accumulazione, il cui peso, soprattutto nell’area della professionalità, aumenta nelle regioni settentrionali.
Sotto un profilo strutturale, le aziende al femminile hanno modeste superfici utili a disposizione, appena 3 ettari in media, senza scarti significativi tra montagna collina e pianura; in media oltre l’87% delle imprese in rosa sono al di sotto dei 5 ettari. Va tuttavia sottolineato che il confronto con i dati censuari del 1990 evidenzia un aumento di quasi il 10% delle superfici condotte e tale incremento si verifica soltanto nelle aziende dai 10 ettari in su.

Alcune conclusioni

La breve analisi condotta sul ruolo delle donne nello scenario agricolo e rurale consente alcune considerazioni finali, che non possono essere disgiunte da quelle di carattere più generale.
La prima considerazione è legata ai profondi mutamenti istituzionali e di mercato che hanno investito il mondo agricolo e rurale Al tempo stesso il mondo rurale è stato oggetto di mutamenti spesso indipendenti dall’intervento pubblico; fra gli altri possiamo ricordare quelli nella concentrazione demografica, le trasformazioni sociali delle famiglie e la diversificazione del mercato del lavoro, l’introduzione delle nuove tecnologie della comunicazione. Questi mutamenti potranno risultare rilevanti per le donne, a qualunque titolo impegnate nel mondo agricolo, siano esse conduttrici o mogli o figlie, in particolare nelle aree con divari nello sviluppo (montagna, regioni meridionali).
Nella costruzione dei programmi territoriali la sfida che si pone è duplice.
Da un lato vanno senz’altro promosse le iniziative volte al sostegno e all’ampliamento di quella parte dell’imprenditoria femminile già presente sui mercati, sia dei prodotti alimentari sia dei servizi turistici e ricreativi.
Queste iniziative non potranno essere disgiunte da altre azioni fondamentali. Queste donne, che hanno un potere nelle loro famiglie, nelle loro aziende, nelle loro comunità, non hanno spesso alcun potere strutturale nelle istituzioni pubbliche e private. La costruzione delle politiche avviene quindi senza una loro sostanziale partecipazione e di conseguenza gli interventi e le misure non tengono conto dei loro reali bisogni e delle loro aspettative, che spesso non sono solo legate agli aspetti economici, ma che investono la qualità delle loro vite.
La seconda sfida, che è comunque strettamente collegata alla precedente, è quella relativa all’ingresso di giovani donne nel mondo agricolo, siano esse figlie di famiglie rurali o provengano dall’esterno. Nei prossimi anni, in particolare nelle aree montane e collinari, un’ampia quota di territorio agricolo potrebbe essere disponibile sul mercato per mancanza di un successore. Valutare attraverso quali misure sarà possibile favorire l’accesso di giovani donne alla conduzione di nuove imprese agricole, potrebbe rappresentare una risposta non solo sotto un profilo produttivo, ambientale e paesaggistico, ma anche al perdurare di una forte disoccupazione giovanile, soprattutto nel Sud. Questo percorso richiede però un forte impegno a livello territoriale e regionale nell'individuazione di chiare linee guida nei singoli contesti, valutando di volta in volta in quali aree sia preferibile indirizzare gli interventi all’ammodernamento e al sostegno dell’imprenditoria già esistente e in quali invece debbano essere privilegiate le azioni di sviluppo rurale.

Note

(1) Le informazioni statistiche provengono sia dal volume tematico relativo alle donne, pubblicato nel 2004, sia da quello dedicato alle caratteristiche strutturali delle aziende. Nonostante il lodevole sforzo dell’Istat di mettere al centro la questione femminile, la ricostruzione della presenza delle donne mostra ancora alcune ombre. L’attenzione è soprattutto concentrata sulla donna imprenditrice, tralasciando maggiori informazioni sul resto delle componenti familiari.
(2) Nel 1990 le maggiori informazioni censuarie hanno consentito di evidenziare la loro presenza soprattutto nelle regioni meno industrializzate e con notevoli ritardi nello sviluppo, evidenziando come di fronte all'impossibilità di trovare uno sbocco nel mercato del lavoro, la loro opzione agricola ha consentito loro trovare un'identità ed uno status.
(3) Le agevolazioni previste potevano essere concesse per le seguenti attività: a) avvio di attività imprenditoriale, b) acquisto di azienda preesistente (anche mediante contratto di locazione); c) realizzazione di “progetti aziendali innovativi” connessi all’introduzione di innovazioni di prodotto, tecnologiche o organizzative; c) acquisizione dei servizi reali.

Riferimenti bibliografici

  • Ministero Attività Produttive, Unioncamere (2004), Impresa in Genere, Roma, 2004
  • Montresor E. (1997), “Le donne nell’agricoltura italiana; luci ed ombre”, La Questione Agraria, n. 68
  • Montresor E. (2000), "L'articolazione aziendale a livello territoriale nell'agricoltura italiana", in R. Fanfani, E. Montresor, L’agricoltura italiana verso il 2000, Franco Angeli.
  • Montresor E. (2005), “Imprese al femminile”, Sviluppo, n. 10
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