Analizzare vs implementare
Dopo anni passati ad analizzare e valutare le politiche di sviluppo rurale mi sono trovato dall’altra parte della barricata, quella della gestione e della implementazione degli interventi nel Programma regionale di sviluppo rurale (Psr). Il passaggio non è difficile, anzi lo sviluppo di entrambe le professionalità permette di comprendere anche i motivi di una certa difficoltà di intesa tra i due mondi.
Richiedono entrambi competenze complesse (giuridiche, amministrative, agronomiche, economiche ecc.), ma la differenza fondamentale risiede nella diversa tipologia di responsabilità. Per gli analisti il punto di riferimento è quello della comunità scientifica, mentre per gli attuatori il riferimento è quello politico (nel senso degli amministratori pubblici e delle associazioni di rappresentanza) e, indirettamente, quello dell’utente del “servizio” che viene fornito. Nel primo caso viene soprattutto premiato l’acume analitico e la capacità di porsi sulla frontiera delle conoscenza, con una buona tolleranza nei confronti di errori o omissioni; nel secondo caso, invece, diventa molto più importante l’evitare errori, piuttosto che innovare, visto che possono esserci conseguenze di tipo civile se non addirittura penale. Nessun dipendente regionale verrà mai citato in un articolo per il meraviglioso impatto in termini occupazionali o ambientali di un intervento, mentre finirà sicuramente sui giornali per una qualsiasi indagine amministrativa e non.
Primo: non sbagliare
Ne sanno qualcosa alcune decine di istruttori di enti pubblici a cui sono stati contestati danni erariali per molti milioni di euro, relativamente alla gestione di un particolare intervento nel Psr toscano. Sono stati processati dalla magistratura contabile e assolti con formula piena; segno che nella complessità della normativa comunitaria tutti ci possiamo perdere, anche chi fa le indagini. Tuttavia si può immaginare la tribolazione dei funzionari coinvolti, durata alcuni anni, e come questo fatto clamoroso abbia pure influenzato l’implementazione del Psr.
In questo contesto la prima regola “non sbagliare” diventa un comportamento razionale e non un atteggiamento da burocrate conservatore. Ecco allora che implementare vuol dire soprattutto cura dei dettagli, che in molti casi corrispondono a commi di articoli di regolamenti comunitari o di leggi nazionali o regionali. Volete degli esempi? Reg. Ce 1975/2006, art. 26, comma 1 lettera e) “l’affidabilità del richiedente….”: si tratta di una condizione di accesso al Psr che ha comportato enormi discussioni. Reg. 1698/2005, art. 26, comma 1 lettera a) miglioramento del “rendimento globale dell'azienda agricola”: come nel caso precedente, l’interpretazione di tale comma non è un esercizio accademico, ma ha come conseguenza il poter o meno accedere al Psr, dunque con possibili accuse, per chi non lo definisce adeguatamente (ma l’adeguatezza della definizione sarà “certificata” soltanto a posteriori), di non aver rispettato il regolamento europeo e quindi di non aver utilizzato correttamente le risorse pubbliche. Potremmo andare avanti con altri esempi di cui si risparmiano i riferimenti normativi: “divieto di interventi di sostituzione” (quando un investimento è di sostituzione? e quando un ammodernamento?), “subentro nei soggetti beneficiari” (che succede quando il soggetto giuridico cambia per il passaggio dell’impresa ad un altro o per la trasformazione, come in caso di fusione?), “cantierabilità” (quando un progetto di investimento è pronto per partire e quando occorre attendere troppo tempo non compatibile con la regola dell’n+2?), “periodo di ammissibilità delle spese”, ecc.
Ovviamente tutti questi concetti hanno dietro delle serie motivazioni, ma quello che mi preme evidenziare è la mancanza di congruità tra la breve enunciazione normativa e le possibili conseguenze di un’eventuale errata interpretazione. Si possono infatti avere rettifiche finanziarie a carico dell’amministrazione regionale fino al responsabilità economiche dirette dei singoli funzionari, come sopra accennato. Stupisce allora che nel dubbio vengano spesso applicate interpretazioni molto restrittive?
Automatico è più veloce
L’approccio psicologico all’implementazione spiega inoltre perché sia molto difficile prevedere sofisticati meccanismi valutativi dei progetti e fasi negoziali nell’assegnazione dei contributi. Il problema non risiede nella necessità di professionalità avanzate, che secondo me sono ben presenti nella pubblica amministrazione, quanto l’esercizio di un livello di discrezionalità che semplicemente intimorisce i funzionari e probabilmente stuzzicherebbe l’appetito della schiera di soggetti interessati all’implementazione dei contenziosi, più che delle politiche. Si comprende perciò la grande popolarità dei meccanismi automatici di selezione dei progetti (basati su età e genere dei richiedenti, sulla localizzazione, sui comparti ecc.), così come la prolissità dei bandi, che hanno la funzione di ridurre al minimo gli inevitabili adattamenti delle regole generali alle singole domande sulle quali vengono svolte le istruttorie.
Si spiega altresì il grande successo di premi a superficie o a capo, che hanno il vantaggio di essere velocemente spendibili e perciò di rendere più facilmente raggiungibili gli obiettivi di spesa dei programmi comunitari. La famigerata regola dell’n+2, cioè del disimpegno automatico delle risorse non spese (ad esempio le risorse previste nel 2007 devono essere pagate ai beneficiari entro il 2009), sembra infatti fatta apposta per esaltare le distorsioni che si possono avere nell’implementazione delle politiche rispetto agli obiettivi di programmazione.
Anche in questo caso è facile pensare che se la macchina amministrativa riuscirà ad evitare il disimpegno automatico probabilmente verrà dedicato un decoroso trafiletto nella stampa specializzata; mentre se verranno perse persino poche risorse allora vi saranno intere paginate sull’inefficienza della burocrazia. E’ sufficiente dare un’occhiata alle statistiche pubblicate in questi giorni sullo stato di avanzamento della spesa nei vari Psr: raramente si distinguono le istituzioni che hanno puntato tutto sui premi rispetto a chi, con maggior coraggio, ha concentrato ingenti risorse sugli investimenti aziendali. E’ un aspetto che sfugge, spesso, nei tavoli di concertazione, dove vi è massima attenzione sui criteri di ripartizione delle “torte” costituite dalle risorse per le varie misure; mentre minore attenzione viene dedicata alla qualificazione della spesa, nonostante che tutti abbiamo ben presente, almeno intuitivamente, il principio keynesiano del moltiplicatore degli investimenti.
Demarcare è meglio che integrare
Un altro aspetto interessante è quello delle integrazione tra i Psr e le altre politiche agricole, territoriali o ambientali. Si tratta di un aspetto ampiamente discusso in sede di programmazione, ma che in sede di implementazione vuol dire soltanto una cosa: demarcare.
Sono molti gli interventi soprattutto comunitari dai quali vengono necessariamente prese le distanze nel Psr. In primo luogo tutte le Ocm (ortofrutta, olivicolo, vino, tabacco, bieticolo-saccarifero…..), sulle quali l’unica preoccupazione è di controllare bene che non vi siano doppi pagamenti sugli stessi progetti. In realtà sono l’emblema di interventi destinati a particolari lobby a livello europeo, che rinviano a livello di implementazione del Psr problemi che invece potevano essere ben risolti in sede comunitaria, evitando che vi fossero doppi canali di finanziamento per gli investimenti strutturali. Su alcuni interventi, come quelli per gli ex-bieticoltori, si è sfiorato il ridicolo dato che è stato necessario predisporre bandi separati per essi ed escludere tali operatori dai Psr fino al completo esaurimento dei fondi della relativa Ocm.
Lo stesso principio della demarcazione vige per i rapporti con i Programmi Operativi Regionali finanziati con altri fondi comunitari, mentre in molti casi sarebbe stato più efficiente/utile/facile fare bandi unici (es. sulle energie da fonti rinnovabili o nelle zone montane).
Più in generale si ritorna sul più volte enunciato e approfondito trade-off tra le esigenze di integrazione (tra politiche, tra obiettivi) e quelle di semplificazione/velocizzazione degli interventi: le regole del gioco fanno pendere pericolosamente la bilancia verso le seconde. Devo dire sinceramente che soltanto adesso capisco compiutamente i problemi attuativi di quegli interventi complessi (come i contratti territoriali “alla francese”, le politiche negoziate, i progetti integrati di filiera o territoriali) dei quali alcuni anni fa vedevo soltanto gli aspetti innovativi.
Conclusioni
In conclusione spero di essere riuscito a fornire un particolare punto di vista sulle politiche agricole, quello “burocratico” nel senso nobile (se mai ne è rimasto) di servitore della pubblica amministrazione. Tenendo conto anche di questa prospettiva si può comprendere meglio quanto sia importante impostare politiche semplici, prima ancora di sperare che la semplificazione sia raggiunta con le successive fasi di attuazione. Spesso vuol dire selezionare bene, fin dall’inizio, gli strumenti di intervento, evitando sovrapposizioni o eccessivi dettagli nella determinazione delle regole del gioco, che invece possono essere stabilite con il principio della sussidiarietà.
Comments
Utente non regi... (not verified)
Thu, 01/01/1970 - 01:00
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Sono d'accordo con Pagni
Bravo Dott. Pagni! Dopo fiumi di parole sui concetti (secondo me spesso poco chiari anche sotto il profilo scientifico) dello Sviluppo rurale e degli strumenti operativi per la sua implementazione, finalmente una buona e sana ventata di analisi realistiche. Condivido pienamente le tue valutazioni sul meccanismo n+2 che poi operativamente diventa spesso n(menoqualcosa)+2(menoqualcosa): l'Europa è schizofrenica: vuole qualità della spesa ''pubblica'' o vuole efficienza? Perché non misura la qualità della spesa? Perché con i suoi ossessivi cavilli ci costringe a complicati percorsi di verifica quasi trattandoci tutti come approfittatori di fondi pubblici, rendendo vischiosi e problematici i processi di spesa sia negli aspetti qualitativi sia in quelli quantitativi, sia in quelli connessi ai profili di responsabilità civile penale amministrativa? E soprattutto dove mettiamo il criterio di attribuzione delle risorse su base storica? E' chiaro che se l'aspettativa di attribuzione di risorse è funzione della velocità di spesa, quale sarà mai l'input del Ministro o dell'Assessore di turno? Cerchiamo di spendere di più! E le regole e le responsabilità? E se non si reperiscono domande e titolari di domande che rispondono ai rigidi requisti previsti dal bando? A me pare comunque che se non c'è efficenza (quantità di spesa) non c'è efficacia neanche col progetto più bello del mondo: l'impatto economico sui sistemi e sui territori è significativo solo se raggiungiamo masse critiche sufficienti. Speriamo maturino (al di la di tutti le ''teorie'' sullo sviluppo rurale), le condizioni per un ripensamento profondo degli strumenti operativi di intervento: perché ad esempio non creare delle Agenzie di Sviluppo con sportelli aperti costantemete alle esigenze dell'utenza, superando la logica forse obsoleta del bando, prevedendo poche e chiare regole per l'erogazione degli aiuti. Superiamo la logica dei premi e puntiamo al sostegno degli investimenti di qualità, rendendo più flessibili le rogole per la rendicontazione (n+3 o n+4?) per l'ammissibilità e l'eleggibilità. Probabilmente è anche necessario superare la logica della programmazione dei fondi europei così come oggi concepito, per effetto della quale ad esempio scenari immaginati nel 2005 (o amche prima), hanno ispirato strumenti e definito risorse probabilemente inadeguati rispetto alle esigenze di sviluppo contingenti. Mi rendo conto che non è sempre facile superare il divario efficienza efficacia. Ma la soluzione potrebbe essere quella di individuare (e anche su questo condivido le tue idee) pochi obiettivi (magari con qualche livello di differenziazione in termini di priorità) che devono costituire le strade entro cui incanalare le richieste. I requisiti oggettivi e soggettivi serviranno poi per mettere in fila le istanze con tipologie di intervento con medesima priorità. Mi sembra inoltre che si introduca un altro concetto o meglio viene (stranamente) riproposto un altro concetto fondamentale: quello della concertazione negoziata (in senso atecnico) delle politiche operative di sviluppo. E qui una critica al sistema la devo fare: a me pare che l'Italia e le Regioni italiane, non siano riuscite in questa fase di programmazione, a seguire il modello concertativo e di sussidiarietà. Anzi a me pare che abbiamo fatto un grosso passo all'indietro. Ma credo che il problema sia alla fonte: le imposizioni della Commissione (o dei suoi Servizi?) i cavilli le limitazioni, al di la delle paure e dei timori applicativi, generano una forte limitazione della gamma delle possibilità. E a cascata sembra che questa strana ''malattia'' (una sorta di antisussidierietà?) abbia contagiato Stato e Regioni (anche la Toscana), talvolta con manifestazioni che hanno sfiorato il centralismo democratico (passami questa immagine). Capisco che il potere dei Servizi della Commissione siano rilevanti, ma critico l'incapacità negoziale del Ministero e delle Regioni, che ha impedito la definizione di regole flessibili, adattabili ai vari contesti territoriali e alle esigenze di sviluppo locali e che si è tradotta in un processo concertativo (questa è la mia impressione) in cui ci si è sostanzialmente limitati a notificare le decisioni su programmazione e bandi. D'altro canto se non si ascoltano profondamente le esigenze dei sistemi locali, optando invece per una impostazione quasi più dirigista (passami questa parola), la qualità di un programma declina e le critiche saranno giustificabili. Queste cose le avevamo intuite fin dall'inizio: stando in trincea (perchè l'ufficio territoriale presso cui si istruiscono le ''pratiche'' e si ricevono gli utenti, letteralmente sono trincee di piccole battaglie di guerre non dichiarate) si ha quasi subito il polso della situazione. Lancio una provocazione : perché i grandi esperti di politiche e strumenti (mi riferisco soprattutto ai grandi funzionari europei o nazionali) non passano qualche settimana qui sul ''fronte''. Forse potrebbe maturare (credo sinceramente) qualche buona idea per il futuro. Forse potrebbe maturare una nuova coscienza utile a superare un apparente empasse (forse legato ad un un'inconsapevole autoreferenzialità?) Non è un caso che il professor Pacciani sia divenuto il portabandiera del modello distrettuale: ha toccato direttamente le criticità dello sviluppo (è stato per molti anni assessore provinciale allo Sviluppo rurale come saprai) e la sua esperienza di campo gli ha probabilmente indicato una via assai interessante, che valorizzando a tutti i livelli le risorse interne del territorio, avrebbe avuto lo scopo di rilanciare fortemente la concertazione locale, anche dando impulso per giunta a processi identitari, divenendo il luogo ideale per la definizione e gestione di processi progettuali negoziali, sia interni che esterni. Ma in merito alle grandi strategie non posso pronunciarmi, non ho infatti una adeguata cultura scientifica. Ma credo che al di la delle teorizzazioni dei modelli, il fallimento o il successo degli stessi sia fortemente legato agli strumenti operativi per implementarli e da questo punto di vista mi pare che anche a livello accademico (oltre che a quello politico) le discussioni le analisi e le valutazioni siano assenti. Hai ragione anche su questo: le grandi analisi non comportano grandi responsabilità in fondo. Mentre anche le più piccole decisioni invece si. Cordiali saluti
Giuseppe Cagnetta
Commento originariamente inviato da 'giuseppe cagnetta' in data 26/03/2010.