L’insegnamento di Federico Caffè che ci aiuta
Poco più di venti anni fa scompariva, in circostanze misteriose, Federico Caffè, il grande studioso cui si deve, in primo luogo, l’apertura del pensiero economico italiano alla dottrina keynesiana (Caffè usava la definizione di dottrina e non di teoria).
Le abbondanti pubblicazioni degli scritti caffeiani e le non meno ampie e frequenti riflessioni sugli stessi, che hanno scandito il ventennale, stimolano un esercizio di analisi critica su molti aspetti della politica economica e, in particolare, sui condizionamenti che, entro il perenne conflitto fra interessi costituiti e idee innovative, riguardano il clima in cui le scelte dei policy-makers maturano. Un esercizio che Caffè praticava, e insegnava a praticare, ai “piani più alti” del dibattito socio-economico, ma non meno necessario ad “altezze” più modeste, come quella della cosiddetta politica di sviluppo rurale dell’Unione Europea oggetto della presente nota.
In un celeberrimo testo, apparso sul Giornale degli economisti del settembre 1972, Caffè sottolineava: “Nel mondo odierno, gli individui appartengono generalmente ad aggruppamenti quali una unione sindacale, una associazione padronale, una organizzazione di categoria professionale e così via. Attraverso questa appartenenza a gruppi organizzati viene a costituirsi una struttura di potere analoga alla forma di mercato denominata oligopolio […] Allo stesso modo che, tra le grandi imprese oligopolistiche, può determinarsi uno stato di fatto considerato accettabile dalle parti, così la «struttura oligopolistica del potere» può esprimersi in un determinato stato di fatto, o establishment” (Caffè 2007 [1972], p. 97).
Per l’agricoltura simili pilastri istituzionali, in particolare quelli rappresentati dalle organizzazioni delle categorie professionali, svolgono un ruolo ancora più importante che negli altri settori. Questo perché l’enorme polverizzazione delle sue unità produttive, in carenza di una congrua politica di distribuzione del reddito, la predisporrebbe giocoforza a rapporti stritolanti nei confronti delle industrie, più o meno oligopolistiche, che, lungo le varie filiere, operano a monte e a valle di essa.
Nello sviluppo capitalistico del ventesimo secolo le organizzazioni professionali agricole sono state, in effetti, uno dei fattori d’integrazione più stabili del modello regolativo keynesiano-fordista, grazie alle garanzie (di prezzo e collocamento dei prodotti) che sono riuscite sempre ad assicurare ai propri associati e ai territori in cui più grande era il peso sociale delle loro attività.
Nello scritto richiamato, Caffè osservava che i soggetti più forti della “struttura oligopolistica del potere”, dotati come sono di penetrante influenza a livello mediatico, ricorrono sovente a strategie di vero e proprio allarmismo per legittimare politiche pubbliche tanto coerenti con interessi “sezionali”, quanto poco attente agli auspicabili benefici della collettività.
“Si consideri, ad esempio, l’allarmismo suscitato dai dati statistici sull’assenteismo dei lavoratori o sulla produzione non realizzata a motivo del rifiuto opposto dai lavoratori alle richieste aziendali di turni o prestazioni straordinarie, o sulle perdite provocate dai conflitti di lavoro. Una valutazione più equilibrata di questo fenomeno potrebbe ottenersi con la segnalazione obiettiva dei fattori che concorrono a provocarli: le alienanti condizioni di lavoro […]; l’abuso di forme e ritmi di lavoro che determinano una rapida usura delle capacità fisiche e psichiche dei lavoratori; il timore immanente della rapida obsolescenza delle qualifiche, suscettibile di rendere i lavoratori «troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per morire»; le resistenze opposte a trasformazioni della vita delle fabbriche che vadano oltre il paternalismo padronale…” (Caffè 2007 [1972], p. 102).
E’ fuori del tempo, oggi, pensare ad un mondo agricolo così provvisto di mass media da intraprendere strategie allarmistiche altrettanto virulente. Tuttavia, non meno sbagliato sarebbe ritenerlo disarmato e incapace di far valere comunque i suoi propri interessi sezionali. La storia delle politiche di sviluppo rurale dell’Unione Europea è una dimostrazione chiarissima dell’esatto contrario.
Il “contropiede” delle organizzazioni professionali: capolavoro del dopo Cork
Le riforme dei fondi strutturali (i pacchetti Delors) che l’Unione Europea si è data a partire da una ventina di anni fa hanno determinato l’implementazione di un’importante politica regionale, all’interno della quale spazio non esiguo, ab origine, era riservato agli interventi per i territori più rurali, secondo le indicazioni contenute nel documento della Commissione sul “Futuro del mondo rurale” (Cee 1988) e riprese in senso più generale undici anni dopo nel documento, informale ma di grande respiro, “Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo” (UE 1999).
L’obiettivo 1, nel ciclo programmatorio 1994-1999 comprendeva un sotto-asse (il 4.2 a essere pignoli) denominato, appunto, sviluppo rurale. L’obiettivo 5b era specificamente dedicato allo sviluppo dei territori rurali più svantaggiati, con tanto di zonizzazione esplicitamente ritagliata. Il programma Leader, provvisto di mezzi finanziari limitati ma finemente distribuito sul piano territoriale, funzionava da laboratorio di una filosofia che mirava a superare il tradizionale assunto di sovrapposizione fra agricoltura e mondo rurale, secondo una logica di sviluppo per cui il territorio, con il suo deposito di saperi, valori e istituzioni, funge da integratore di un cambiamento che non può non propagarsi a tutti i settori dell’economia.
La conferenza di Cork (1996) aveva segnato una sorta di punto di arrivo della discussione intorno a simile politica. La componente di tecnostruttura comunitaria che l’ispirava propose due direttrici di marcia le quali, per dirla sempre à la Caffè, "parevano tanto accattivanti sul piano del contenuto di idee, quanto fatte apposta per scatenare la reazione più vigorosa degli interessi costituiti".
Prima direzione: “la politica di sviluppo rurale deve essere multidisciplinare nell’ideazione e multisettoriale nell’applicazione” perché “l’agricoltura e la silvicoltura non hanno più un ruolo di primo piano nelle economie dell’Europa” (Conferenza europea sullo sviluppo rurale, Cork 1996), nemmeno laddove più riconoscibili sono i lineamenti della ruralità. Seconda direzione: “la politica di sviluppo rurale…deve essere il più possibile decentrata e basata sul partenariato e sulla cooperazione tra tutti i livelli considerati (locale, regionale nazionale ed europeo)” (ibidem).
E’ di tutta evidenza come il primo versante dovesse guadagnarsi l’opposizione delle organizzazioni agricole (e degli entourage comunitari ad esse più contigui), che vedevano il rischio di un impoverimento della politica agricola tout court. E come il secondo versante fosse tale da suscitare una reazione non meno sfavorevole da parte di amministrazioni nazionali e regionali abituate ad una pratica politica-burocratica fatta di centralismo, e, soprattutto, della tecnostruttura UE appartenente alla DG XI (oggi DG-Regio, preposta alla politica regionale), intimorita dall’ipotesi che la programmazione per i territori rurali “migrasse” alla DG VI (oggi DG-Agri, preposta alla politica per l’agricoltura), come a Cork si era richiesto (in disarmonia con il principio dell’integrazione tra i fondi strutturali).
Simili opposizioni hanno avuto la forza di coagularsi all’interno di “Agenda 2000” in una strategia di compromesso con le nuove emergenze, così da trasformare “contropiedisticamente” posizioni negoziali deboli in autentici punti di forza.
La politica convenzionale per le strutture agricole era ormai percepita dall’opinione pubblica come un “arnese anacronistico”, cioè insufficiente per la coesione delle aree rurali (su questo punto la Conferenza di Cork aveva colto nel segno e non si poteva non tenerne conto). Allora se ne preparava un’altra, denominata “di sviluppo rurale”, il cui asse qualificante consisteva in un insieme di misure a specifico carattere ambientale. La coppia rurale-ambiente risultava plausibile agli occhi dell’opinione pubblica, perché è nel mondo rurale che le risorse ambientali sono meglio conservate e più agibili per una strategia di sviluppo! Tanto plausibile da indurre a trascurare che le tematiche agro-ambientali riguardano ogni tipo di territorio, non soltanto quelli rurali e, soprattutto, che una prospettiva agro-ambientale non permette di distinguere i territori e quindi il rurale autentico dal “verde peri-urbano” (per cui, se vogliamo un esempio, si arriva ancora a definire rurale la campagna romana!).
Di più: gli interventi per i territori rurali che competevano alle politiche regionali, confluiti nel contenitore del nuovo obiettivo 2, si sganciarono dall’integrazione coi fondi del FEOGA, e quindi, sempre nominalmente, tutto ciò che atteneva al rurale andava a coincidere con una politica settoriale (agricola-ambientale).
Insomma una controriforma in piena regola rispetto alle novità dei pacchetti Delors, tanto da aver fatto evocare la graffiante immagine del “fantasma di Cork” (Saraceno 2005).
Il rafforzamento della controriforma
Una controriforma (eccoci alla stretta attualità) in via di rafforzamento, a nostro avviso, per gli orizzonti che si delineano alla tornata di programmazione 2007-2013 (Musotti 2006).
La separazione finanziaria, che è completata dai nuovi regolamenti, fra sviluppo rurale e politiche di convergenza/competitività non promette, in effetti, niente di buono. L’auspicata complementarità fra i due ambiti, che dovrebbe sostituire al farraginoso collegamento tra l’attività dei fondi un funzionale collegamento fra obiettivi (ciascuno dei quali agilmente servito da un unico fondo), a leggere il Piano Strategico Nazionale (PSN) per lo Sviluppo Rurale approvato dalla Conferenza Stato-Regioni del primo di agosto, sembra tradursi in una mera delimitazione di competenze sulla base della tipologia degli investimenti.
La macro-zonizzazione predisposta nello stesso PSN, poi, dividendo la penisola in quattro classi spaziali straordinariamente generiche (la ricca montagna di Val d' Aosta e Trentino è definita “con problemi di sviluppo” come l’osso delle regioni meridionali…) crea i presupposti per politiche sempre più mirate alle aziende e sempre meno radicate territorialmente.
La ripartizione finanziaria sui primi tre assi, rispetto alle quote minime imposte dall’Unione e dunque per ciò che era di competenza delle Regioni, sotto la spinta delle organizzazioni professionali ovviamente, ha registrato l’allocazione di oltre il 55% delle risorse all’asse I (“Miglioramento della competitività del settore agricolo e forestale”), del 35% al II (“Miglioramento dell’ambiente e dello spazio rurale”) e il residuo al III (“Qualità della vita nelle zone rurali e diversificazione dell’economia rurale”).
Si tratta di scelte senz’altro in linea con le difficoltà e le esigenze di riconversione di un’agricoltura che comincia a sperimentare gli effetti di una garanzia pressoché disaccoppiata. Ma che lasciano pure intendere quanto sia destinata a diventare difficile quella “armonia” fra gli assi presentataci quale elemento distintivo dei nuovi programmi regionali rispetto ai piani del ciclo 2000-2006. Il lobbying delle organizzazioni professionali, a nostro avviso, non può non preludere ad un utilizzo degli altri due assi in termini di supporto al primo, piuttosto che in chiave di ri-articolazione strutturale e infrastrutturale del tessuto socio-produttivo.
In questa ottica la stessa portata del quarto asse appare molto incerta. Leader è nato e si è sviluppato come metodo di programmazione intersettoriale e difficilmente potrà replicare le sue performance laddove è il settore agricolo che detta i giochi quasi per intero.
Circa la quota di politiche di convergenza/competitività che potrà beneficiare i sistemi locali rurali, la speranza è che almeno le esperienze di programmazione integrata territoriale sviluppata dalle Regioni dell’ex-obiettivo 1 del ciclo 2000-2006, ma anche da quelle dell’ex-obiettivo 2 (Albolino-Benni 2006), abbiano lasciato alcune tracce…
Riferimenti bibliografici
- Albolino O., Benni A. (2006), “Dalla programmazione negoziata alla progettazione integrata: la regionalizzazione delle politiche di sviluppo territoriale”, in: Cavazioni G., Calzoni G., Grasselli P. (a cura di): L’economia umbra e le sfide del mercato – Problemi e prospettive all’inizio del XXI secolo, G. Giappichelli Editore, Torino, pp. 655-683.
- Caffè F. (2007), “La strategia dell’allarmismo economico”, in: Amari G., Rocchi N. (a cura di): Federico Caffè – Un economista per gli uomini comuni, Ediesse, Roma, pp. 97-103 (versione originale in Giornale degli economisti, settembre 1972).
- CEE (1988), Il futuro del mondo rurale, Comunicazione della Commissione del 9 novembre, Com/88/501.
- Conferenza europea sullo sviluppo rurale (1996), Dichiarazione di Cork, Un’Europa Rurale Viva, Cork, 7-9 novembre.
- Musotti F. (2006), “La politica rurale: stabilizzazione della controriforma?”, in: Cavazzoni G., Calzoni G., Grasselli P. (a cura di): L’economia umbra e le sfide del mercato – Problemi e prospettive all’inizio del XXI secolo, G. Giappichelli Editore, Torino, pp. 639-653.
- Saraceno E. (2005), “Il fantasma di Cork”, in: Esposti R., Sotte F. (a cura di), Sviluppo rurale e occupazione, Associazione Bartola-Franco Angeli, Milano, pp. 57-68.
- UE (1999), Schema di sviluppo dello spazio europeo, documento informale.