Aspetti del dibattito sulla “filiera corta”

Aspetti del dibattito sulla “filiera corta”
a Università di Sassari, Dipartimento di Economia e Sistemi Arborei, Sezione di Economia e Politica Agraria

Attualità dell’interesse per la filiera corta

In un momento economico controverso e difficile come quello attuale, in cui si registra una flessione dei consumi (1), anche alimentari, e in cui quindi sia la domanda al consumo che l’offerta al primo stadio di produzione agricola attraversano una congiuntura negativa, si cercano -tra i possibili rimedi- soluzioni commerciali alternative a quelle tradizionali.
L’incremento generalizzato dei prezzi, compresi quelli dei prodotti alimentari, crea disagio ai consumatori, soprattutto nelle fasce di reddito più deboli. Allo stesso tempo, peraltro, la forbice dei prezzi tra input e output determina grosse difficoltà per le imprese agricole (Cicatiello, Franco, 2008), schiacciate tra i crescenti costi di produzione e la scarsa dinamica dei prezzi alla produzione degli stessi beni alimentari (Van der Ploeg, 2006). Il problema è che il divario tra prezzo dei prodotti alimentari ai cancelli dell’azienda e prezzo al consumo risulta insostenibilmente elevato per la lievitazione che il prezzo di partenza registra nelle varie fasi di concentrazione del prodotto e distributive della filiera convenzionale (lievitazione causata dagli stessi passaggi intermedi oltre che dall’allargamento dei margini di ciascuno di essi).
Questo è ciò che accade all’interno dei Paesi sviluppati. A livello globale, e soprattutto nei Paesi sottosviluppati, il problema della polarizzazione dei prezzi tra produzione e consumo è molto più grave, inducendo fenomeni di progressivo impoverimento degli agricoltori e aggravando i problemi della malnutrizione e della fame, o quanto meno ostacolando il raggiungimento degli obiettivi internazionali di riduzione di tali fenomeni.
Si impongono quindi risposte di vario genere, da parte degli agricoltori e delle istituzioni, per rimediare agli impatti sociali di questo stato di fatto. Tra le risposte c’è la ricerca di percorsi alternativi di sbocco finalizzati allo stesso tempo a ridurre l’incremento dei prezzi lungo la catena distributiva del prodotto e a ridurre la presenza di squilibri nei rapporti di scambio. Quest’ultimo problema acquista rilievo soprattutto per Paesi più poveri che esportano prodotti agricoli food e no food e non destinano la propria produzione ai consumi alimentari interni, e dove si verificano squilibri nella forza contrattuale e asimmetrie informative tra singoli piccoli agricoltori e grandi imprese (spesso multinazionali) sia acquirenti-importatrici di prodotti agricoli, che fornitrici di mezzi tecnici per l’agricoltura.
Viene così alla ribalta in questo particolare momento il dibattito, già da alcuni anni esistente, sulle opportunità offerte dalla cosiddetta “filiera corta” o “a circuito breve”. Tale dibattito risulta di particolare attualità in Italia, considerato che la normativa che promuove l’attivazione della filiera corta è di recente emanazione: ci si riferisce al D.M. 20 novembre 2007 (G.U.n.301/2007), attuativo dell'articolo 1, comma 1065, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, in vigore dal gennaio 2008, sui mercati riservati all'esercizio della vendita diretta da parte degli imprenditori agricoli.
Questa modalità di commercializzazione, i cui vantaggi sono stati più volte evidenziati dalla letteratura straniera e italiana e dalle organizzazioni di categoria agricole, costituisce una alternativa alla “filiera lunga”, di cui si parla a proposito della “logistizzazione e globalizzazione dei flussi” (Del Vecchio, 2008).

Globalizzazione, logistica, circuiti lunghi

La banalizzazione dei costi di trasporto insieme alla velocità di circolazione delle informazioni e alla crescente organizzazione logistica hanno determinato una globalizzazione dei flussi commerciali.
Ciò avviene anche per i prodotti alimentari, gran parte dei quali vengono commercializzati attraverso la filiera lunga, la quale può essere considerata come una sorta di evoluzione estrema della già articolata filiera convenzionale agroalimentare2, caratterizzata da un insieme di aziende integrate verticalmente. Quest’ultima tende infatti sempre più a realizzarsi nell’attuale spazio di mercato globale attraverso “circuiti lunghi”, che presuppongono un frazionamento ed una delocalizzazione delle singole attività produttive, vari intermediari commerciali, lunghi tragitti di percorrenza. Troviamo infatti contemporaneamente sullo stesso mercato prodotti provenienti dai paesi più disparati di cui talvolta non riusciamo neppure a controllare completamente la provenienza, essendo le aree di produzione agricola completamente indipendenti da quelle di consumo e anche da quelle di trasformazione del prodotto. Questo tipo di filiera, dapprima considerato massimamente efficiente, almeno da un punto di vista finanziario o “mercantile”, è stato ultimamente variamento criticato da un punto di vista economico complessivo che include aspetti ambientali e sociali. Tuttavia è opportuno astenersi da giudizi univoci e perentori, in quanto la filiera lunga come anche quella corta risultano di volta in volta più o meno efficienti a seconda dei diversi contesti locali e situazioni di mercato in cui operano.

I farmers’ market

Alla cosiddetta “filiera lunga” o con “circuiti lunghi” si contrappone la “filiera corta” o “a circuito breve”, anche comunemente detta “vendita diretta”. Come è noto, questa modalità di commercializzazione ha la caratteristica di realizzare un rapporto diretto fra produttori e consumatori, singoli o associati. Essa determina appunto “l’accorciamento” della filiera attraverso l’eliminazione o riduzione del numero degli intermediari commerciali e dei tragitti di percorrenza dei beni, la cui distribuzione finale avviene nella stessa area di produzione.
La filiera corta è una formula commerciale attuale, anche se ripresa dai tradizionali mercati locali del passato (quando i beni venivano in gran parte prodotti e commercializzati nell’ambito della medesima area), e appare nei Paesi sviluppati come una rivisitazione dei mercatini settimanali. Si tratta di un tipo di distribuzione che negli ultimi anni ha registrato una progressiva diffusione per quanto riguarda i prodotti agricoli delle coltivazioni e dell’allevamento. Con particolare riferimento a questi ultimi prodotti si parla più specificamente di farmers’ market o green market, i quali, allo stato nascente in Italia, sono un fenomeno già ampiamente sperimentato in altri Paesi europei, in cui operano già dai primi anni Novanta, e soprattutto negli Usa dove hanno iniziato ad affermarsi fino dai primi anni Settanta, registrando nel periodo più recente un notevole incremento (Boschetti, 2007).
Tra le esperienze dei Paesi europei emergono quelle della Francia, della Germania e del Regno Unito, che presentano per l’Italia esempi interessanti da conoscere e -mutatis mutandis in relazione al differente ambito socio-strutturale e istituzionale- da emulare, con particolare riferimento ad alcuni elementi caratterizzanti e ben definiti della disciplina normativa, modalità organizzative e promozione pubblica.

Vantaggi e limiti della filiera corta: il “luogo economico” della sua efficienza

I dibattuti vantaggi della filiera corta (Bullock et. al., 2000; Hilchey et. al., 2000) consistono essenzialmente nella sostenibilità di questa modalità di vendita dai diversi punti di vista:

  • economico: prezzi dei beni alimentari più contenuti (3) per gli acquirenti e più remunerativi per i produttori;
  • ambientale: riduzione, nella cosiddetta offerta “a chilometro zero”, dei consumi energetici e dell'inquinamento legato al trasporto e alla frigo-conservazione, che tra l’altro la coniuga almeno in teoria -seppure non in pratica (Franco, 2007)- alle produzioni biologiche (4);
  • sociale: controllo diretto del prezzo e della qualità da parte dei consumatori, maggiore freschezza e salubrità dei prodotti deperibili, rapporto di fiducia e scambio di informazioni senza intermediari tra produttori e consumatori, circuiti indotti e cumulativi di sviluppo rurale in aree marginali.

Si tratta dunque di vantaggi che non si limitano esclusivamente ad una riduzione dei prezzi all’acquisto per i consumatori e nel soddisfacente prezzo di vendita per i produttori, cosa che nei momenti di difficoltà può essere fattore trainante, ma consistono anche nella predisposizione della domanda a ricercare il prodotto tipico, o comunque locale, cui si attribuiscono una serie di valenze che aggiungono valore alla merce in sé stessa considerata, come risulta da studi effettuati al riguardo sulla disponibilità a pagare (AA VV., Ohio State University, 2008). Queste ultime motivazioni di consumo riferibili alla valenza culturale del cibo sono legate a fasce di reddito medio alte, disposte a pagare addirittura un premium price per i prodotti locali, così come il risparmio sul prezzo di vendita può essere invece motivazione prevalente per le fasce di reddito più deboli. Inoltre motivazioni sia di consumo per singoli privati che di incentivazione dell’offerta a chilometri zero da parte dell’autorità pubblica sono legate ai citati aspetti di sostenibilità ambientale.
In relazione alla sostenibilità ambientale, analizzata in particolare dagli studi sui food miles (AA VV., Defra, 2005), c'è tuttavia un filone scientifico che ha un atteggiamento critico riguardo ai vantaggi dell'offerta a chilometro zero. Infatti ciò che si deve considerare nella valutazione della sostenibilità non è soltanto il costo ambientale del trasporto, ma si deve tener conto anche di una “ecologia di scala” (Schlich, Fleissner, 2005), che computi i risparmi energetici connessi alla dimensione più o meno ampia delle aziende di produzione e trasformazione, consentendo di considerare nell’insieme tutti i costi comparati ambientali delle produzioni ottenute e commercializzate da differenti tipologie d’imprese nelle diverse parti del globo. Quanto alla sostenibilità economica, non si possono trascurare alcuni elementi in contrasto. Ad esempio si deve tener conto del fatto che non sempre a livello locale i prezzi dei prodotti scambiati nell'ambito della filiera corta sono più bassi per i consumatori di quelli offerti dalle grandi catene di vendita che operano con notevoli economie di scala nella filiera lunga. Inoltre si deve considerare che in aree a bassa densità demografica l’offerta può essere in esubero (Brunori et al., 2007), creando difficoltà di sbocco ai produttori.
Con particolare riferimento ai prezzi si potrebbe obiettare che in un mercato concorrenziale s’impone automaticamente l’unicità del prezzo per prodotti indifferenziati come tradizionalmente erano quelli agricoli. Tuttavia ormai esiste una differenziazione anche per i prodotti agricoli, che non svolgono più soltanto la basilare funzione di nutrimento, ma incorporano in vario modo -attraverso la loro qualità intrinseca, provenienza, modalità di confezionamento e commercializzazione- il soddisfacimento di altre esigenze. Queste ultime possono spaziare dal time saving -peculiare dei prodotti commercializzati dalle grandi catene distributive- ad aspetti legati alle succitate valenze culturali, ambientali, alla salubrità o alla tipicità del gusto, presumibilmente o realmente riscontrabili nei prodotti commercializzati tramite filiera corta. Di conseguenza, il mercato non risulta perfettamente concorrenziale (pure a prescindere dal differente potere contrattuale delle imprese commerciali). E per questo i prodotti -in qualche modo differenziati- venduti nei farmers’ market possono avere prezzi differenziati (5), anche indipendentemente dal loro differente costo di produzione e, in particolare, di commercializzazione.
Con più specifico riferimento agli aspetti sociali, invece, resta salvo il fatto del controllo diretto del prezzo e della qualità da parte dei consumatori, del loro rapporto umano con i produttori (6), e anche della maggiore indipendenza degli agricoltori nelle scelte produttive (Cicatiello, Franco, 2008), con conseguente soddisfazione morale.
Inoltre la filiera corta, che senza dubbio valorizza appieno il capitale umano e sociale, nonché le risorse naturali locali, può innescare processi di sviluppo endogeno sia in aree rurali marginali dei Paesi sviluppati, sia nel contesto locale di Paesi sottosviluppati. In questi ultimi può efficacemente opporsi a fenomeni di progressivo impoverimento, sia di risorse naturali che di risorse umane, legati all’introduzione non oculata e massiccia di modelli produttivi esterni (Shiva, 1995 e 2008), per produzioni intensive indirizzate all’esportazione.
La filiera corta peraltro non costituisce certamente la soluzione più indicata per tutti i problemi, e in determinati contesti, dove non trova la sua naturale collocazione, ovvero il suo particolare “luogo economico” (Serpieri,1950), risulta meno efficiente della filiera lunga. In generale essa risulta particolarmente idonea a risolvere le difficoltà di aziende di piccole dimensioni, multifunzionali, che offrono prodotti di nicchia (locali tipici e/o biologici). Appare invece poco adeguata in tutte le situazioni in cui prevalgono le dimensioni d’impresa medio grandi e si creano economie di scala di tipo economico ed ecologico, quando l’offerta aziendale è specializzata e costituisce una consistente massa critica di prodotto che può trovare maggiore facilità di sbocco in un mercato più ampio di quello locale. Non è quindi adatta in tipologie d’impresa (medio-grandi) laddove l’efficiente utilizzo del tempo-lavoro dell’imprenditore non consente a quest’ultimo lo svolgimento di un’attività variegata e multifunzionale, che comprenda anche la commercializzazione diretta delle produzioni aziendali. In queste situazioni può risultare più vantaggiosa la filiera lunga.
E’ da aggiungere che la vendita diretta è idonea allo sbocco di prodotti pronti per il consumo (Cicatiello, Franco, 2008), non di prodotti da trasformare, per lo meno con riferimento all’organizzazione dei consumi delle società avanzate. Nei Paesi sottosviluppati, invece, la filiera corta sembra risultare opportuna quando crea circuiti locali anche per la vendita di prodotti grezzi, ad esempio cereali di base, come il grano, che in tali contesti possono essere trasformati dalle stesse unità familiari di consumo.

Alcune indicazioni scaturite da un’analisi SWOT, interpretate con particolare riferimento all’Italia

E’ stata effettuata un’analisi SWOT sulla filiera corta, con una puntuale classificazione dei punti di forza e debolezza endogeni a questa formula di commercializzazione e degli elementi esogeni che si configurano come opportunità che favoriscono o come rischi/minacce che ostacolano una sua positiva affermazione. Il fine dell’analisi è quello giungere ad individuare le modalità più idonee per ridurre i punti di debolezza e trasformare almeno una parte di essi addirittura in punti forza, ribaltandone la valenza. Il che si rende possibile studiando il modo di sfruttare al meglio tutte le opportunità evidenziate e nel contempo di eludere i rischi, che si presentano, con valenze diverse, in diversi contesti territoriali e nei differenti scenari ipotizzabili per ciascuno di tali contesti. Nell’analisi effettuata in questo studio i diversi scenari sono stati grossolanamente distinti soltanto come “situazione nei Paesi sviluppati” e “situazione nei Paesi sottosviluppati”.
Si riporta di seguito esclusivamente qualche riflessione risultante dall’analisi, con specifico riferimento all’Italia, per tentare di formulare alcuni suggerimenti di policy.
Tenendo conto delle opportunità che si presentano si può intravedere la possibilità di superare alcuni punti di debolezza, anche sulla scorta delle citate esperienze già maturate in altri Paesi. Le opportunità realizzabili riguardano innanzitutto la possibilità di attuare interventi di tipo istituzionale, attraverso la predisposizione di una normativa sul settore più articolata dell’attuale Decreto Ministeriale. Elementi vincolanti più stringenti per assicurare il mantenimento delle caratteristiche peculiari di questa modalità di vendita e nel contempo incentivi per agevolare un corretto sviluppo del settore andrebbero messi a punto in un testo unico di legge. È infatti da considerarsi una opportunità da sfruttare, ma allo stesso tempo un rischio, l’attuale situazione normativa ancora in nuce, che è necessario perfezionare mediante una legge quadro nazionale di riferimento alla quale possano armonicamente adeguarsi le singole differenti normative regionali (come quelle del Lazio, Toscana, Piemonte, Veneto). Così come è pure necessaria una programmazione-guida con un pacchetto di interventi di carattere generale per lo sviluppo della filiera corta, cui possano collegarsi i vari interventi di programmazione a livello locale che stanno sorgendo o appena sorti, generalmente integrati con i Piani regionali di sviluppo rurale predisposti per il periodo 2007-2013.
Riguardo agli aspetti vincolanti, ci si riferisce alle modalità di dimostrazione sia dei requisiti oggettivi delle imprese di produzione, sia dei requisiti soggettivi degli imprenditori agricoli. Tale dimostrazione potrebbe consentire di controllare e certificare provenienza, tipicità, freschezza (tempo massimo in ore che intercorre dalla raccolta alla vendita, interessante per gli ortofrutticoli), modalità di produzione e qualità dei prodotti, nonché trasparenza del relativo prezzo, in modo da valorizzare i peculiari punti di forza del prodotto stesso. E' finalizzata inoltre ad evitare -date le agevolazioni fiscali per il settore agricolo- fenomeni di competizione non corretta ed eventuali conflittualità degli agricoltori con altri operatori commerciali. Il decreto non è tanto restrittivo, sia in relazione alle caratteristiche del prodotto da esitare nei mercati agricoli di vendita diretta (7), sia con riferimento ai soggetti abilitati alla vendita e alla provenienza aziendale del prodotto da essi commercializzato (8). Ciò può essere un bene, perché consente il libero esplicarsi di un ventaglio ampio di possibilità, che dà una certa discrezionalità e respiro alle imprese facilitando il superamento di determinati punti debolezza (9), tuttavia questo può anche permettere il verificarsi di qualche evenienza che renda realizzabile il rischio di snaturamento dell'attività (10). Per quel che concerne i succitati incentivi, essi possono consistere in ulteriori agevolazioni fiscali, sostegni di tipo finanziario o di supporto organizzativo sul sistema esterno all’attività delle imprese e su quello interno ad esse con riguardo ad analisi e ad azioni di marketing. Interventi incentivanti, anche finanziari, destinati al sostenimento delle imprese che adottano questa tipologia di vendita ed atti ad agevolare la costituzione di reti di collegamento tra di esse, con particolare attenzione alle piccole imprese ed alle aziende ubicate in zone svantaggiate, sono peraltro giustificati da alcuni dei punti di forza intrinseci alla filiera corta e devono essere finalizzati a concorrere alla piena realizzazione di essi. La vendita diretta da parte degli agricoltori è infatti una modalità di sbocco che ha un buon collegamento con la multifunzionalità delle imprese agricole incentivata in ambito UE. Essa facilita gli scambi e l’incremento del reddito nelle aziende agricole pure di piccole dimensioni (11), agevolando la realizzazione di economie di scopo (12) laddove non possono essere realizzate economie di scala. Può quindi contribuire a suscitare processi di sviluppo locale endogeno in aree rurali anche marginali, soprattutto se suscettibili di attrazione turistica.
In linea generale, politiche a favore della filiera corta possono essere attuate attraverso interventi normativi o programmatici che prevedono incentivi diretti ed anche indiretti.
Per esemplificare più concretamente, consideriamo alcuni rilevanti punti di debolezza tra quelli evidenziati dall’analisi SWOT: la filiera corta si riferisce ad un mercato di nicchia, i consumi sono limitati, soprattutto all'esterno dei grossi agglomerati urbani e delle zone di consolidata attrazione turistica. Tuttavia si rileva, tra le opportunità, una tendenza all'incremento della domanda sia da parte di consumatori a basso reddito, attratti dalla convenienza di prezzo, sia da parte di consumatori ad alto reddito ed anche di ristoratori, attratti dalle citate caratteristiche del prodotto locale, collegabili anche all'interesse manifestato da gruppi culturali slow food. Per realizzare effettivamente l'ulteriore espansione di entrambe le tipologie di domanda potrebbero essere messi in atto allo stesso tempo generi di interventi differenziati:
A) Azioni tese alla valorizzazione e promozione (con pubblicità) del prodotto locale, azioni di marketing del prodotto connesse al marketing del territorio, con iniziative varie (fiere, manifestazioni culturali e folcloristiche, animazione di aree rurali decentrate, ma di pregio paesaggistico e ambientale) atte ad incrementare l’attrattività territoriale e dei prodotti e con essa la domanda sia di consumatori insediati nell’area, sia di turisti. Ciò esalterebbe i punti di forza riferibili alla tipicità del prodotto ed al buon collegamento della vendita diretta con il turismo enogastronomico (Gardini, Lazzarin, 2007).
B) Misure di aiuto al consumo destinate alle fasce più deboli di consumatori a rischio di malnutrizione, simili a quelle già sperimentate negli Stati Uniti, con sovvenzioni attraverso buoni-pasto spendibili nei farmers market.
C) Incentivi di vario genere (fiscali o finanziari) alle imprese di ristorazione e catering che utilizzino prodotto locale.
D) Interventi ancora di tipo istituzionale, finalizzati questa volta a convogliare ulteriori categorie di consumo nel canale della filiera corta (promuovendo il naturale legame tra essa e le produzioni a basso impatto ambientale), riguardano la possibilità di emanare una normativa più severa sulla esitazione delle produzioni biologiche, con la precisa indicazione della filiera corta come canale obbligatorio di sbocco.
Si tratta in tutti questi casi di interventi indiretti. Il rimedio per altre criticità richiede invece interventi più direttamente indirizzati alla attività di vendita tramite filiera corta.
Ad esempio, uno specifico punto di debolezza conseguente alla situazione di nicchia ed alla difficoltà di uscire da essa in aree a bassa densità demografica è costituito dalla insostenibilità, per gli agricoltori con modesti flussi di vendita, dei sia pure limitati costi di investimento per le attrezzature minime necessarie alla commercializzazione, dato che tali costi vanno ripartiti tra un numero troppo esiguo di unità di prodotto. Un altro punto di debolezza, che si estrinseca anche in aree dove c’è più mercato, come quelle urbane, è la difficoltà di reperire spazi adibiti o da adibire a posteggi di vendita. Infine, i punti più cruciali: vischiosità nel coordinamento dei percorsi di certificazione igienico-sanitaria (Brunori, 2006 b) e di qualità dei prodotti, carente organizzazione logistico-commerciale per la difficoltà a prevedere la consistenza della domanda e ad adeguare tempestivamente l’offerta congiunta di tutti i produttori, problemi connessi al raggiungimento per le singole aziende di una dimensione di scala efficiente per determinate operazioni e nel contempo rischio di snaturare -con l’espansione delle dimensioni- alcune peculiari caratteristiche della filiera corta, tra cui soprattutto quella del dialogo diretto tra produttore e consumatore. Queste debolezze possono essere superate attraverso i suddetti interventi di tipo diretto, costituiti da:
E) Incentivi indirizzati agli investimenti dei piccoli produttori, singoli o meglio se associati, per la commercializzazione tramite filiera corta.
F) Concessione di permessi di vendita in aree di proprietà dei singoli Comuni, debitamente attrezzate (concessione prevista dall’attuale decreto ministeriale, ma attuata finora in modo poco diffuso: non in tutti i Comuni, e/o non con l’offerta di un numero adeguato di aree attrezzate). Quest’ultima disposizione consente peraltro l’ottenimento di un beneficio sociale attraverso l’esplicarsi dell’opportunità di valorizzare, insieme alle produzioni agricole locali, determinate aree urbane (come centri storici, zone abbandonate con fabbricati dismessi (loft) da riutilizzare, ed anche giardini pubblici, parchi di città o comunque zone verdi attrezzate intercluse nei centri abitati) od aree rurali (zone di possibile attrazione turistica a rischio di abbandono, da animare). Inoltre l’opportunità di creare centri di vendita in aree destinate a pause ricreative (in particolare nei giardini pubblici od in aree verdi attrezzate) consente di trasformare un importante punto di debolezza, costituito dal fatto che la commercializzazione attraverso i punti vendita degli agricoltori non è una modalità di vendita time saving come quella dei grossi centri commerciali, in un punto di forza: la creazione di piccoli mercati alternativi da associare a momenti di riposo o ludici (come nel caso di famiglie con bambini che giocano in aree verdi attrezzate) e quindi al tempo disponibile per lo svago, “mercatini” che diventano essi stessi una occasione di svago, punti di attrazione e di aggregazione sociale.
G) Promozione di studi mirati su problematiche specifiche di marketing, sull'esempio di quanto già sperimentato con successo in Germania (Boschetti, 2007), dove si sono rivelati validi strumenti per risolvere particolari situazioni critiche (come nel caso del mercato di Coburgo). Promozione ancora di studi per l’analisi della domanda ed attivazione di supporti pubblici di assistenza tecnica per aggregare l’offerta e mettere in comune le informazioni sia sulla consistenza, ubicazione e tipologia della domanda che sull’entità e composizione dell’offerta complessiva attraverso la creazione di networks ed il continuo monitoraggio dell’efficienza del loro funzionamento. Attivazione di supporti istituzionali di tipo organizzativo finalizzati alla razionalizzazione dei percorsi di certificazione igienico-sanitaria e di qualità dei prodotti, alla programmazione ed aggregazione dell’offerta ed alla riduzione dei costi connessi alla logistica. In questo genere di interventi dovrebbero essere coinvolti Enti di assistenza tecnica nonché le Camere di Commercio, come avviene ad es. in Francia, dove le Chambres d’agriculture assumono un ruolo di rilievo, accollandosi la responsabilità dell’organizzazione dei mercati degli agricoltori, la quale si realizza attraverso l’adozione di una “carta degli impegni” e di un regolamento, che devono essere condivisi, di uno stesso logo e di campagne promozionali. La citata aggregazione dell’offerta finalizzata al raggiungimento di economie di scala nella commercializzazione attraverso la costituzione di grosse società tra agricoltori non dovrebbe giungere però fino alla creazione di supermarket simili a quelli della GDO. Ciò di fatto rischia di avvenire in qualche situazione dove esperimenti di aggregazione hanno evidenziato un possibile snaturamento dei farmer's market. Quindi sembra più utile una aggregazione organizzativa e messa in rete di conoscenze, mantenendo tuttavia una individualità dei nodi aziendali che si estrinsechi in molteplici punti di vendita sparsi nel territorio, legati da una comune organizzazione.

Filiera corta e lunga, opportunità di produzione e di sbocco non sempre alternative

Si è parlato finora di filiera corta in contrapposizione alla filiera lunga all’interno di diversi contesti. Tuttavia non sempre esse hanno un rapporto antagonistico nel medesimo contesto, ma vi sono ambiti, come i distretti industriali marshalliani, nei quali questi due circuiti di produzione e sbocco possono coesistere. Infatti accade che in ambito distrettuale si appiattisca il dualismo (Castellani, 2007) tra filiera corta e lunga, e le diverse tipologie di impresa che ne trovano la convenienza di volta in volta si avvantaggino delle opportunità offerte da ciascuna di esse o da entrambe. La convenienza alternativa per le singole imprese è determinata dalla specifica dimensione e peculiare catena del valore (Porter, 1985) che incide sulla scelta di avviare processi di delocalizzazione delle attività produttive (Micelli, Chiarvesio, 2003). Le imprese di medie dimensioni, in particolare, possono fruire anche contemporaneamente di queste opposte modalità di produzione e vendita, laddove si crea il “luogo economico” che ne rende opportuno l’utilizzo. Può essere cioè contemporaneamente presente una -anche parziale- delocalizzazione del circuito produttivo, tipica della filiera lunga, che viene sfruttata per ridurre i costi di produzione pure da parte di imprese di non grandi dimensioni (13), ed una vendita sia mediante filiera corta, sia mediante filiera lunga, ma con incorporati i vantaggi della reputazione del prodotto tipici della filiera corta ed avvalorati dalla contemporanea presenza di essa (14).
Questa realtà, già evidenziata da alcuni studi nei distretti industriali-manifatturieri, sembra emergere anche nei distretti agroalimentari (15). Una situazione di questo genere si paventa possa portare nel tempo alla dissoluzione (Corò, Grandinetti,1999; Grandinetti, Rullani 1996) dei sistemi distrettuali, di cui vengono meno le caratteristiche di base, strettamente legate alla localizzazione produttiva, ma d’altra parte essa può costituire un’opportunità (Grandinetti, Rullani 1996; Rullani, 1997), ed è comunque il risultato di un percorso di adattamento da parte di imprese dinamiche che cercano di sopravvivere alla globalizzazione dei mercati (16). Come potrà evolvere il modello distrettuale attraverso de-costruzione e ricostruzione di sistemi di relazioni non è al momento prevedibile, certo è che, se non si trasforma in qualcosa d’altro e di nuovo, dovrebbe necessariamente tendere verso la scelta di un circuito che si riappropri della tipicità reale, pena la progressiva perdita della reputazione tradizionale, nonché la perdita di quella creatività connaturata ed interna al distretto, che -pure alimentata da scambi con l’esterno- fornisce prioritariamente alle imprese la capacità di innovarsi seguendo un percorso originale.
A questo proposito si devono distinguere i circuiti lunghi di produzione e vendita da quelli esclusivamente riferiti alla vendita dei prodotti. Mentre i primi mal si adattano alla tradizione distrettuale, scindendo lo stretto legame che identifica il prodotto in relazione ad una matrice territoriale, i secondi possono tranquillamente coesistere con quelli brevi come opportunità differenziate di sbocco di un bene che può essere consumato in loco non solo dai residenti ma anche dai turisti o esportato dall’area distrettuale, portando di volta in volta il consumatore al prodotto o il prodotto al consumatore (Sini, 1998), senza che ciò infici la reputazione del bene e la competizione posizionale. Se riferiti alla sola vendita i due circuiti possono infatti valorizzarsi reciprocamente in presenza di un prodotto di alta qualità che coniuga all’interno ed all’esterno il marketing del prodotto con quello del territorio.

Note

(1) A livello globale, con l’eccezione dei Paesi in fase di recente crescita. Quando si parla di flessione dei consumi ci si riferisce in particolare a quanto avviene nei Paesi sviluppati dell’occidente, mentre per i Paesi sottosviluppati, dove i consumi medi della massa di popolazione sono già inferiori al livello di sussistenza, si dovrebbe parlare di mancati obiettivi di incremento.
(2) Divenuta complessa con il progressivo differenziarsi nel tempo delle fasi produttive, l’esternalizzazione dall’azienda agricola dei processi di trasformazione e la nascita del settore industriale agroalimentare.
(3) Mediamente intorno al 30% in meno ed oltre secondo stime differenti della Cia e della Coldiretti.
(4) La disciplina nazionale ed europea sui prodotti biologici e sulla loro certificazione detta infatti norme esclusivamente sulle modalità di produzione, ma non ancora, nonostante una proposta della Soil Association, sulle modalità di distribuzione, che includono conservazione e trasporto. Per cui accade che, a dispetto dei principi di sostenibilità ambientale ad essi connaturati, questi prodotti vengano commercializzati attraverso circuiti non sempre brevi, e trasportati anche in aereo per lunghi tragitti.
(5) Tali prezzi normalmente risultano più contenuti, rispetto a quelli della filiera convenzionale, probabilmente perché i prodotti venduti nei mercati degli agricoltori non soddisfano determinate esigenze, ma potrebbero essere uguali o addirittura più elevati in relazione alla entità della domanda, che rispecchia le “mode” e la diversa importanza attribuita dalla massa dei consumatori alla differente tipologia di qualità incorporata nei prodotti stessi.
(6) Nel caso ad esempio dei “gruppi di acquisto solidale” il rapporto diretto tra produzione e consumo “assume connotati che vanno in modo esplicito oltre il semplice scambio economico” (Brunori, 2006 b).
(7) Riguardo alle caratteristiche del prodotto, oltre alla dovuta conformità alle norme vigenti in materia di igiene degli alimenti ed all'etichettatura secondo la disciplina generale in vigore, si prescrive l'indicazione del luogo d'origine territoriale e dell'impresa produttrice. Non vengono posti particolari vincoli rispetto alle modalità di produzione, come ad esempio nel Regno Unito dove i farmers’ market sono disciplinati da una specifica normativa che prevede il rispetto della compatibilità ambientale e del benessere animale, nonché il controllo e la certificazione della qualità dei prodotti.
(8) Quanto ai soggetti abilitati alla vendita, essi devono essere imprenditori agricoli iscritti al registro delle imprese, con azienda ubicata nell'ambito territoriale (regionale o altro ambito amministrativo locale) dove avviene la commercializzazione, ma possono svolgere attività di vendita anche familiari coadiuvanti e pure personale dipendente dell'impresa agricola. Tali soggetti possono vendere prodotti agricoli provenienti dalla propria azienda, o prodotti provenienti dall'azienda di eventuali soci imprenditori agricoli (in caso di cooperative o altre società), inoltre possono vendere anche altri prodotti agricoli ottenuti nello stesso ambito territoriale locale, rispettando il limite della prevalenza: ovvero il prodotto complessivamente venduto deve provenire in prevalenza dall'azienda propria o dei soci.
(9) La possibilità di concentrare il prodotto di imprenditori diversi ad esempio può ovviare al problema della limitata quantità di prodotto e della limitata gamma di prodotti disponibili per singola azienda ed agevola il raggiungimento di una massa critica indispensabile al superamento della mancanza di economie di scala e della carente organizzazione logistico-commerciale.
(10) In taluni casi di forte aggregazione in unico spazio di mercato, infatti, anche senza giungere proprio ad una vendita con modalità selfservice come nei supermarket, può essere trascurato il caratterizzante rapporto diretto tra singolo produttore e consumatore, concentrando in una sola persona addetta alla vendita l'offerta di più produttori e magari sostituendo il produttore con un dipendente. Il decreto prevede però la possibile realizzazione di attività culturali, didattiche e dimostrative organizzate all'interno dei mercati, il che può far recuperare a livello di comunicazione diffusa ciò che si perde in termini di comunicazione individuale. Oltre al rapporto diretto tra produttore e consumatore, si potrebbe perdere in parte anche il vantaggio dei chilometri zero, se un imprenditore vendesse prodotti di soci con azienda ubicata all'esterno del circuito locale di vendita.
(11) A queste ultime infatti la filiera corta consente sia di poter diversificare la produzione (dato che la vendita diretta offre la possibilità di sbocco anche per poca quantità di differenti prodotti), sia di superare barriere amministrative ed igieniche (Brunori, 2006 a).
(12) Essendo la modalità di vendita tramite filiera corta connessa alla diversificazione sia della produzione aziendale agricola in diversi assortimenti, sia della stessa attività produttiva delle aziende (multifunzionalità), considerato che l’impresa agricola svolge anche la funzione di commercializzazione del prodotto e di educazione alimentare del consumatore. Inoltre la vendita diretta coesiste facilmente con attività agrituristiche e/o di conservazione ambientale.
(13) Magari attraverso il preferenziale impiego di strumenti contrattuali piuttosto che con investimenti diretti all’estero, usualmente utilizzati nell’internazionalizzazione produttiva delle grandi imprese (Micelli, Chiarvesio, 2003).
(14) Si mantiene in tal modo un legame di facciata con il territorio-distretto di origine della produzione, che è in questo caso luogo “storico” di saperi e tradizione produttiva, dove permangono residenza dell’impresa, organizzazione ed assemblaggio della produzione, e da cui comunque partono le direttive per le modalità di produzione (disciplinari) e di certificazione di prodotti che, anche se ottenuti con alcune fasi di lavorazione effettuate in altre aree, rispettino determinati standard qualitativi e di tipicità del prodotto distrettuale di cui portano il marchio.
(15) Laddove può accadere che avvenga la trasformazione ultima del prodotto con materia prima soltanto in parte locale, oppure talvolta anche che si produca la materia prima da trasformare altrove.
(16) La competizione internazionale spinge verso una riduzione del costo di produzione tramite la delocalizzazione produttiva, ma allo stesso tempo spinge verso una valorizzazione sempre maggiore dei cosiddetti beni posizionali, cui è associato un differente livello di reputazione legato alla qualità. L’attuale tendenza dei mercati è infatti orientata ad un aumento del commercio dei beni differenziati tramite marchi, definiti (Yotopoulos, 2007) “demercificati” (decommodified), in contrapposizione alle tradizionali merci indifferenziate (commodities). E la competizione, sempre più “basata sulla qualità (reale e/o percepita) anziché sui costi di produzione delle merci”, diviene di tipo posizionale, per dar luogo alla formazione di mercati non contendibili che generano rendite (Romano, 2007). Le imprese distrettuali quindi, con la contemporanea presenza di diverse articolazioni dei circuiti di produzione e vendita, cercano di competere su entrambi i fronti (riduzione dei costi legata alla delocalizzazione e reputazione del prodotto legata all’area d’origine), anche se è presumibile ritenere che ambedue i vantaggi competitivi, seppure conseguibili, non si possano mantenere a lungo accoppiati nel tempo. La qualità “tipica” del prodotto, che gli conferisce la reputazione, è infatti inscindibile dalla produzione locale.

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Bell'articolo, chiaro ed equilbrato. L'ho trovato molto utile per inserire dei cenni sulla filiera corta in un capitolo sulle filiere agro-alimentari del Made in Italy cui sto lavorando.

Commento originariamente inviato da 'Grandinetti Roberto' in data 26/09/2013.