La futura politica di sviluppo rurale dell'Unione Europea

La futura politica di sviluppo rurale dell'Unione Europea
a Commissione Europea, Direzione Generale dell'Agricolura e Sviluppo Rurale

Il nuovo regolamento e le linee-guida strategiche: cosa cambia nel prossimo periodo?

Confrontando misura per misura il regolamento 1257/99, ora in vigore, con quello recentemente approvato dal Consiglio, potremmo dire che poco o a è cambiato nelle politiche di sviluppo rurale e che possiamo tranquillamente continuare sulla strada tracciata da “Agenda 2000”. Ciò sarebbe un errore di prospettiva grave, che farebbe perdere del tempo prezioso e risorse finanziarie sempre più difficili da ottenere. E’ un lusso che l’Italia non dovrebbe permettersi. Vediamo perché e quali sono gli elementi innovativi che lo caratterizzano.

1. L’approccio strategico. La politica agricola comunitaria si è evoluta fino ad oggi in modo relativamente autonomo da quello delle altre politiche comunitarie. Tuttavia, una situazione economica stagnante da diversi anni nei paesi europei, l’aumento del numero dei settori in crisi e le crescenti difficoltà nel reperimento di nuove fonti di finanziamento pubblico hanno determinato una forte pressione sui criteri d’allocazione della spesa, nonché sulla coerenza tra le diverse politiche europee. Nel marzo del 2005, i capi di stato hanno concordato di rafforzare le politiche di stimolo alla crescita e all’occupazione (e, quindi, la strategia di Lisbona, nel gergo comunitario), ad esempio quelle della ricerca e dell’innovazione, rivedendo le priorità esistenti, assicurando un maggior coordinamento tra le politiche e mantenendosi sotto i limiti di spesa precedentemente fissati anche nel prossimo periodo finanziario. Ciò ha portato a guardare la spesa agricola e lo sviluppo rurale da un punto di vista diverso, non più legato principalmente all’accompagnamento della riforma della politica dei mercati, ma dando anche qui priorità alla crescita e alla creazione di nuova occupazione.
E’ dunque necessario stabilire un percorso che colleghi lo sviluppo rurale con queste priorità nel medio periodo. Si tratta di un esercizio mai fatto finora e che mette in luce gli aspetti dinamici dello sviluppo rurale, lo inquadra in un disegno coerente, e rende necessaria una lettura settoriale e territoriale allo stesso tempo. Ogni Stato e Regione dovrà elaborare una strategia di sviluppo rurale, prima di predisporre il proprio programma, che renda compatibili e coerenti gli obiettivi prioritari definiti a livello europeo con quelli nazionali o regionali, collegandoli con le azioni che verranno svolte e le altre politiche per la crescita e l’occupazione.
Le priorità europee indicate nella proposta presentata dalla Commissione al Consiglio ai primi di luglio sono: il miglioramento della competitività del settore agricolo e forestale, il miglioramento dell’ambiente e del paesaggio rurale, il miglioramento della qualità della vita, la diversificazione dell’economia rurale e il rafforzamento delle capacità locali di agire a favore dello sviluppo. Il raggiungimento di questi obiettivi dovrà essere verificato periodicamente e fornisce una “leggibilità” delle politiche rurali oggi impossibile.

2. Tre assi/obiettivo ed un metodo. Gli obiettivi strategici sono strettamente collegati con gli “assi” definiti nel nuovo regolamento. Le misure raggruppate in ogni asse indicano i tre grandi orientamenti possibili per lo sviluppo rurale, non alternativi ma complementari tra loro, ed a cui si può dare “pesi” diversi, secondo le peculiarità dei territori, ma che non si possono ignorare del tutto.
Il primo di questi grandi orientamenti è quello di ridare competitività al sistema delle aziende agricole e forestali, ricollegarle all’innovazione, ai bisogni dei consumatori, alle catene agro-alimentari. Tutto questo ha un significato molto diverso e più ampio delle vecchie misure di modernizzazione delle strutture agricole con obiettivi produttivistici.
Il secondo orientamento è quello della sostenibilità ambientale. Qui si sono riunite tutte le misure agro-ambientali e forestali, aggiungendo la rete Natura 2000, l’adeguamento alle condizioni per il ricevimento dei pagamenti diretti, il benessere degli animali, i pagamenti per i “servizi” ambientali prestati dalle aziende, quando eccedono i minimi obbligatori. Si tratta di un insieme d’interventi ancora eterogeneo (si pensi all’inclusione delle indennità compensative), ma che disegna un approccio più organico tra agricoltura ed ambiente e, quindi, che contribuisce a definire meglio il concetto di sostenibilità cui si vuole dare attuazione a livello comunitario. In prospettiva, l’insieme di vincoli ed opportunità ambientali potrebbe trasformarsi in una leadership tecnologica europea in questo campo, in un vantaggio competitivo.
Il terzo orientamento punta alla diversificazione dell’economia rurale e alla qualità della vita. Oltre all’esplicito riconoscimento che questi due aspetti sono indispensabili alla sostenibilità sociale, demografica ed economica delle zone rurali, c’è qui anche il riconoscimento delle nuove funzioni che le zone rurali svolgono per la società moderna: offrire opportunità di lavoro diverse, servizi per il tempo libero alle popolazioni urbane, residenza e costo della vita più convenienti, nuovi stili di vita, un laboratorio per nuove iniziative imprenditoriali, luoghi di decentramento produttivo.
Il metodo che si è dimostrato più efficace nelle politiche di sviluppo rurale è l’approccio Leader, codificato nel nuovo regolamento in sette caratteristiche specifiche (base territoriale, partenariato pubblico-privato, approccio partecipativo, multisettoriale e integrato, orientamento all’innovazione, cooperazione tra gruppi e scambi tra gruppi collegati in rete). Mentre fino ad ora Leader è stata un’iniziativa separata dei programmi di sviluppo rurale, in futuro sarà il metodo suggerito per attuare in particolare il terzo asse (diversificazione e qualità), ma anche per sperimentare approcci innovativi ed integrati negli altri due.
Nei tre grandi orientamenti individuati e nel metodo suggerito si è arrivati ad una grande maturità nell’identificazione degli strumenti per lo sviluppo rurale sostenibile. Essa combina la saggezza acquisita con l’esperienza con una visione del futuro delle zone rurale europee, fatta di agricoltura piccola e grande, pluriattiva e professionale, con prodotti indifferenziati e di qualità, ma anche di manifattura e servizi moderni, di nuovi rapporti con i centri urbani ed i mercati mondiali, di rispetto per l’ambiente ed il paesaggio, di luoghi in cui si può praticare con profitto una democrazia deliberativa a livello locale.

3. Le soglie minime di spesa. Nessuno di questi grandi assi basta da solo a realizzare gli obiettivi di crescita e di incremento dell’occupazione delle zone rurali, come quello della sostenibilità nel senso più ampio: la presenza dei tre ingredienti è indispensabile anche se la loro combinazione può e deve essere variabile, secondo i luoghi ed i bisogni. Questo principio sta alla base della “soglia minima di spesa” assegnata ad ogni asse: il 10% alla competitività (primo asse) e alla diversificazione (terzo asse), 25% all’ambiente (secondo asse), e 7% per il metodo Leader, che può essere realizzato in qualsiasi dei tre assi. Questo significa che ogni Stato Membro (o Regione) è vincolato ad assegnare in questo modo il 45% della spesa, ed è libero di assegnare il rimanente 55% secondo le proprie preferenze.

4. Un nuovo rapporto con le politiche di sviluppo regionale. Con il nuovo regolamento si è garantita una notevole semplificazione delle procedure e dei finanziamenti delle politiche rurali: vi è un solo fondo e un solo programma per gestire la spesa e realizzare le azioni. Questa evoluzione va letta come un miglioramento burocratico, utile di per sé, ma che acquista importanza anche riguardo all’effetto dell’allargamento dell’Unione Europea, avvenuto lo scorso anno. Si prevede infatti che dei fondi di sviluppo regionale e di coesione beneficeranno in misura significativa i nuovi paesi membri, come è giusto che sia, perché sono quelli che hanno gli squilibri più significativi e ad essi appartengono le regioni dove si ritiene che debbano essere concentrate le azioni che facilitano la convergenza e la riduzione rapida delle disparità di reddito. In questo scenario, è bene che il nuovo Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Rurale (FEASR) abbia compiti più ampi e diversi nelle zone rurali, dato che gli altri fondi, dopo i periodi di transizione, si concentreranno nelle nuove realtà ed avranno priorità legate agli obiettivi comuni di stimolare la crescita e l’occupazione attraverso l’innovazione.
Il nuovo quadro normativo è dunque innovativo e ambizioso, orienta e struttura le azioni di sviluppo rurale, abbandonando l’approccio fin qui seguito di lunghe liste di misure eterogenee e scollegate. In secondo luogo pone la questione degli obiettivi comuni a livello europeo, raggiunti con percorsi diversi, di esigenze di sviluppo non solo settoriali, di coerenza tra politiche. Infine propone di integrare un approccio di sviluppo locale partecipativo, come miglior modo per valorizzare le risorse e le opportunità oggi esistenti nelle zone rurali.

Le questioni aperte a livello europeo

Il sintetico quadro fino a qui tracciato pone un grosso punto interrogativo che induce alla prudenza. Le difficoltà per giungere ad un accordo tra gli Stati Membri sulle prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013 sono sostanziali e trovano nell’entità della spesa agricola un serio ostacolo. Il risultato di queste discussioni può dunque influire sulle possibilità d’attuazione del nuovo regolamento (n.d.r.: si veda al riguardo la scheda sul Rapporto Sapir su questo numero di Agriregionieuropa).

Le questioni aperte a livello italiano

Le caratteristiche dello sviluppo italiano rendono l’Italia un candidato particolarmente fortunato di fronte agli orientamenti appena indicati. L’Italia è stata sempre forte nei prodotti agricoli di qualità, ha un’industria agro-alimentare solida e competitiva anche oltre i confini europei ed è rinomata per i suoi paesaggi rurali. Gran parte del suo territorio, soprattutto il Nord-Est, si è sviluppato attraverso processi di sviluppo locale “dal basso” che hanno realizzato, in forma abbastanza spontanea, non solo la diversificazione delle economie e dei mercati del lavoro rurali, ma anche la loro specializzazione in distretti industriali ed agro-industriali, studiati con interesse da molti osservatori, e con relativamente buoni livelli di qualità di vita e di reddito. L’Italia può dunque essere contenta del nuovo quadro normativo proposto, rispetto al quale presenta ottime risorse e vantaggi rispetto ad altre realtà europee.
I rischi, a mio parere, sono di diverso genere e soprattutto di natura politica. Il primo è quello ambientale: c’è una debolezza nell’incorporare le questioni riguardanti la sostenibilità nel sistema di vincoli ed opportunità offerte dalle politiche di sostegno. Il secondo è quello dell’integrazione: si continua ad intervenire per settori, anche a scala territoriale piccola, quando sarebbe meglio tentare politiche multisettoriali più ambiziose e innovative, che avrebbero il vantaggio di conservare e sfruttare meglio le interazioni positive tra settori, in un territorio particolarmente dotato di buone risorse. Il terzo rischio è quello di preferire un orientamento (o asse) a scapito di un altro, come se la competitività del settore agricolo e forestale si potesse affrontare soltanto eliminando gli interventi per l’ambiente o per lo sviluppo locale, invece di ragionare su come lo sviluppo locale favorisca l’agricoltura, e viceversa.

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