Il 15 settembre di quest’anno ricorreva il venticinquesimo anniversario della prematura scomparsa di Alessandro Bartola, docente di economia e politica agraria nell’Università Politecnica delle Marche.
Pochi, ormai, sono quelli che l’hanno conosciuto personalmente. I più sanno che al suo nome è intitolata l’Associazione che edita questa rivista. In sintonia con la ricorrenza della scomparsa di Bartola, questo editoriale è dedicato a ricordare il confronto intellettuale fra Alessandro Bartola e Giorgio Fuà in merito all’interpretazione del modello di “industrializzazione diffusa” (termine coniato da Fuà stesso) che, dagli anni Sessanta del secolo scorso in avanti, aveva interessato le regioni della cosiddetta “Terza Italia”, tra le quali le Marche (Fuà, Zacchia, 1984).
L’oggetto specifico della riflessione era la dirompente genesi e crescita, in questa regione, dei distretti industriali di piccola e media impresa: calzaturiero tra maceratese e fermano, del mobile intorno a Pesaro, della meccanica tra Jesi e Fabriano, del tessile-abbigliamento nella fascia medio-collinare di gran parte della regione, dell’agro-alimentare nell’ascolano. Il “modello Marche”, come fu denominato, si era prodotto in una regione ancora spiccatamente agricola (nel 1951 l’agricoltura rappresentava il 60,2% dell’occupazione totale delle Marche) e dove la forma di conduzione mezzadrile era in Italia la più diffusa.
Il contributo della mezzadria allo sviluppo diffuso
Lo scontro tra Bartola e Fuà era sulla replicabilità o meno di questo modello di sviluppo in altri contesti territoriali. La replicabilità sarebbe stata una caratteristica molto promettente perché, studiando lo sviluppo economico della “Terza Italia” e delle Marche nello specifico, se ne sarebbero tratte lezioni e ricette valide anche in altri contesti. Ricordo che, nell’occasione di un incontro con economisti e politici della Turchia, fu loro proposto di prendere spunto dall’esperienza marchigiana.
Bartola sosteneva che le determinanti del modello Marche fossero radicate nelle sue origini mezzadrili. In altre parole, che le componenti endogene dello sviluppo regionale fossero decisive e che il modello di sviluppo delle Marche non fosse replicabile nei territori in cui non si partisse dalle stesse basi. Ispirato anche da alcuni studi storici di Sergio Anselmi (1978, 2000), Bartola sosteneva che erano le peculiarità dell’agricoltura mezzadrile a spiegare la vitalità imprenditoriale della regione e che uno sviluppo duraturo non potesse fare a meno di integrare manifattura, territorio, ruralità e quindi anche agricoltura. Giorgio Fuà osservava invece il fenomeno più dal lato del processo di genesi e crescita industriale, con minore attenzione al territorio, al suo peculiare assetto sociale e alla sua eccellente gestione che con il lavoro dei mezzadri, in una regione argillosa e con forti pendenze, aveva assicurato l’equilibrio idrogeologico, il mantenimento della fertilità dei suoli e un paesaggio straordinariamente ameno.
È utile riassumere le caratteristiche salienti del contratto mezzadrile. In base a tale contratto, il concedente conferiva al mezzadro il podere di cui era proprietario, e il mezzadro, che si insediava nella casa colonica, forniva il lavoro suo e di tutta la sua famiglia. L’ordinamento colturale, come tutte le decisioni relativamente ai rapporti con il mercato, spettavano al concedente, spesso assistito da un fattore. Prodotti e utili venivano divisi in parti uguali (da qui il termine: mezzadria) o in percentuali diverse fissate nel contratto.
Richiamando la teoria marxiana del valore, il mezzadro è l’unico lavoratore dipendente che, applicando alla propria giornata lavorativa la percentuale del riparto dell’utile aziendale, conosce con esattezza quanto pluslavoro (il lavoro aggiuntivo che si trasformerà in plusvalore) gli viene estratto come conseguenza della proprietà privata dei mezzi di produzione. Quella dei mezzadri è dunque una categoria sociale che vive il rapporto di sfruttamento in modo particolarmente diretto ed evidente. Ne consegue una forte propensione al riscatto, all’iniziativa, al mettersi in proprio. Anche perché il concedente, dovendo dividere i proventi con il mezzadro, non trae nessun vantaggio ad investire in miglioramenti tecnici (specie se orientati a risparmiare lavoro o a migliorarne la qualità), mentre, all’opposto, ha tutta la convenienza a sfruttare al massimo il lavoro del mezzadro finché la sua produttività assicura un margine positivo.
Al tempo stesso, tuttavia, il mezzadro partecipa al rischio d’impresa: le scelte del concedente, giuste o sbagliate, premiano o penalizzano entrambi. Sotto la spada di Damocle della rescissione del contratto, Il mezzadro è inoltre tenuto a organizzare tutte le lavorazioni connesse ad un ordinamento colturale estremamente complesso in cui zootecnia bovina e coltivazione si integrano con tante altre attività aziendali (vite, olio, orto, allevamenti di suini, ovicaprini e bassa corte, raccolta di legname, anche lavori servili, ecc.) che impegnano, in ruoli consolidati nel tempo, tutta la sua famiglia: spesso allargata non solo a genitori e figli, ma anche a consanguinei e affini di secondo o terzo grado.
Nascere e crescere in una famiglia in cui il reddito era variabile in relazione all’andamento della produzione e del mercato e in cui si discuteva continuamente degli errori o delle scelte giuste del concedente, in relazione alla buona o cattiva amministrazione dell’impresa e all’andamento delle produzioni e dei mercati, è stata una scuola di impresa formidabile. Una scuola che coinvolgeva tutti i mezzadri e tutti i loro familiari. Se si considera che in una regione come le Marche le aziende mezzadrili erano 59.620 nel 1961, quando già la diffusione del contratto era in caduta, si può concludere che la regione intera andasse a scuola di impresa.
L’abitudine a gestire una organizzazione complessa, lo scambio di lavoro ma anche di informazioni tra mezzadri e l’esperienza imprenditoriale diretta, assunta, come diceva Becattini, “con il latte materno”; tutto questo era, secondo Bartola, alla base della genesi e del successo della rete di imprese manifatturiere della regione.
Ovviamente contavano anche i fattori esogeni dello sviluppo. La loro carenza fino a quel momento aveva impedito il decollo della regione. Ma dagli anni Sessanta se ne erano attivati numerosi e di diversa natura: la crisi dei sistemi di fabbrica tayloristico-fordisti; la penuria di servizi e la congestione nelle grandi città, specie quelle di grande immigrazione, che influivano negativamente sul costo della vita; la rafforzata pressione dei sindacati nei contesti urbani e nelle grandi dimensioni di impresa, che spingeva a cercare localizzazioni in periferia con costi di lavoro più bassi; il miglioramento del sistema dei trasporti e quindi dell’accessibilità ai mercati delle regioni dell’Italia centrale; la disponibilità di nuove tecnologie, che abbassavano la soglia minima delle economie di scala; le variazioni della domanda conseguenti al miglioramento dei redditi. Per queste ed altre ragioni, le regioni come le Marche non erano più così periferiche, né così estranee allo sviluppo come nel passato. L’enorme potenziale di iniziativa imprenditoriale dei mezzadri e delle loro famiglie poteva finalmente attivarsi.
Le componenti esogene avevano dunque livellato il terreno per lo sviluppo della periferia, ma non spiegavano perché proprio le Marche, come altri territori ex-mezzadrili, avessero potuto sperimentare quello straordinario sviluppo.
Il “calabrone Italia” e le trasformazioni dell’agricoltura
Si disse che l’esperienza dei distretti industriali fosse il “calabrone Italia” (Becattini, 2007). È nota la leggenda del calabrone: si racconta che un ricercatore in fisica, studiandone la conformazione delle ali e il corpo tozzo, appellandosi alla teoria, concludesse che non poteva volare, nonostante l’evidenza. L’Italia dei distretti era il calabrone dell’economia: la teoria economica dominante negava che i territori rurali potessero competere con le grandi città del triangolo industriale, avvantaggiate dalle economie di agglomerazione. L’unico sollievo economico e sociale, per le regioni rurali come le Marche, poteva venire dai trasferimenti e dalle rimesse degli emigrati all’estero o nelle regioni stesse del triangolo industriale, le uniche effettivamente capaci di crescita.
La periferia e i territori rurali dovevano dunque essere ineluttabilmente condizionati ad un ruolo passivo. Invece il calabrone volava. Soltanto alcuni economisti, testimoni diretti, come Giorgio Fuà nelle Marche, si accinsero ad interpretarlo. Con grande merito va detto, perché anch’essi, da innovatori, dovettero vincere le resistenze di chi rimaneva fedele al mainstream della teoria economica. Ma, concentrando l’attenzione sulla dinamica delle iniziative industriali e trascurando l’insieme delle relazioni economico-sociali-territoriali, mancarono di elaborare una teoria specifica di sviluppo dei territori rurali, diversa e non mutuata da quella dominante che era stata percorsa dai territori urbani ad alta densità demografica delle aree centrali e delle grandi città. La stessa idea della “industrializzazione diffusa” se era pertinente nell’interpretare l’estensione del manifatturiero fuori dal triangolo industriale per distribuirsi nelle regioni Nec, non era tale da riguardare gran parte delle aree interne dell’Appennino, come si è visto quando i recenti eventi sismici le hanno ricondotte sotto i riflettori.
L’ubriacatura del successo manifatturiero è stata così forte in quegli anni, che anche all’agricoltura, anziché comprendere la complessità delle sue relazioni con il territorio e la società rurali, è stato lanciato il messaggio di industrializzarsi. Così gli agricoltori hanno effettivamente industrializzato l’agricoltura marchigiana.
Non sono mancate, ovviamente, nell’agricoltura e nell’agroalimentare della regione iniziative di alta qualità imprenditoriale: nei comparti vitivinicolo e oleicolo, nella zootecnia e nella valorizzazione dei prodotti zootecnici, nell’ortofrutta, nella valorizzazione delle produzioni con iniziative commerciali di qualità sia nelle filiere che nei mercati internazionali, nei servizi agrituristici e in quelli dei servizi sociali e culturali. Ma i più hanno abbandonato gli ordinamenti produttivi fondati sulla complementarità tra allevamento bovino e coltivazione che, attraverso la rotazione con le leguminose foraggere (rese convenienti per la presenza del bestiame) e la successiva letamazione, consentivano al tempo stesso la fertilizzazione dei terreni, la gestione dei suoli e la regimazione delle acque. Spinti anche dai prezzi sostenuti e successivamente dai pagamenti della Pac (e dall’esenzione dalle accise sui carburanti), hanno semplificato i processi produttivi espellendo le tradizionali integrazioni con attività intensive di lavoro, spesso affidando ad imprese contoterziste l’effettiva gestione delle proprie terre. Per questo tipo di agricoltura Orlando, già negli anni Novanta, coniò il termine “agricoltura per telefono”. Una condizione che spiega anche perché l’agricoltura della regione sia oggi tra le più invecchiate a livello nazionale ed europeo.
Uno sviluppo integrato che punti sulla ruralità come asset strategico
Così i territori che erano dediti alla policoltura e all’impiego intensivo di lavoro, che con la mezzadria estraevano grande valore dalla terra mantenendo al tempo la fertilità e la sostenibilità, sono passati ad ordinamenti produttivi semplificati (rasentando la monocoltura), sostituendo il lavoro con le macchine (oggi si contano nella regione quasi tre trattori per occupato) e innescando una trasformazione speculativa che, nei terreni di collina e montagna di cui è costituito quasi tutto il territorio, hanno creato l’attuale situazione di dissesto: l’Ispra ha censito nella regione Marche 42.522 fenomeni franosi, mentre sono cresciuti l’erosione dei suoli e il rischio di alluvioni. Tutto questo si riflette inevitabilmente sul paesaggio: asset strategico dell’attrattività turistica del territorio regionale. In questo senso lo sviluppo regionale delle Marche non è stato affatto “senza fratture” (Fuà, Zacchia, 1984).
In sostanza la mezzadria si reggeva sullo sfruttamento del lavoro del mezzadro e della sua famiglia (condizione, questa, che rendeva il contratto economicamente non sostenibile una volta che per il lavoro si fossero offerte altre opportunità), ma aveva avuto ricadute estremamente positive dal punto di vista della sostenibilità sia ambientale (sulla tenuta dei versanti, sulla regimazione delle acque, sul mantenimento della fertilità dei suoli, sul paesaggio), che sociale (coesione, fiducia, spirito di iniziativa, etica del lavoro, trasparenza nei rapporti di comunità). La riflessione di Bartola era dunque un campanello d’allarme perché il superamento della mezzadria si accompagnasse innanzitutto al riconoscimento del patrimonio economico, ambientale e sociale che il lavoro di generazioni di mezzadri aveva consentito di accumulare. E per una riflessione scientifica che riconoscesse il ruolo strategico del territorio nello sviluppo rurale e quindi anche dell’agricoltura seguendo un modello di sviluppo integrato che, superando le condizioni di sfruttamento del passato, non ne snaturasse la funzione, conservandone (oggi diremmo) la vocazione multifunzionale.
Di quella battaglia intellettuale tra Bartola e Fuà, di quella discussione, molto vivace e a tratti anche aspra, c’è traccia ancora oggi. L’aver perso l’occasione di elaborare fino in fondo il contribuito che la mezzadria ha recato allo sviluppo regionale marchigiano (e delle regioni ex mezzadrili) ha prodotto una lettura semplificata delle ragioni dello sviluppo. In passato ha suggerito di trascurare di considerare il nesso tra peculiarità agricola e sviluppo manifatturiero nel contesto della ruralità. Oggi suggerisce ad alcuni di assumere atteggiamenti difensivi di fronte all’evoluzione ad alle crisi dei distretti industriali, non cogliendo le potenzialità di uno sviluppo rurale integrato che orienti strategicamente servizi, industria e agricoltura valorizzando le peculiarità (le uniqueness) dei territori e che punti sulla ruralità come asset strategico.
Sono passati i tempi in cui la ruralità era il luogo dove non esistevano alternative all’agricoltura e, per questo motivo, ruralità era sinonimo di emarginazione, povertà e dipendenza. In questi anni è cresciuta una fortissima domanda di prodotti e di servizi di qualità delle aree rurali. La ruralità può quindi essere assunta come brand unificante del territorio per veicolare prodotti e servizi non soltanto agricoli, ma anche industriali, artigianali, turistici, residenziali, ambientali, sociali.
Le nuove tecnologie, peraltro, attenuando il condizionamento delle distanze e delle economie di scala, rendono sempre più accessibili i territori anche per imprese e professioni un tempo esclusivamente concentrate nelle grandi agglomerazioni urbane. Si consideri poi come la ruralità, una volta che ad essa siano assicurati i servizi infrastrutturali, si associ ad invidiabili condizioni di benessere e ad una ottima qualità della vita (Casini Benvenuti, Sciclone 2003).
La lezione di Bartola, attualizzata come si conviene per i tempi che corrono, indica anche un percorso di ricerca che ponga lo sviluppo dei territori al centro dell’attenzione, superando i tradizionali confini tra le discipline.
Riferimenti bibliografici
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Anselmi S. (1978), Mezzadri e terre nelle Marche: studi e ricerche di storia dell'agricoltura fra Quattrocento e Novecento, Patron, Bologna
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Anselmi S. (2000), Chi ha letame non avrà mai fame. Studi di storia dell'agricoltura, 1975-1999, Proposte e ricerche, Quaderno monografico n. 26/2000
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Bartola A., Sgroi A. (1984), Esperienze di programmazione a confronto, La Questione Agraria, n. 16
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Becattini G. (2007), Il calabrone Italia, il Mulino, Bologna
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Fuà G., Zacchia C. (a cura) (1984), Industrializzazione senza fratture, Il Mulino, Bologna
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Orlando G. (1965), Programmazione regionale dell'agricoltura. Studio pilota di piano zonale, Argalia, Urbino
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Casini Benvenuti S., Sciclone N. (2003), Benessere e condizioni di vita in Toscana, Franco Angeli, Milano