Sostenibilità e sicurezza alimentare: gli anelli mancanti

Sostenibilità e sicurezza alimentare: gli anelli mancanti
a Cardiff University, School of Planning and Geography

Introduzione1

L’impennata nei prezzi di cibo, energia e carburanti che si è verificata nel 2008 ha rafforzato la percezione dell’esistenza di un deficit alimentare a livello globale, in un momento storico in cui la rapida espansione di problemi di malnutrizione sta cambiando la geografia globale dell’insicurezza alimentare (Ashe e Sonnino, 2013). A complicare ulteriormente il quadro, gli ultimi anni hanno anche visto l’insorgere di una grave crisi finanziaria e fenomeni di accaparramento di terra nei Paesi in via di sviluppo.
Nel contesto di incertezza creato da questa “Nuova Equazione Alimentare” (Morgan e Sonnino, 2010), il concetto di sicurezza alimentare sta rapidamente arricchendosi di nuovi e complessi significati che lo pongono in relazione sempre più stretta con un altro importante concetto: la sostenibilità. Basandoci sulla recensione critica di una letteratura ancora molto frammentata, in questo articolo metteremo in evidenza l’esistenza di una serie di problemi socio-economici e ambientali, fra loro spesso collegati, che richiedono un superamento del dibattito tradizionale sulla sicurezza alimentare, troppo spesso polarizzato fra teorie collegate alla produzione e teorie sulle dinamiche di consumo del cibo. Come tenteremo di dimostrare, è infatti nelle fasi centrali della filiera agro-alimentare globale che il problema della sicurezza alimentare si pone in tutta la sua complessità, sollevando questioni che delineano i contorni di una nuova agenda di ricerca e di intervento strutturale.

La polarizzazione del dibattito sulla sicurezza alimentare

Il dibattito sulla sicurezza alimentare si è storicamente arroccato intorno a due posizioni: la prima, più antica, concettualizza il problema in termini di insufficienza e inefficienza produttiva in agricoltura; la seconda interpreta invece l’insicurezza alimentare come un problema di mancanza di accesso al cibo che chiama in causa le dinamiche di distribuzione degli alimenti a livello globale. Come è facile intuire, le soluzioni proposte dai fautori di queste posizioni sono radicalmente diverse tra loro. Il produttivismo dà priorità al mercato alimentare globale; in quest’ottica, i paesi più ricchi devono aumentare la produzione di cibo (tramite soluzioni tecnologiche e scientifiche quali l’agricoltura di precisione, l’ingegneria genetica e le nanotecnologie) non solo per far fronte alla domanda interna, ma anche per rifornire (attraverso aiuti ed esportazioni) i Paesi in via di sviluppo (Dibden et al., 2013; Rosin, 2013). Per i sostenitori della teoria che collega l’insicurezza alimentare alla mancanza di accesso al cibo, di contro, il campo di intervento principale non è il mercato bensì il contesto ecologico locale del sistema alimentare globale, che richiede la valorizzazione di pratiche agro-ecologiche indigene (Marsden, 2013) e un cambiamento nei modelli di consumo.

Intensificazione o dieta sostenibile?

Studi recenti mettono in evidenza l’esistenza di criticità importanti in entrambi i contesti. Per quanto riguarda la produzione, l’attenzione degli esperti si concentra su quattro problemi principali: a) il degrado del suolo agricolo, che si stima riguardi il 16-40% della superficie terrestre (Chappell e LaValle, 2011) a seguito di un cattivo uso delle tecniche di conservazione del suolo, della deforestazione, dell’inquinamento e delle pressioni sul territorio create dalla ricerca di forme di energia alternativa e dall’urbanizzazione; b) la perdita di biodiversità che, secondo la Fao (1998), nel secolo scorso ha riguardato il 75% delle colture agricole, con danni ingenti legati alla riduzione del potenziale di adattamento evolutivo del patrimonio genetico e alla perdita di “servizi” dell’ecosistema agricolo (come per esempio l’impollinazione); c) la pressione esercitata dall’agricoltura sulle risorse idriche, che ha ormai raggiunto livelli vertiginosi a seguito dell’aumento di popolazione e degli scambi commerciali di prodotti (come cotone, soia, cereali, caffè, tè e carne) che richiedono un altissimo utilizzo d’acqua durante il processo produttivo; d) il degrado ambientale causato dall’uso intensivo di fertilizzanti e pesticidi che, oltre a interferire con il ciclo nutritivo naturale, spesso fanno uso di risorse non-rinnovabili come il fosforo.
In tale contesto, l’approccio produttivista si sta concentrando principalmente sul concetto di “intensificazione sostenibile” – l’idea cioè, nella definizione della Fao (Collette et al., 2011), di aumentare la produzione agricola riducendone nel contempo gli impatti ambientali. In pratica, l’intensificazione sostenibile propone l’adozione di un approccio sistemico alla gestione delle risorse naturali, come complemento ai processi naturali che sostengono la crescita delle piante e il coinvolgimento degli agricoltori locali nel processo di innovazione per far sì che le soluzioni adottate rispondano alle necessità e caratteristiche contestuali locali (Garnett e Godfray, 2012).
La critica principale all’intensificazione sostenibile riguarda la sua tendenza a trascurare la qualità e l’accessibilità del cibo, che a loro volta chiamano in causa altri tipi di ostacoli alla sicurezza alimentare globale. I più dibattuti in questo settore riguardano la “transizione nutrizionale”, che ha determinato un aumento del consumo di alimenti trasformati e di originale animale a seguito di un aumento globale del reddito pro capite (Thow e Hawkes, 2009); la liberalizzazione del commercio, che ha ridotto i prezzi e aumentato la disponibilità di prodotti poco salutari, specialmente nei centri urbani; e la spinosa questione degli sprechi alimentari che, nel Sud del mondo, sono prevalentemente determinati dalla carenza di adeguate tecnologie e infrastrutture agricole, mentre nei Paesi industrializzati sono legati a modelli di sovra-consumo creati dalla grande distribuzione (Unep, 2012).
Da questa prospettiva, la soluzione principale al problema dell’insicurezza alimentare non è nel cambiamento delle dinamiche produttive, bensì nell’adozione di una dieta sostenibile – vale a dire, uno stile di alimentazione “a basso impatto ambientale che contribuisce alla sicurezza alimentare e nutrizionale per le generazioni attuali e future” (Fao e Biodiversity International, 2010). In pratica, una dieta sostenibile si basa sulla riduzione del consumo di prodotti di origine animale a favore di frutta e verdura; il rispetto per la varietà e la stagionalità dell’offerta; e l’acquisto di prodotti ecologici (Unep, 2012).
In sintesi, il dibattito tradizionale sulla sicurezza alimentare ha portato alla luce una serie di dinamiche e fattori relativi alla produzione e al consumo di cibo che hanno limitato, in vari modi e misure, la possibilità di garantire un’adeguata disponibilità di prodotti nutrizionalmente e culturalmente adeguati su scala globale. Tuttavia, concetti come quello di intensificazione e dieta sostenibile non riescono da soli a catturare la complessità del problema. Infatti, la letteratura sulla dieta sostenibile trascura cruciali questioni relative alle misure strutturali necessarie per diffondere stili di alimentazione sani e a basso impatto ambientale; i fautori dell’intensificazione sostenibile, dal canto loro, hanno finora trascurato la grande sfida della domanda alimentare globale – vale a dire, come migliorare l’accessibilità di prodotti alimentari di qualità evitando al contempo di diffondere modelli di sovra-consumo che potrebbero peggiorare l’attuale situazione di degrado ambientale. Nella nostra opinione, il futuro della sicurezza alimentare globale dipenderà dalla capacità di collegare le dinamiche di produzione con quelle di consumo degli alimenti. Un punto di partenza importante in questa direzione è da ricercarsi nelle fasi di post-produzione e pre-consumo che rappresentano gli “anelli mancanti” nelle politiche e nei dibattiti sulla sicurezza alimentare.

Sicurezza alimentare e sostenibilità tra produzione e consumo

Le analisi sulle fasi intermedie del sistema alimentare si sono fin qui concentrate su questioni specifiche e isolate, tra le quali le emissioni di gas serra hanno ricevuto l’attenzione principale. Gli studi in questo settore chiamano in causa due questioni principali: la refrigerazione degli alimenti, che da sola utilizza il 15% dell’energia elettrica consumata nel mondo (con implicazioni significative in termini di emissioni prodotte) e il trasporto del cibo, che ha determinato numeri studi sulle food miles – l’inquinamento collegato alle distanze di percorrenza degli alimenti.
Il trasporto e la refrigerazione dei prodotti, che sono pratiche strettamente interconnesse, chiamano in causa ulteriori e ancora inesplorate sfide alla sostenibilità alimentare legate alla liberalizzazione degli scambi. Tre aspetti meritano un’attenzione particolare in questo senso. Primo, la liberalizzazione del commercio ha incentivato la sovrapproduzione nei Paesi più ricchi, che hanno sistematicamente cercato nuovi sbocchi di mercato nei Paesi in via di sviluppo per le loro eccedenze, mettendo fuori gioco i produttori locali (Friedmann, 1993; Herman et al., 2003). Secondo, la globalizzazione degli scambi tende a emarginare i piccoli produttori, che spesso non dispongono di risorse culturali, finanziarie e infrastrutturali di accesso ai mercati. Terzo, la globalizzazione ha un impatto notevole sulle risorse locali: di fatto, quando il cibo prodotto in una certa regione viene esportato, tale regione perde tutte le risorse che sono state utilizzate durante il processo di produzione ma deve al contempo affrontare i costi degli scarti e rifiuti avvenuti durante il ciclo produttivo – problema questo che alcuni studiosi hanno cercato di teorizzare attraverso l’uso di concetti come quello di “flusso d’acqua virtuale” (Chapagain e Hoekstra, 2008).
In senso più ampio, la liberalizzazione degli scambi commerciali si lega anche a un processo di concentrazione del potere economico, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, dove la grande distribuzione controlla fino al 50% dei mercati alimentari (Reardon e Timmer, 2007). Se, da una parte, i supermercati esercitano un ruolo importante dal punto di vista della sicurezza alimentare per la loro capacità di garantire l’offerta di cibo a prezzi contenuti, dall’altra tendono a far ricorso a pratiche ad alto impatto ambientale (come nel packaging, uno degli ambiti ancora meno studiati nella ricerca sui sistema alimentari) che hanno un effetto negativo indiretto sulla sicurezza alimentare attraverso il loro influsso sulla disponibilità di risorse naturali (come per esempio i carburanti di origine fossile, che sono ampiamente utilizzati per produrre la plastica del packaging).
Il concetto di filiera corta è emerso come risposta principale ai problemi di sostenibilità che minacciano la sicurezza alimentare nelle fasi intermedie (Hinrichs, 2000; Moragues Faus e Sonnino, 2012). Oltre a favorire una redistribuzione più equa dei profitti, le filiere corte promuovono la conservazione delle risorse naturali attraverso la riduzione del packaging, degli sprechi e delle food miles. La filiera corta può senza dubbio diventare una piattaforma importante per un programma di ricerca innovativo che guardi alle opportunità concrete esistenti per riconnettere i produttori e i consumatori – attraverso, per esempio, una migliore pianificazione delle strutture logistiche e della produzione agricola nelle aree urbane e peri-urbane (Mundler e Rumpus, 2012). Ma affinché tale soluzione dia un contributo sostanziale anche alla sicurezza alimentare è fondamentale che lo si metta in relazione sia con la crescente necessità di riconfigurare i legami (economici, sociali e ambientali) tra aree urbane e rurali , sia con la capacità dei mercati globali di rifornire aree geografiche che non sono in condizione di produrre quantità sufficienti di cibo.

Verso una sicurezza alimentare sostenibile: alcune conclusioni

Gli approcci tradizionali alla sicurezza alimentare hanno due limiti fondamentali: primo, tendono a trascurare le connessioni e disconnessioni (reali e potenziali) tra le due estremità del sistema alimentare; secondo, e come conseguenza, tendono a ignorare una serie di aspetti di sostenibilità che stanno minacciando la resilienza del sistema alimentare, soprattutto nelle fasi di post-produzione. Gli attuali dibattiti sull’intensificazione e sulla dieta sostenibili stanno creando un terreno fertile per un ripensamento del rapporto tra sicurezza e sostenibilità alimentare e per far avanzare una nuova agenda politica e scientifica che tenga in considerazione “il profondo incastro che esiste tra sistemi economici, sociali e ambientali” (Misselhorn et al., 2012: 10). Come affermano Garnett e Godfray (2012: 49), “un sistema di produzione alimentare che sia socialmente, economicamente o eticamente inaccettabile per una parte della popolazione manca di ‘continuabilità’, o resilienza, indipendentemente da quanto possa essere in armonia con l’ambiente naturale”. La stessa logica deve essere applicata a un sistema alimentare socialmente giusto e accettabile ma che sia radicato in processi di degrado ambientale.
Come abbiamo spiegato, è più che mai necessario oggi adottare una prospettiva sistemica che vada al di là dell’abituale tendenza a focalizzarsi sulle componenti individuali del sistema alimentare e si occupi in maniera più olistica delle complesse relazioni che esistono tra varie fasi e attori della filiera.
Nel nostro caso, il tentativo di recensire gli studi più recenti sulla base di una prospettiva sistemica che relazioni sostenibilità e sicurezza alimentare ha prodotto due risultati rilevanti. Da una parte, ha evidenziato il ruolo centrale di fattori trasversali (come il commercio e l’uso dell’acqua) nel limitare la capacità del sistema alimentare di creare relazioni sinergistiche tra produttori e consumatori. Dall’altra, l’applicazione di una prospettiva sistemica ha messo in luce l’esistenza di aree di disconnessione tra produzione e consumo (i cosiddetti “anelli mancanti”) che richiedono un’attenzione più specifica nell’ottica di una integrazione della sicurezza con la sostenibilità alimentare. Da tale punto di vista, la pianificazione territoriale, la creazione di infrastrutture logistiche e l’uso di strumenti politici come l’approvvigionamento pubblico emergono come strategie di primaria importanza per riconnettere i produttori e i consumatori attorno ai valori e agli obiettivi della sicurezza e della sostenibilità alimentari. In un’epoca in cui si sta sempre più rafforzando la necessità di una ricerca scientifica che dia un sostegno alle politiche alimentari (Ericksen et al., 2009), una nuova prospettiva che includa gli aspetti di sostenibilità nel lavoro sulla sicurezza alimentare può dare un contributo importante all’identificazione delle vulnerabilità e potenzialità esistenti nei vari punti nodali del sistema alimentare.

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  • 1. Una versione più estesa e in inglese di questo articolo sarà pubblicata nella rivista International Journal of the Sociology of Agriculture and Food
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