Abstract
L’articolo propone un commento delle nuove norme in materia di domini collettivi, una critica alle politiche di dismissione dei beni pubblici, la necessità di un coordinamento fra la disciplina dei beni comuni e una nuova definizione degli usi civici come diritti per l’accesso alla terra e il cui esercizio è funzionale ad un nuovo fenomeno di sviluppo rurale.
Gli usi civici fra passato e presente
Una recente legge, la numero 168 del 20 novembre 2017, riapre – o meglio riporta all’attenzione pubblica – il dibattito sui beni collettivi e sul loro uso.
Gli usi civici sono antichi diritti, nonché forme, più o meno tradizionali, di godimento collettivo della terra (Cinanni, 1962) spettanti a una collettività di persone che può essere formata da abitanti di un Comune o di una frazione di esso o da appartenenti ad una associazione (Callegari, 1975). Questi diritti hanno denominazioni diverse secondo le varie regioni.
Si usa l’espressione usi civici con più significati. In senso stretto gli usi civici costituiscono il diritto di ritrarre alcune utilità da terre altrui. In altre fattispecie si riconosce alla collettività – costituita da tutti i cittadini della circoscrizione in cui la collettività risiede (in questo caso si parla di terre civiche aperte) oppure da discendenti dei vecchi originari (in questo caso si parla di terre civiche chiuse o, meglio, terre collettive) – il diritto di ritrarre dalla terra tutte le utilità (Germanò, 1999).
Quando parliamo di usi civici ci riferiamo a diritti che hanno origini lontane nel tempo e che sorgono come modalità di produzione di beni necessari alla vita e perciò nel corso dei secoli le comunità che li esercitavano venivano lasciate indisturbate. Poi è iniziata l’epoca in cui gli usi civici furono considerati da intralcio allo sviluppo dell’agricoltura e degli altri settori produttivi e ne sono derivati i conseguenti interventi legislativi tesi al loro superamento.
Diversi erano i diritti che le popolazioni esercitavano sui terreni gravati da uso civico, da quello di raccogliere erba, o di raccogliere legna, o castagne, o ghiande o fieno, o ancora quello di pescare o di cavare sabbia, pietre, salgemma. Insomma le popolazioni con l’esercizio di tali diritti d’uso della terra traevano i mezzi di sostentamento per la propria vita.
I diritti civici venivano esercitati nelle forme compatibili sia con i bisogni della popolazione, sia con le caratteristiche del terreno: raccolta della legna nel bosco, semina nei terreni coltivabili, pascoli nei prati.
I terreni gravati da diritti civici sono detti beni di proprietà collettiva o beni civici o, secondo la terminologia della legge n. 168/2017, domini collettivi e, poiché appartengono alla comunità, si parla per essi di gestione e non di proprietà. Essi sono gestiti da privati o da enti pubblici, di solito i Comuni, ma non solo. In generale possono essere gestiti da un ente rappresentativo della collettività che assume denominazioni diverse in base alle diverse zone. Nel Mezzogiorno, erano diffuse le Università Agrarie i cui terreni fanno oggi parte dei demani comunali (Cinanni, 1962). Altrove si parla di comunanze, regole, vicinie, partecipanze, ecc.
In base ai dati dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria riferiti al 1947 riportati da Cinanni (1962), la proprietà fondiaria nel complesso (dello Stato, delle Province, dei Comuni e degli altri enti) assommava a 6.398.451 ettari. I demani comunali, cioè i beni soggetti a uso civico appartenenti alla popolazione dei Comuni o delle frazioni, formano la proprietà collettiva della popolazione che, secondo le statistiche dell’Inea, e per come riportato nella tabella 1, si estendeva all’epoca per 2.596.236 ettari. Tra i beni soggetti a uso civico, oltre ai demani comunali, vi sono le proprietà delle associazioni agrarie conservatesi nel tempo. In Italia vi erano 2.255 associazioni agrarie che possedevano un totale di 488.792 ettari (Cinanni, 1962).
Tabella 1 – Estensione dei patrimoni collettivi (demani comunali e associazioni agrarie) in Italia all’anno 1947
Fonte: Cinanni, 1962
Queste risorse – proprietà fondiarie degli enti e demani civici comunali – col tempo hanno acquistato una importanza ed un significato nuovo ed, in una certa misura, più rilevante che in passato. Attorno a queste risorse ruotano infatti interessi che coinvolgono non solo aspetti economici, ma necessità di una loro preservazione per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, che sono condizioni altre rispetto alle necessità di procacciarsi i beni materiali di sussistenza, ma sono anche condizioni irrinunciabili di vita. Questo spiega anche le preoccupazioni e le proteste di fronte ai tentativi di privatizzazione con cui vengono piegati interessi vitali della popolazione alle esigenze di cassa poste dai vari governi. In questa direzione si collocano il decreto sul federalismo demaniale (Massa Gallerano, 2013), il «decreto liberalizzazioni», il decreto Terrevive e l’istituzione della Banca Nazionale delle Terre Agricole. Tutti provvedimenti che sembrano configurare un nuovo processo di enclosures per effetto del quale i terreni oggetto degli stessi potrebbero finire nelle mani di grandi imprese orientate al mercato anziché alle relazioni sociali, ai legami anche di natura affettiva ed economica, agli scambi di saperi e risorse caratteristici del modo contadino di fare agricoltura.
Svendere il patrimonio pubblico e abbandonare all’incuria i beni civici significa ignorare le istanze che provengono dal basso, non tener conto delle esigenze di un nuovo modello di agricoltura connesso al bisogno di una sovranità alimentare che ponga il tema del controllo della produzione (McMichael, 2016) e del controllo delle risorse (Corrado, 2010).
Le nuove norme in materia di domini collettivi
La legge n. 168/2017 denominata «Norme in materia di domini collettivi» riconosce, all'articolo 1, questi ultimi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie. Tale ordinamento giuridico viene dotato dalla legge di capacità di autonormazione, di gestione del patrimonio considerato come comproprietà inter-generazionale e risulta caratterizzato dalla presenza di una comunità che esercita in forma collettiva o individuale, diritti di godimento (art. 1, L. 168/2017). La citata legge definisce la competenza dello Stato in materia di domini collettivi, attribuendo, all'articolo 2 comma 1, alla Repubblica il compito di tutelare e valorizzare i beni di collettivo godimento perché questi ultimi sono elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle comunità locali, sono dotati – in quanto componenti ecologiche del sistema – di una importante funzione di conservazione e salvaguardia del patrimonio naturale e culturale e sono fonte di risorse rinnovabili da utilizzare a beneficio delle comunità territoriali.
La legge in questione stabilisce, all'articolo 2 comma 2, che la Repubblica riconosce e tutela i diritti di uso e gestione dei beni collettivi preesistenti allo Stato unitario, quasi ad accordare riconoscimento a quanti hanno sostenuto e sostengono che la vulgata modernizzatrice ha distrutto antiche prassi ecologiche che consentivano alle popolazioni autogovernantesi di trarre sostentamento dalla terra per il soddisfacimento dei bisogni familiari e comunitari.
Nel testo di legge, all'articolo 3 comma 1, vengono definiti beni collettivi le terre, con le relative costruzioni di pertinenza, di originaria proprietà collettiva nonché le terre sulle quali si esercitano usi civici. Oltre alle terre vengono considerati beni collettivi anche i corpi idrici sui quali insistono usi civici e alcuni beni di demanio civico. La nuova legge stabilisce, all'articolo 3 comma 3, che i beni collettivi sono soggetti all’inalienabilità, all’indivisibilità, all’inusucapibilità ed hanno una incessante vocazione agro-silvo-pastorale. Per cui detti beni non possono essere alienati, cioè venduti, e non possono passare alla proprietà del possessore anche a distanza di anni. Con chiarezza nel disposto legislativo, articolo 3 comma 6, si stabilisce che «l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio». Una attenzione particolare è riservata ai giovani laddove la nuova legge, al comma 8 dell'articolo 3, prevede la possibilità di assegnare le terre collettive riservando priorità ai giovani agricoltori.
Il dibattito intorno alla legge n. 168/2017
Sulle nuove norme in materia di domini collettivi si confrontano opinioni diverse. La nuova legge ha suscitato, infatti, un dibattito fra cultori della materia, politici ed attivisti del movimento per i beni comuni. In un articolo pubblicato su il Quotidiano degli enti locali & PA de Il Sole 24 ore Fabrizio Cosentino, commissario per gli usi civici della Regione Calabria, parla – con riferimento alla legge n. 168/2017 – di “leggina” (Cosentino, 2018). Nelle parole di Cosentino «tutto rimane come prima», nonostante la legge arricchisca di una nuova tipologia le forme di proprietà con una attenzione ai giovani, all’ambiente e alle comunità. Paolo Cacciari, intellettuale veneziano, già parlamentare impegnato nella commissione ambiente e territorio, nonché autore di diverse pubblicazioni sui beni comuni, contrariamente a Cosentino, parla di «una vera rivoluzione nella cultura giuridica e anche politica» dal momento che «le forme della proprietà si arricchiscono di una nuova fattispecie, non sono più due, ma tre: privata, pubblica e collettiva» (Cacciari, 2017). In tal senso, l’ultima legge sui domini collettivi attua, seppur parzialmente, la proposta della Commissione Rodotà (2007) di considerare “comuni” alcune tipologie di beni. «Costituiscono i “domini collettivi” quei boschi, pascoli, terreni seminativi, malghe, corsi d’acqua e relative pertinenze e diritti d’uso che siano amministrati da istituzioni comunitarie consuetudinarie, spesso plurisecolari, sicuramente pre-capitaliste, pre Codici napoleonici, pre-unitarie» (Cacciari, 2017).
Cacciari sostiene che l'approvazione della nuova legge sia stata possibile grazie alla determinazione di alcune popolazioni interessate e al costante lavoro della Consulta Nazionale della Proprietà Collettiva, nonché al contributo di importanti esperti di diritto e al lavoro scientifico sulla riscoperta delle risorse comuni della premio Nobel Elinor Ostrom.
Riteniamo che non manca una qualche correlazione tra i movimenti in difesa dei beni comuni e la legge n. 168/2017 che dà forma normativa ai domini collettivi, istituti già esistenti di fatto nell’ordinamento giuridico, ma non riducibili all’attuale concezione privatistica (Camera dei Deputati Servizio Studi, 2017). Va da sé che una correlazione più forte esiste tra le finalità della legge e le rivendicazioni di antichi diritti civici: «Vi sono Regole che hanno fermato impianti sciistici distruttivi e cave; Comunalie che hanno realizzato filiere integrate del legno e dei cereali; Partecipanze che hanno fermato la captazione di acque minerali; Vicinie che ripopolano paesi abbandonati» (Cacciari, 2017).
A parere di Cosentino (2018) l’unica novità della nuova legge sta nel cambiamento della dizione “usi civici” nella dizione “beni collettivi”, senza nessuna portata sostanziale se non «al di là di enunciazioni di valore». Tuttavia Cosentino riconosce che la legge in questione fornisce delle indicazioni corrette in materia di beni collettivi anche se il legislatore non ha «ritenuto opportuno ascoltare preventivamente i quattordici commissari che operano sull’intero territorio nazionale» (Cosentino, 2018). Nel parere espresso da Cosentino il legislatore avrebbe dovuto fare lo sforzo di dotare il commissario agli usi civici di mezzi adeguati per restituire vitalità «a una figura storica e oggi svalutata […] che molto potrebbe fare, per competenza e conoscenza del territorio, in attuazione delle nuove, pur corrette indicazioni sui domini collettivi, affinché queste non restino parole vuote e mere affermazioni di principio» (Cosentino, 2018).
Nel dibattito sviluppatosi intorno alla legge in questione non paiono inconciliabili le critiche del commissario agli usi civici della Calabria Fabrizio Cosentino con i punti di vista possibilistici di Paolo Cacciari. In particolar modo riguardo, da un lato, alla possibilità di rendere operativa – attraverso l’attribuzione di compiti e risorse – la figura dei commissari regionali agli usi civici; dall’altro, alle importanti aperture contenute nella legge n. 168/2017 che sembra puntare al superamento del regime provvisorio che si prolungava da novanta anni e che prefigura un terzo tipo di proprietà – oltre il pubblico ed il privato – «ricco di possibili sviluppi nella prospettiva dell’autogoverno delle comunità che rompe un antico recinto giuridico dottrinale» (Cacciari, 2017).
Se non altro la legge n. 168/2017 porta ulteriore luce nel dibattito pubblico, e quindi anche accademico, italiano sul tema delle proprietà collettive e, più in generale, dei beni comuni e del loro governo ed offre la possibilità di un nuovo confronto sulle modalità di accesso alla terra in particolar modo per i giovani del Sud colpiti da una disoccupazione di massa. Modalità che devono essere improntate alla tutela della vocazione territoriale e dell’ecosistema, proprio come stabilito dalla legge, fuori ed oltre ogni logica di accumulazione capitalistica e di sfruttamento della natura e dell’uomo.
Beni comuni, usi civici e accesso alla terra
La Commissione Rodotà (2007) raccomandava di coordinare la disciplina dei beni comuni con quella degli usi civici al fine di salvaguardare i beni anche a beneficio delle generazioni future. Si tratta di sostanziare forme di governo per cui i beni pubblici vengano amministrati direttamente dai cittadini (Micciarelli, 2018). Questo può essere il caso delle terre e dei connessi diritti d’uso collettivo che per secoli sono stati il modo attraverso il quale le popolazioni sono sopravvissute. Non si tratta di riprodurre antiche pratiche di commoning, ma di trovare forme nuove che riattualizzino il senso dell’autogoverno delle risorse comuni in uno scenario caratterizzato da un neoliberismo in crisi e da una esigenza di ritorno alla terra come forma di resistenza (van der Ploeg, 2015) e dalla nascita di nuove forme di economia solidale e reti di mutualità. Reinventare i commons – intesi propriamente come sistemi istituzionali (Ostrom, 2006) – significa considerarli delle forme transitorie che guidino verso un modello sociale ed economico alternativo che rimetta al centro i valori ed i progetti delle persone e delle loro comunità. Non mancano certo i contributi teorici per una economia della solidarietà o del bene comune nella quale ciascuno può tentare di migliorare le proprie risorse (Greco, 2012).
I Comuni, per scongiurare ogni rischio di concentrazione fondiaria, potrebbero avviare delle politiche per favorire l’accesso alla terra sulla base di progetti improntati all’agroecologia e alla multifunzionalità, preservando la destinazione dei beni per le generazioni a venire. Si tratta di stimolare la creazione di nuovi commons al fine di produrre nuova ricchezza. Il ruolo degli enti locali territoriali e, soprattutto dei Comuni, potrebbe essere importante nel riqualificare il legame fra i cittadini del Comune e i beni, un legame fondato non su «una modalità classica di appropriazione, ma [che] costituisca un rapporto tra soggetti che agiscono per rendere effettivo un certo numero di diritti, non delle cose, ma del loro uso» (Dardot, Laval, 2015: 413).
Se esiste una abbondanza di terre civiche e di terre pubbliche inutilizzate (Greco, 2014; Bevilacqua, 2015; Trunzo, Gaudio, 2016; Gatto, 2017); se l’agricoltura, in specie quella contadina, è da considerare come il più importante datore di lavoro e si presenta oggi come il «solo» meccanismo adatto a contrastare disoccupazione e bassi redditi (van der Ploeg, 2015), una politica per l’accesso alla terra potrebbe contribuire a favorire uno sviluppo rurale cooperativo e a creare nuove occasioni di impiego.
L’Istat nell’ultimo censimento generale dell’agricoltura del 2010 ha rilevato che sono oltre un milione e mezzo gli ettari di terre di collettivo godimento. Più precisamente, dai dati emerge che in Italia esistono 2.233 unità qualificate come Comune o Ente che gestisce le proprietà collettive a cui corrispondono 1.668.851,85 ettari di superficie agricola totale (pari al 9,8% della Sat) e 610.165,25 ettari di Sau (pari al 4,7% della Sau totale) (Greco, 2014; Gatto, 2017), un patrimonio ragguardevole dal punto di vista quantitativo e qualitativo che lungi dall’essere destinato all’abbandono ed al degrado potrebbe rappresentare una opportunità di sviluppo territoriale (se connesso con il tema dell’accesso alla terra) e di salvaguardia dell’ecosistema, della biodiversità, del paesaggio. Insomma un common a tutela di altri commons.
Come riportato nella tabella 2, rispetto alle stime dell'Inea del 1947, nelle quali, come abbiamo visto, i patrimoni collettivi generalmente intesi (demani comunali e associazioni agrarie) ammontavano a più di tre milioni di ettari, nei dati Istat del 2010 si registra una superficie agricola totale poco meno che dimezzata. Tale riduzione è tuttavia correlata alla diminuzione delle superfici agricole a livello nazionale, si consideri che l'incidenza percentuale dei domini collettivi sulla superficie agricola totale è rimasta pressoché invariata intorno al 10% (Gatto, 2017).
Tabella 2 - Superficie agricola totale e Sau di Enti o Comuni che gestiscono proprietà collettive all'anno 2010
Fonte: Gatto, 2017
Di certo, per le terre di proprietà degli enti territoriali e per i domini collettivi devono seguirsi politiche di assegnazione specifiche, consone alle rispettive tipicità. Seguendo un orientamento convenzionale, le terre dei demani civici comunali, perché appartengono alla collettività, non potrebbero essere assegnate a soggetti singoli o associati se non sulla base di un canone enfiteutico che reintegri alla collettività le utilità sottratte. Secondo questo orientamento, per le terre del demanio civico non si possono prevedere assegnazioni gratuite perché nel momento in cui il Comune gestore concede l’accesso ad un pezzo di terra civica, sottrae una ricchezza alla collettività nel suo insieme. In ragione di questa sottrazione, la collettività dovrebbe essere remunerata tramite il pagamento di un canone al Comune da parte dell’assegnatario. A sua volta, il Comune dovrebbe spendere quei soldi per l’interesse della collettività. Le utilità derivanti dall’uso di un bene del demanio civico dovrebbero, cioè, rientrare alla collettività. Se questo orientamento esprime un valido principio di fondo (le utilità derivanti dall’uso del demanio civico devono rimanere alla collettività), allo stesso tempo deve essere parametrato al contesto e alle esigenze di oggi e non restare intrappolato nella sfera economica.
Rispetto agli orientamenti convenzionali, ci sentiamo di suggerire un approccio più originale e rapportato al contesto.
Una terra del demanio civico comunale infestata da erbacce e rovi, nella quale cresce alta l’erba, soggetta al rischio del degrado, incurata, abbandonata, non monitorata, possibile oggetto di violazioni e usurpazioni che ne potrebbero minare la destinazione d’uso, non assolve più la «funzione di elemento fondamentale per la vita e lo sviluppo delle collettività locali» (art. 1, L. 168/2017) ed è lungi dall’essere una «base territoriale di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale» (art. 1, L. 168/2017), ancor più d’ogni altra cosa non può essere annoverata fra le «strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale» (art. 1, L. 168/2017).
Le terre che verrebbero assegnate, se erano precedentemente abbandonate, non leverebbero alcuna utilità alla collettività che, presumibilmente, su di esse non esercitava più alcun uso civico.
Al contrario, motivare politiche pubbliche per l’accesso alla terra che prevedano forme d’uso gratuito vincolate all’agricoltura ecologica e multifunzionale potrebbe avere il particolare vantaggio di restituire alla collettività (titolare dei domini collettivi) nuove utilità sotto forma di nuove economie solidali, di occasioni di inclusione sociale, di produzione di nuovi beni comuni: biodiversità, suoli fertili e puliti, paesaggi agrari, prodotti alimentari salubri e di qualità, nuovi nested markets (Polman et al., 2010).
Conclusioni
La dipendenza delle popolazioni dalle risorse è venuta meno e il significato di alcune regole per l’amministrazione delle proprietà collettive ha perduto di valore (Gatto, 2017), è per questo che i patrimoni di comunità possono continuare ad offrire delle opportunità di accesso alla terra e di sviluppo se le regole per la loro gestione sono inclusive e partecipate. Il presupposto è che se, da un lato, i beni comuni richiedono una comunità perché al loro uso sono connessi obblighi e diritti; dall’altro, questa comunità non deve rilevarsi sulla base di identità particolari, piuttosto sulla base dei compiti che ognuno svolge per la riproduzione delle risorse (Federici, 2018). Il fatto che non esistono beni comuni (commons) senza comunità (commoners) deve significare che tali comunità sono aperte e costituite nel commoning, ovvero nelle regole e nelle pratiche che danno vita ai commons e li sostengono. È in questo senso che deve transitare la definizione degli usi civici, affinché da piaga da estirpare per favorire l’industrializzazione dell’agricoltura – quali erano stati considerati dal legislatore a cavallo dei secoli XIX e XX – diventino una ritrovata virtù, un viatico per il futuro e per la costruzione di identità aperte alimentate dallo scambio tra diversità poste al di fuori di ogni rapporto di subordinazione e dipendenza.
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