Gli accordi di libero scambio bilaterali sono diventati una parte importante e strategica della politica commerciale per molti paesi. Alla proliferazione degli accordi bilaterali ha contribuito la situazione di stallo dei negoziati multilaterali del Doha Round in seno alla World Trade Organization (Wto).
L'Unione europea (UE) ha già firmato un ampio numero di accordi preferenziali sia unilaterali che bilaterali. Più di recente, l'UE ha avviato numerosi negoziati bilaterali il più rilevante dei quali è sicuramente quello con gli Stati uniti (Usa) – il Transatlantic Trade Investment Partnership (Ttip) – che ha preso il via nel luglio del 2013.
Lo stato del negoziato
Lo scorso luglio si è concluso il decimo round di incontri bilaterali nell’ambito di un negoziato complesso e controverso che sta entrando nel terzo anno. Sebbene si siano registrati degli sviluppi favorevoli negli ultimi mesi, il raggiungimento di un accordo si prospetta ancora piuttosto difficile. Per quanto riguarda gli Usa, infatti, è sicuramente positivo che il Congresso abbia rinnovato in giugno al Presidente Obama la Trade promotion Authority che consente al governo di siglare accordi commerciali che dovranno essere messi in votazione in blocco, ovvero senza la possibilità di inserire emendamenti. Nel mese di luglio, poi, è stata approvata dal Parlamento Europeo (PE) la relazione di B. Lange contenente raccomandazioni sul negoziato con gli Usa dopo un dibattito vivace che ha portato, fra l’altro, alla bocciatura di un emendamento finalizzato a escludere l’agricoltura dall’ambito delle trattative.
D’altra parte, gli Usa si avviano a entrare nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016 e l’attenzione dell’Amministrazione uscente sembra essere rivolta soprattutto verso il Pacifico. Sembra ormai prossimo alla conclusione, infatti, l’altro mega-accordo regionale ovvero la Trans-Pacific Partnership che comprenderà ben 12 paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam. Anche nell’ UE, peraltro, non tutti i governi sono convinti della necessità di stringere i tempi e la stessa risoluzione del PE, peraltro non vincolante, risulta piuttosto generica, auspicando un accordo “ambizioso” ma “equilibrato” e prevedendo varie possibilità di deroghe ed eccezioni ad esempio per quanto riguarda prodotti agricoli “sensibili”.
L’agenda agricola
Le trattative del Ttip si articolano su 24 capitoli negoziali individuali, raggruppati in 3 aree negoziali:
- accesso al mercato: ad esempio, beni, servizi, appalti pubblici.
- cooperazione e coerenza normativa, e ostacoli non tariffari: ad esempio ostacoli tecnici al commercio, salubrità degli alimenti, salute degli animali e delle piante, settori specifici (prodotti chimici, farmaceutici, tessili, pesticidi, autoveicoli, Itc, ecc.).
- norme: ad esempio facilitazione del commercio, protezione degli investimenti, risoluzione delle dispute (Isds), concorrenza, proprietà intellettuale, indicazioni di origine.
Per quanto riguarda l’accesso al mercato, le tariffe (medie) bilaterali applicate da Usa e UE (3,4% e 5,5% in media, rispettivamente) sono piuttosto basse e ciò fa sì che non sia questo il canale da cui ci si possono aspettare i maggiori effetti da un eventuale accordo. Vi è tuttavia una sostanziale differenza tra settore manifatturiero e agricolo, soprattutto nel caso dell’UE, visto che le rispettive medie sono pari a 4,2% e 13,2%. La liberalizzazione tariffaria avrà quindi un impatto maggiore nel settore agricolo, soprattutto per quei prodotti caratterizzati da ‘picchi tariffari’. Se si considerano come ‘picchi’ valori superiori al 15%, questi rappresenterebbero ben il 30% degli equivalenti ad valorem riportati dalla banca dati MAcMapV2 per prodotti agroalimentari importati dall’UE.
Con riferimento alla cooperazione e coerenza normativa, l’obiettivo è eliminare differenze non necessarie negli standard, definire equivalenze, facilitare le certificazioni nei paesi di origine. Le differenze ‘non necessarie’ sono quelle che non sono determinate da differenze nella valutazione del rischio, ad esempio norme sull’etichettatura o sulle dimensioni delle confezioni. Tutto ciò potrebbe avere conseguenze positive per le imprese esportatrici, soprattutto di piccole dimensioni, anche nel settore agro-alimentare.
L’area relativa alle norme è quella che ha recentemente attirato la maggior attenzione da parte dell’opinione pubblica soprattutto per quanto riguarda le norme relative alla protezione degli investimenti. Gli obiettivi principali sono due. Da una parte, determinare condizioni di parità con le imprese locali per le imprese che investono nei mercati europei e statunitensi. Dall’altra, ridurre l’incertezza rispetto a pratiche ingiustificate e discriminatorie da parte del governo estero come un eventuale esproprio senza adeguato indennizzo. Quest’ultimo obiettivo dovrebbe essere raggiunto, come è prassi negli accordi commerciali internazionali, dando la possibilità all’investitore estero di far ricorso a un arbitrato internazionale indipendente per tutelare i suoi diritti definiti nell’accordo. Poiché il sistema giudiziario nazionale potrebbe non avere titolo a decidere sull’applicazione dei trattati internazionali e le decisioni potrebbero essere distorte a favore del governo nazionale, il ricorso ad arbitri indipendenti per la risoluzione delle dispute costituisce la norma negli accordi commerciali multilaterali e bilaterali. D’altra parte, si sono di recente registrati alcuni casi in cui grandi imprese multinazionali hanno fatto ricorso a questo meccanismo in modo piuttosto ‘aggressivo’ e ciò ha ingenerato il timore che possa essere messa in pericolo la libertà di ciascun paese di regolamentare per perseguire i propri obiettivi pubblici.
Nel caso dell’agroalimentare, però, l’aspetto normativo più rilevante è sicuramente quello che fa riferimento alla tutela delle indicazioni di origine. Su questo punto, come è noto, l’UE ha una lunga tradizione di tutela che ha portato a registrare 1577 nomi di vini e 1184 nomi di prodotti agricoli (Matthews, 2015). L’approccio statunitense è sostanzialmente diverso in quanto privilegia i ‘trademark’ rispetto alle indicazioni geografiche rispettando il criterio cronologico di registrazione e accettando che i nomi geografici possano essere considerati generici. I prodotti tutelati dall’UE rappresentavano nel 2010 il 15% delle esportazioni agroalimentari e ben il 90% delle esportazioni di bevande alcoliche (Matthews, 2015): anche se i flussi sono molto concentrati su pochi prodotti, si tratta quindi di un punto di notevole interesse commerciale per l’intera UE.
Esagerazione e realismo
Vista la scarsa probabilità che un accordo sul Ttip possa essere raggiunto in tempi brevi, può destare un qualche stupore che il dibattito in Europa e in Italia sia così acceso. La contrapposizione più evidente è quella fra coloro che sostengono l’accordo, considerandolo complessivamente positivo, e coloro che si oppongono, ritenendo che i costi superino i benefici. Dal punto di vista dell’analisi economica, però, il discrimine più interessante riguarda l’entità degli effetti previsti: a coloro che prevedono effetti tutto sommato modesti che si realizzeranno nel medio-lungo periodo a seguito di un accordo ‘debole’ i cui contenuti siano coerenti con le posizioni in campo, si contrappongono visioni apocalittiche o paradisiache.
Gli apocalittici paventano riduzioni degli standard ambientali, di sicurezza e di protezione della salute dell’UE, aumento della disoccupazione e maggiori margini per il potere di manipolazione delle multinazionali. A questi timori e paure, alimentate da una assai discutibile strategia di comunicazione da parte dell’UE che ha impiegato molto tempo prima di declassificare le direttive di negoziato e adottare iniziative in favore della trasparenza, si può facilmente rispondere:
- ricordando che gli Usa non sono un paese in via di sviluppo e sotto diversi punti di vista consumatori, lavoratori e cittadini statunitensi sono altrettanto (se non più) tutelati di quelli europei;
- evidenziando che alcuni dei più citati effetti negativi del Ttip (per un esempio recente si veda Capaldo, 2014) derivano da simulazioni svolte con modelli affatto inappropriati;1
- argomentando che sono le piccole imprese quelle che hanno più da guadagnare dalla definizione di un quadro di regole a livello internazionale proprio perché non hanno il potere di manipolazione delle grandi multinazionali.
Se i pessimisti si preoccupano delle questioni sbagliate, l’entità degli effetti positivi propagandati da alcuni dei sostenitori dell’accordo sembra essere altrettanto infondata. Il Ttip viene presentato come il primo esempio di una nuova generazione di accordi di libero scambio che vanno molto al di là della tradizionale rimozione delle barriere tariffarie. In effetti, abbiamo già ricordato come i dazi siano già piuttosto ridotti e non rappresentino certamente il principale o maggiormente controverso oggetto della trattativa. Per tenere conto di tutto ciò, alcuni modelli calcolano degli equivalenti tariffari delle altre politiche e procedono alla loro rimozione prevedendo (non sorprendentemente) effetti positivi di diversi ordini di grandezza maggiori rispetto alla semplice eliminazione dei dazi. Al di là delle modalità di calcolo degli equivalenti, si tratta di un procedimento concettualmente scorretto in quanto le misure non-tariffarie (Mnt) rappresentano, almeno in alcuni casi, una risposta a fallimenti del mercato e la loro eliminazione non porterebbe necessariamente né a un aumento degli scambi commerciali, né a un miglioramento dell’efficienza. Nel caso delle Mnt, quindi, l’obiettivo non è la pura e semplice eliminazione bensì l’armonizzazione ovvero il riconoscimento dell’equivalenza: si tratta di un processo lungo e complesso come dimostra la storia dell’integrazione del mercato interno europeo.
Se i risultati più realistici prevedono variazioni positive del Pil inferiori a 1 punto percentuale, ci si potrebbe ragionevolmente chiedere se vale veramente la pena di sostenere i costi di ristrutturazione necessari per cogliere tali benefici nonché affrontare gli inevitabili conflitti derivanti dagli effetti redistributivi. L’errore implicito in una tale domanda, però, è ipotizzare che, in assenza del Ttip, la situazione rimarrebbe quella odierna o si evolverebbe sulla base dei trend attuali. Invece le cose cambiano velocemente e l’ormai prossima conclusione del Ttip sta lì a ricordarlo. Dal punto di vista della modellizzazione, ciò significa che la valutazione economica dovrebbe tenere conto che un eventuale accordo potrebbe contribuire ad attenuare gli effetti negativi derivanti da politiche adottate altrove, e questi benefici indiretti potrebbero risultare anche maggiori dei guadagni diretti derivanti dall’accordo stesso.
Chi si oppone al Ttip sembra dare per scontato che il mancato accordo garantirebbe il mantenimento di uno status quo considerato, a torto o a ragione, desiderabile. Si tratta di un’ipotesi confermata dalle analisi economiche dedicate alla simulazione di diversi scenari che si differenziano per la modellizzazione, più o meno ottimistica, dei contenuti del Ttip ma condividono il medesimo scenario di riferimento. Sarebbe bene che un’attenzione analoga venisse invece dedicata alla simulazione dello scenario di riferimento rispetto a cui misurare gli effetti dell’accordo: un mondo senza Ttip sarà comunque diverso da quello che conosciamo.
Riferimenti bibliografici
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Capaldo J., (2014), “The Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership: European Disintegration, Unemployment and Instability”, Gdae Working Paper 14-03
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Matthews A. (2015), What Outcome to Expect on Geographical Indications in the Ttip Free Trade Agreement Negotiations with the United States?, Presentation to 145th Eaae Seminar ‘Intellectual Property Rights for Geographical Indications: What is at Stake in the Ttip?’ Parma, 14-15 April 2015
- 1. Nel modello utilizzato da Capaldo (2014), ad esempio, il commercio internazionale rappresenta una variabile esogena e quindi le simulazioni non sono in grado di produrre alcuna informazione sull’oggetto principale di un accordo di libero scambio.