La recente pubblicazione, in lingua italiana, di un volume del sociologo olandese Jan Douwe van der Ploeg (1), offre l’opportunità di confrontarsi con il pensiero di uno studioso particolarmente innovativo, che è divenuto un riferimento centrale per quanti si interessano ai temi dello sviluppo rurale. Van der Ploeg coordina un ampio gruppo di ricercatori, che lavorano con un orientamento multidisciplinare, e riveste anche un ruolo importante a livello dell’orientamento delle politiche agrarie in Europa, con riferimento sia al rafforzamento del “secondo pilastro” della PAC, sia all’introduzione di politiche appropriate a livello regionale.
L’autore propone una lettura dei cambiamenti in corso nell’agricoltura europea come tendenziale affermazione di un nuovo “paradigma di sviluppo rurale”, inteso come alternativo a quello della modernizzazione agricola. Alla base del nuovo paradigma si collocano le pratiche di agricoltura economicamente e socialmente sostenibili che si producono come risposta ai modelli di gestione aziendale dominati dal mercato, regolati da regimi tecnologico-istituzionali e sostenuti da politiche subordinate agli interessi agro-industriali.
L’insostenibilità economica e sociale della modernizzazione
La critica alla teoria della modernizzazione agricola, sulla quale si sono fondate le politiche agrarie nella seconda metà del ventesimo secolo, è sviluppata con riferimento alla sua insostenibilità economica e sociale, conseguente alla sostanziale dipendenza del settore agricolo dai fattori esterni, sia a monte che a valle del processo produttivo. Il discorso prende in considerazione i processi di destrutturazione determinati dalla modernizzazione a livello aziendale, sottolineando la rottura dell’unità tra produzione e riproduzione dei fattori produttivi e il progressivo sganciamento dell’agricoltura dal contesto locale, inteso come ecosistema e come prodotto di rapporti sociali. La riproduzione dei fattori produttivi “naturali” (terra, acqua, piante, animali) non è più controllata dall’agricoltore, che organizzava tradizionalmente la sua attività in funzione sia della produzione che della riproduzione, ma viene prodotta da parte del sistema agro-industriale esterno.
L’introduzione in azienda dei fattori di produzione esterni presuppone il loro impiego secondo la logica del sistema che li ha creati, sulla base delle norme stabilite dal regime tecnologico e delle prescrizioni imposte dall’apparato statale. Si determina in tal modo una standardizzazione dei processi produttivi, sempre più sganciati dai contesti locali e sempre più dipendenti dalle prescrizioni esterne (regulatory treadmill). L’agricoltore viene ad essere espropriato delle sue capacità gestionali, basate sulle conoscenze acquisite e sulla attitudine a sperimentare per migliorare le condizioni produttive. Il modello proposto dalla modernizzazione produce una figura di agricoltore “virtuale”, come lo definisce J.D. van der Ploeg, capace di eseguire correttamente un complesso di operazioni prescritte dall’esterno e trasmesse attraverso un apparato di divulgazione e assistenza tecnica. Tale sistema si traduce, d’altra parte, in una pressione economica insostenibile, definita squeeze on agriculture, determinata da una costante riduzione del rapporto tra ricavi e costi di produzione, e che appare chiaramente un indicatore strutturale della crisi della modernizzazione agricola.
Il modello produttivistico di azienda, elaborato sulla base della teoria della modernizzazione e sostenuto dalle politiche agricole europee, è stato assunto come modello ottimale di gestione nei diversi paesi dell’Europa occidentale. Le aziende che non fossero riuscite a conformarsi a tale modello erano destinate a scomparire e si sarebbero così eliminate le differenziazioni presenti nei diversi contesti produttivi. Se da un lato tale processo ha determinato la scomparsa di oltre il 40 per cento delle aziende nel periodo 1975-1995, dall’altro non si è prodotta la convergenza verso un unico modello di gestione, ma è invece aumentata la diversificazione.
La differenziazione delle pratiche agricole
Per spiegare la differenziazione delle pratiche agricole, viene elaborato il concetto di stile aziendale, che si configura come principio strutturante, finalizzato ad assicurare una gestione coerente dei diversi elementi per garantire la produzione agricola. La pratica agricola si produce attraverso un processo complesso, che l’autore ricostruisce con riferimento a diversi livelli. In primo luogo, si basa su uno specifico repertorio culturale, che comprende sia il modo di intendere l’agricoltura, sia la conoscenza acquisita. In secondo luogo, si materializza attraverso specifiche forme di organizzazione del processo lavorativo, stabilite sulla base della composizione e delle aspettative della famiglia, nonché della disponibilità di risorse produttive. In terzo luogo, si manifesta nelle modalità di rapportarsi ai fattori esterni, che comprendono le relazioni con il mercato e con la tecnologia, non più intesi come fattori strutturalmente determinanti, ma come elementi che possono essere utilizzati dai soggetti sociali in funzione delle proprie convenienze. In quarto luogo, si esprime nella capacità di elaborare strategie di difesa rispetto alle regole stabilite dal sistema istituzionale e di indicare nuove prospettive di sostegno alle forme di agricoltura capaci di assicurare la produzione e riproduzione delle risorse.
Questo tipo di analisi consente di interpretare il processo di cambiamento in agricoltura in termini rovesciati rispetto a quelli previsti dalla modernizzazione, in quanto riafferma il ruolo determinante delle pratiche sociali nei confronti del mercato, della tecnologia e dello Stato. Queste pratiche non sono intese come sommatoria di progetti individuali, autonomamente elaborati e riprodotti, ma come risultato di una stretta integrazione con i progetti di altri soggetti sociali. Il primo ambito di riferimento è dato dal contesto locale e si manifesta attraverso diverse forme di cooperazione economica tra i produttori. Altri ambiti riguardano inoltre i rapporti con i settori esterni, per l’acquisizione dei fattori produttivi e per la collocazione dei prodotti. Attraverso la connessione con diversi progetti, si elaborano le risposte attive degli agricoltori. La convergenza dei diversi progetti si configura come elemento strutturante determinante.
Tali pratiche danno origine ad innovazioni introdotte a livello della gestione aziendale, che si configurano come riduzione del grado di mercificazione e di incorporamento nel sistema tecnologico. In termini generali, questa tendenza viene descritta come “superamento dei confini” stabiliti dal regime tecnologico e si esprime attraverso tre distinti processi. Il primo riguarda la “valorizzazione” (deepening) e si riferisce a quelle attività che consentono di aumentare e conservare il valore aggiunto per prodotto: agricoltura organica, produzione di qualità, trasformazione dei prodotti in azienda, filiere corte. Il secondo processo viene definito come “allargamento” (broadening) delle attività praticate a livello aziendale, comunque integrate con l’agricoltura: agri-turismo, agricoltura sociale, conservazione del paesaggio, produzione energetica. Il terzo processo, definito in termini di “rifondazione” (regrounding), riguarda le strategie adottate per acquisire le risorse e per ridurre i costi di produzione: pluriattività, che consente di acquisire risorse monetarie e di ridurre la dipendenza dal sistema bancario, produzione di fertilizzanti organici, scambio sociale di prodotti da impiegare nel processo produttivo.
La centralità dell’agricoltura contadina per lo sviluppo rurale
Lo sviluppo rurale è concepito da van der Ploeg come strutturalmente fondato sull’agricoltura economicamente e socialmente sostenibile, organizzata secondo il modello di produzione contadino. Lo spazio rurale viene infatti definito come luogo della “co-produzione”, dove si esprime cioè la relazione tra natura e società, che sta alla base della razionalità contadina. Questa posizione si differenzia radicalmente da quelle visioni che concepiscono lo sviluppo rurale come valorizzazione delle risorse di qualunque natura (produttive, storiche, culturali, ambientali) esistenti nell’ambito di uno specifico contesto territoriale, identificato come rurale in base agli indicatori tradizionali della densità demografica e della consistenza degli insediamenti abitativi. Riaffermando il primato delle pratiche agricole sulle altre forme di attività, si stabilisce anche un limite nei confronti dei diversi interessi che in questa fase tendono ad occupare i territori rurali, promuovendo iniziative che si configurano più come sfruttamento che come valorizzazione delle risorse esistenti.
Si tratta di una visione profondamente contrastante con le concezioni, tuttora diffuse a livello dell’apparato tecnico-istituzionale, che considerano lo sviluppo rurale, al pari dello sviluppo economico, come prodotto delle politiche e delle iniziative promosse dall’esterno. Anche nei confronti del ruolo svolto dalle politiche, considerato comunque rilevante, si propone un rovesciamento di prospettiva, nel senso di concepirle come utili “strumenti di sostegno” ai processi determinati dalle pratiche sociali consolidate a livello locale. Questo implica un sostanziale ri-orientamento delle politiche e del sistema di divulgazione agricola sia a livello centrale che locale.
Pertanto, lo sviluppo rurale è inteso non come “prodotto”, ma come “processo” localmente radicato e socialmente controllato, che si determina sulla base di una specifica combinazione di fattori endogeni ed esogeni. Tale processo si caratterizza per la sua natura complessa ed eterogenea: si realizza su piani diversi e interconnessi, coinvolge una pluralità di attori, riguarda molteplici dimensioni. Si configura inoltre come processo autonomo, nel senso di essere essenzialmente determinato dai soggetti sociali che operano a livello locale e che elaborano strategie di sviluppo economicamente e socialmente sostenibile.
Si riconoscono in tale approccio evidenti connessioni con le teorizzazioni che alimentano il dibattito sullo sviluppo locale, sulle nuove forme di “altra economia”, sull’agro-ecologia e che sostengono la diffusione di pratiche alternative ai modelli di produzione e consumo imposti dal mercato (2). Van der Ploeg segnala a questo riguardo l’opportunità di ri-orientare anche la ricerca scientifica, principalmente integrata con il sistema tecnologico dominante, nella direzione di sostenere il consolidamento delle nuove pratiche agricole. Anche a questo livello, si indica un rovesciamento di prospettiva, che implica uno sganciamento della produzione scientifica dal sistema costruito in funzione della modernizzazione dell’agricoltura. Si tratta di una scelta politicamente fondata sulla necessità di “liberare” sia la ricerca dai vincoli dell’apparato tecnologico, sia l’agricoltura dalla dipendenza dal capitale finanziario e dalla subordinazione agli interessi agro-industriali.
Note
(1) Van der Ploeg J. D. (2006), Oltre la modernizzazione. Processi di sviluppo rurale in Europa, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ).
(2) Vedi, in particolare: Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino; AA.VV. (2004), Terra e libertà/critical wine, DeriveApprodi, Roma; Petrini C. (2005), Buono, pulito e giusto, Einaudi, Torino; Latouche S. (2005), Come sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino; Santos de Sousa B. (2005), Produrre per vivere, Città aperta, Troina; Altieri M.A. (1987), Agroecology. The Scientific Basis of Alternative Agriculture, Westview Press, Boulder; Guzman Casado G., Gonzales de Molina M., Sevilla Guzman E. (2000), Introduccion a la agroecologia como desarrollo rural sostenible, Mundi-Prensa, Madrid.