Il Novecento di guerra e di pace1 2
Il Novecento, è stato definito, con brillante ossimoro, il “secolo breve” (Hobsbawm, 1999), che inizia nel 1914 e termina nel 1991. Senza voler discutere la condivisibilità di tale tesi (e, tanto meno, sminuirne la forza interpretativa) pare utile, in un’ottica eurocentrica coerente con l’oggetto di questo contributo, scindere il XX secolo in due parti: il “900 di guerra” ed il “900 di pace”.
Il primo periodo, il “900 di guerra”, affonda le sue radici non solo nell’800, ma nei secoli precedenti e presenta, in un quadro europeo, una sostanziale continuità con gli stessi. È l’Europa della formazione degli stati nazionali e dei conflitti tra gli stessi. La novecentesca Prima Guerra Mondiale, pur presentando molteplici cause di natura economica, politica, diplomatica e culturale trova la sua fonte ultima nelle tensioni fra le potenze europee per il primato economico e politico. La Seconda Guerra Mondiale vede le sue cause nei valori nazionalistici, irredentistici (di stampo ottocentesco), nelle volontà espansionistiche degli stati nazionali e nel peso, inutilmente revanschistico, imposto nel trattato di Versailles alla Germania (Pecout).
Le sostanziali novità dei conflitti novecenteschi rispetto quelle dei secoli precedenti, sono identificabili, quindi, non tanto nelle ragioni, quanto nei mezzi, rappresentati dall’alto grado di coinvolgimento delle popolazioni nello scontro bellico e nell’orientamento dell’industrie nazionali a sostenere tale sforzo, con la disponibilità di strumenti di offesa precedentemente inimmaginabili. La capacità distruttiva posta in campo e l’esigenza di distruggere la retroguardia industriale allo sforzo militare portarono le perdite umane militari e civili a livelli drammaticamente mai riscontrati nei conflitti precedenti3 .
Dalla valutazione del ruolo avuto dagli stati nazionali nell’esplosione dei due conflitti novecenteschi4 si avvia la seconda parte del secolo, che può essere descritto, sempre in un’ottica esclusivamente europea, come il “900 di pace”5 .
L’Europa, riappacificata alla fine del secondo conflitto mondiale, si presenta spaccata a metà in due blocchi contrapposti e profondamente diversi come sistemi socio-politici: come due gherigli di noce, separati dall’impenetrabile “cortina di ferro” e racchiusi nell’infrangibile guscio degli accordi di Yalta. Ed in ognuno dei due gherigli si avviano processi di integrazione internazionale. Entrambi sono racchiusi da una pellicola di alleanze militari: la Nato da una parte ed il Patto di Varsavia dall’altra. In entrambi si rafforzano i legami economici interni, nel quadro del Consiglio per la Mutua Assistenza Economica (COMECON) per il blocco dell’Europa centro-orientale e della Comunità Economica Europea per il blocco dei paesi occidentali.
In tale contesto, la costruzione europea sarebbe dovuta diventare un collante che fondeva interessi economici nazionali in un nodo gordiano internazionale non scioglibile. Come tale sarebbe dovuta diventare parte di un baluardo insormontabile contro il riaccendersi di volontà di risolvere manu militari le tensioni inter-nazioni sul suolo europeo.
Le identità europee
Il processo di integrazione europea coinvolge popoli e nazioni con identità culturali, sociali ed economiche profondamente diverse, in cui è probabilmente impossibile trovare tratti unificanti generalizzabili6 . Una storia plurimillenaria in cui si sovrappongono e si meticciano valori e tradizioni diverse in cui, al massimo, è possibile individuare radici diverse: indoariana, greca, latina, cristiana, barbarica, ebraica, araba. Nessuna delle di esse può accampare la pretesa di aver assorbito in sé tutte le altre e di costituire, quindi, lo snodo unificante dell’unità europea.
Né la modernità ha espresso un modello sociale unico. Comparando il peso ed il ruolo che i principali attori economici (famiglie, imprese e Stato) rivestono, nel secondo ‘900, nelle economie nazionali è possibile individuare una pluralità di modelli di economia di mercato in Europa7 . Se ad esse si aggiungono le soluzioni poste in campo dai paesi dell’area orientale dopo il 1992, indicate come instant capitalism (Nuti), nonché i riorientamenti sviluppatisi a cavallo della fine del secolo nei paesi europei, il quadro risulta estremamente complesso.
Le finalità della Pac
In un quadro di profonde differenze culturali, istituzionali e di tessuto produttivo va collocato l’avvio della Politica Agricola Comunitaria. L’agricoltura fu considerata uno dei settori da armonizzare in via prioritaria. La ragione è semplice: non era possibile pensare alla realizzazione di un mercato comune senza che in esso fosse inclusa l’agricoltura8. Ciò per due motivi (Fear). Il primo è che l’agricoltura era uno dei settori in cui i progressi della produttività conseguenti all’instaurazione di un mercato comune potevano avere gli effetti più importanti sul livello di vita dei produttori e dei consumatori. Il secondo è che l’inclusione dell’agricoltura nel mercato comune era una condizione di equilibrio degli scambi tra le differenti economie degli stati membri9. Tali motivazioni evidenziano che:
- la crescita della produttività agricola fu considerato un percorso fattibile e di forte impatto sociale (dato il peso del mondo agricolo sull’insieme delle popolazioni nazionali10);
- la Pac risultò un compromesso tra esigenze nazionali forti di paesi europei che, storicamente, si erano confrontati con durezza su un terreno bellico.
Essa costituiva, quindi, una sorta di “asso di briscola” sul tavolo prospettico dell’integrazione europea.
Gli obiettivi della Pac
Il quadro in cui si collocò la definizione degli obiettivi da assegnare alla stessa fu quello della situazione agro-alimentare a cavallo degli anni ’40-’50 del Novecento.
Era caratterizzato, in primo luogo, dalla memoria della penuria alimentare del primo dopoguerra. Negli atti preparatori alla formulazione del piano Marshall la riduzione della disponibilità di derrate alimentari nel 1947 viene stimata pari ad un quarto della produzione dell’ultimo anno pre-bellico, il 1938 (McMahon).
Nella sua formulazione ci fu consapevolezza, in secondo luogo, del difficile quadro internazionale degli anni ‘50: la rivalità tra le due potenze egemoni nella “guerra fredda”, Usa ed Urss, avrebbe potuto rendere estremamente complesso un approvvigionamento alimentare sui mercati internazionali. In tale contesto l’autosufficienza alimentare si configurò come un obiettivo prioritario per i diversi governi nazionali dei paesi deficitari. I paesi tradizionalmente esportatori cercavano, d’altra parte, di riaprire gli sbocchi commerciali dopo il periodo di autarchia bellica e di paralisi degli scambi internazionali.
In terzo luogo, la crescita della capacità produttiva industriale nei diversi paesi europei avrebbe creato le condizioni per un esodo delle popolazioni rurali verso il settore secondario. Ciò avrebbe posto la necessità di governare tale esodo, cercando di conciliare le esigenze di manodopera dell’industria con un ammodernamento delle aziende agrarie.
Conseguentemente, vengono riprese nella formulazione degli obiettivi della politica agricola comune le principali indicazioni elaborate dal rapporto Spaack, che individuava nell’inelasticità della domanda di prodotti alimentari, la necessità di approvvigionamenti stabili e nella peculiarità della struttura produttiva agricola (caratterizzata dalla piccola proprietà contadina) le problematiche fondamentali da affrontare all’interno del quadro di un mercato comune (cfr tabella 1). Inoltre veniva condivisa la valutazione che una semplice liberalizzazione degli scambi non poteva essere sufficiente ad affrontare tali problematiche, ponendo la necessità di un’azione comune (Ritson).
Gli obiettivi della Pac come definiti dal Trattato di Roma risultano cinque: incrementare la produttività dell'agricoltura; assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola; stabilizzare i mercati; garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori.
Essi si configurano come un insieme di obiettivi economici e sociali potenzialmente contradditori11 e non raggiungibili simultaneamente.
Tabella 1 - Inquadramento storico degli obiettivi della Pac
Gli sviluppi successivi dell’integrazione europea
Il processo di integrazione europea, come è ben noto è proseguito nei decenni successivi su due fronti, quali le modifiche e le integrazioni al Trattato di Roma ed i Trattati di adesione da parte di altri paesi.
Il trattato di Roma è stato modificato ed integrato nei decenni dai numerosi altri trattati12">http://www.europa.eu . I Trattati di adesione hanno portato l’allargamento dei paesi aderenti da 6 a 27.
Le agricolture europee
Qualche parola, finalizzata alla comprensione del quadro in cui ha agito la Pac, va dedicata ai destinatari della stessa, vale a dire i sistemi agricoli nazionali. Le agricolture dei paesi dell’Unione europea sono ancora oggi molto diverse tra loro per dimensione13, ruolo che svolgono nelle economie e nelle società nazionali14, produttività dei principali fattori15, dinamiche e capacità di reagire alle congiunture economiche avverse16. La definizione di linee comuni richiedono quindi complesse mediazioni tra esigenze specifiche prfondamente diverse.
Una riflessione della Pac a 50 anni dall’avvio
Una riflessione complessiva di cinquant’anni di Pac, che attraversi la sua evoluzione, trascende, evidentemente, i ristretti limiti di questo breve intervento. Uno sforzo in tale direzione può toccare il senso e le finalità della stessa.
Per quanto riguarda il senso, la Pac ha centrato la sua missione: è stata una politica che ha colto grandi successi (pur in presenza di ombre)ed ha rappresentato, con ciò, un passaggio vincente nel processo di integrazione europea. Il suo stesso successo, le ha tolto, d’altra parte, parte del senso, avendo spostato il processo di unificazione europea su altri piani.
Per quanto riguarda le finalità, qualche elemento di valutazione può essere tratto confrontando gli obiettivi della politica comune con l’evoluzione del quadro di riferimento storico (cfr. tabella 2).
Tabella 2 - Raffronto tra le condizioni economiche di avvio della Pac ed attuali
Alla luce di tale confronto gli obiettivi della Pac debbono essere visti sotto un’altra luce. L’incremento della produttività non va visto in funzione dell’esigenza di colmare un deficit di disponibilità di derrate alimentari, che, anzi è stato sostituito negli anni, proprio grazie ai risultati della politica comune, dall’esigenza di governare eccedenze produttive. L’assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori è stato ridimensionato dalla contrazione del peso della spesa alimentare sui bilanci domestici.
Il quadro di riferimento degli scambi internazionali è caratterizzato da un processo di liberalizzazione dei mercati mondiali e di globalizzazione degli scambi.
L’assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola, costituisce sempre un obiettivo redistributivo socialmente condiviso. Ma la rilevanza sociale del suo impatto si è profondamente ridimensionata. Esso non investe, come agli albori degli anni ’60, un terzo (o più) della popolazione, ma riguarda un segmento di cittadini il cui ordine di grandezza è, per la media europea a 27 del 4,4%.
Il significato di tali obiettivi, va quindi calato nella gerarchia di problemi che l’agricoltura deve fronteggiare in un quadro profondamente modificato. Esso, in qualche modo, può venire sintetizzando categorizzando i fenomeni per componenti e dimensioni (cfr. tabella 3).
Tabella 3 - Problematiche coinvolgenti l’agricoltura attuale
In tale quadro di problematiche (e, tra le stesse, quelle su cui la Pac può impattare) può essere impostata la riflessione sulla riforma della Pac in corso. Nel processo di transizione verso un futuro ordine mondiale, di cui ancora non è possibile individuare le gerarchie e le posizioni che si consolideranno nel prossimo decennio, pare svolgere una funzione precauzionale: garantire comunque all’Europa, mediante il mantenimento di una base di aziende agricole in produzione, l’autosufficienza alimentare17.
In secondo luogo, è evidente come, passando, nello studio delle prese di posizione ufficiali dell’UE, dai documenti programmatici di più ampio respiro a quelli più direttamente operativi, il grado di apertura alle diverse tematiche si riduce, perdendo caratteristiche di generalità a favore di quelle di settorialità. Per quanto riguarda il suo peso nel bilancio europeo, va sottolineato che, forse, il problema non è che essa “pesi troppo” sul bilancio dell’Unione (30-40%), quanto che lo stesso è limitato rispetto il PIL europeo (1-2%). Lo stallo nella costruzione dell’unione europea è il problema.
Per quanto riguarda il ruolo della Pac, invece, si configura una effettiva contrapposizione, all’interno di un “bilancio piccolo”, tra “politiche tradizionali” (quale quella agricola) e “nuove politiche” dell’Unione Europea. Dalla sua la Pac può giocare la carta di essere stata una politica vincente; ma i passi successivi dell’unificazione europea possono caricarla di componenti di senescenza, rispetto altri spazi di unificazione. Il limitato numero di beneficiari diretti ne ridimensiona l’auspicabilità da parte di chi “offre” politiche. La sua cinquantennale applicazione ha creato, d’altra parte, un poderoso sistema di pressione “lobbistica”, per cui un abbandono della stessa potrebbe innescare effetti deflagranti su una costruzione fragile, quale quella europea.
In sintesi, a questo livello, si configura come una politica “tradizionale”, ma fortemente richiesta contrapposta a politiche auspicate, ma non entrate nella prassi.
Un’ultima riflessione rispetto la tematica se sia una politica rivolta esclusivamente agli agricoltori, o rivolta a tutti i cittadini (cfr. tabella 4).
Tabella 4 - Componenti della Pac: politica per i cittadini e/o per gli agricoltori
NB: il numero degli asterischi sintetizza una valutazione dell’impatto
Ciò, in primo luogo in relazione al fatto che si prefigge la certezza degli approvvigionamenti alimentari in Europa. La sicurezza alimentare è, indubbiamente, un tema forte: richiama fantasmi di pauperismo e carestia che scuotono la coscienza delle persone e impongono reazioni forti. Ma tale messaggio è leggibile come messaggio razionale o come messaggio riconducibile a quel filone di letteratura della comunicazione del rischio definita del “fear appeal” o “del richiamo alla paura”? E’, indubbiamente, una domanda complessa. A tale proposito è, comunque, opportuno ricordare che nel 1953, pur in assenza di alcuna politica agraria, l’Europa supera il pauperismo bellico e post-bellico in campo agro-alimentare e passa da una situazione di deficit ad una di surplus di derrate alimentari.
La seconda componente riguarda i prodotti di qualità, richiesti dai cittadini e certificati con i sistemi DOP, IGT, STG e biologici. Essi, comunque, coprono un piccolo segmento dell’offerta alimentare europea.
Per quanto riguarda la terza componente è difficile individuare una sequenza causale univoca tra primo pilastro e autosufficienza alimentare. Non è da escludere a priori che l’agricoltura europea riuscirebbe a produrre l’autosufficienza anche senza tale forma di intervento diretto; o, il medesimo risultato potrebbe essere raggiunto per altre vie.
Infine i servizi ambientali e la tutela dei beni collettivi. Essi dovrebbero essere perseguiti da alcune componenti del secondo pilastro e dal greening. Ma a tutto il secondo pilastro va solamente ¼ degli stanziamenti ed il greening non è ancora chiaramente definito.
In sintesi, il rischio è che si stia tarando questa riforma tanto sulle esigenze degli agricoltori e poco su quelle dei cittadini. Con ciò si configurerebbe come una politica indirizzata da pochi, ma non condivisa da molti.
Conclusioni
Il mondo (nel senso più letterale del termine) si è profondamente evoluto dagli anni ’50 del Novecento, in cui la Pac è stata pensata, ai primi decenni del XXI secolo: da un bipolarismo bloccato si è passati ad un multipolarismo fluido; il baricentro geo-politico si sta spostando da una diarchia egemonica atlantico-europea ad una centralità asiatica; fattori considerati ragionevolmente illimitati (ambiente e risorse naturali) sono diventati beni economici.
La Pac ha attraversato tutto ciò. Ha colto, tra luci ed ombre, gli obiettivi per cui era stata pensata: ha contribuito alla costruzione dell’Unione Europea, ha garantito l’autosufficienza alimentare del Vecchio Continente, ha accompagnato il processo di industrializzazione.
Si pone la questione se essa possa avere un ruolo di carattere non solamente settoriale nel nuovo contesto. L’unificazione europea, che pur deve continuare, passa su altri piani; l’agricoltura può contribuire, dato il suo peso contenuto, solamente marginalmente (e in maniera concorrenziale nell’uso delle risorse di bilancio) alla creazione di occupazione; il ruolo di tutela delle risorse naturali non pare sufficientemente valorizzato. Resta l’obiettivo dell’autsufficienza alimentare europa: centrale. ma perseguibile anche per altre vie (più efficienti). Su tale base essa può giustificabile sino al 2020. Ma poi?
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- 1. Si ringraziano gli anonimi referees per gli utili suggerimenti.
- 2. Il lavoro è il risultato di una riflessione comune; Sillani ha curato la stesura del paragrafo “Le agricolture europee” e Gregori gli altri.
- 3. La prima e la seconda guerra mondiale con i 26 ed i54 milioni di morti che hanno comportato superano di un ordine di grandezza rispettivamente di circa 5 e e 10 volte i periodi più sanguinosi della storia europea, quali la guerra dei trent’anni e la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche (Leger Sivard, 1996).
- 4. “L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso dipiù vasta solidarietà contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, fino alla formazione degli Stati totalitari e dallo scatenarsi delle guerre mondiali”. (Manifesto di Ventotene -Testo del 29/08/1943- cfr. http://www.altierospinelli.org)
- 5. L’unica tra le circa 60 guerre locali (con gli approssimativamente 20 milioni di morti e 60 milioni di feriti complessivi) scoppiate tra il 1945 ed il 2000 sviluppatasi in un’area europea sono stati i conflitti all’interno della ex-Jugoslavia.
- 6. “Se si cerca l’essenza dell’Europa non si trova che uno ‘spirito europeo’ evanescente e asettico” (Morin, 1988).
- 7. Modelli che vanno da quello “renano” della Germania all’“anglo-sassone” del Regno Unito, dall’impostazione “tecnocratica” francese a quella “neocorporatista” scandinava, passando per la dimensione “famigliare” italiana. (cfr. Jossa 2004).
- 8. Come evidenziato dal “rapporto Spaack” e presentato al Comitato Intergovernativo della Conferenza di Messina del 1955.
- 9. Il cosiddetto compromesso franco-tedesco, inteso a contemperare le esigenze del settore primario francese con quelle del settore industriale tedesco (Fanfani 1998).
- 10. Negli anni ’50 circa il 30% della popolazione ricavava il suo reddito da attività agricole (Fanfani, 1998).
- 11. W. Hallestein, primo presidente della Commissione, osservò che l’art. 33 rappresenta “nothing less, than an encyclopaedia of economic problems” (Snyder, 1985).
- 12. Cfr 13. Le cinque agricolture maggiori, nell’ordine Francia, Italia, Spagna, Germania e Regno Unito, nel 2009 rappresentavano il 62% del valore aggiunto lordo del settore primario dei 27 paesi dell’Unione. Se a queste si aggiungono le agricolture di Polonia, Olanda, Romania e Grecia si supera l’81% del VAL complessivo. I restanti 18 paesi contano il 19% del VAL dell’Agricoltura UE (European Commission, 2010).
- 14. Nel 2009 le agricolture dei sei paesi fondatori della Pac hanno un peso nelle economie dei rispettivi paesi inferiore al 2% del valore aggiunto lordo nazionale ed inferiori alla media dei 27 membri attuali. Per contro, le agricolture dei paesi che hanno aderito all’Unione dopo l’esperienza del socialismo reale presentano un peso percentuale sul VAL nazionale maggiore di quello medio.
- 15. Per quanto riguarda la redditività del lavoro impiegato nel settore primario si osserva una enorme distanza tra le singole agricolture dell’Unione, con un range compreso tra quello più basso della Romania, pari a 2.331 €/ULU, e quello maggiore della Danimarca, pari a 59.650 €/ULU.
- 16. La maggioranza delle agricolture dell’Unione hanno subito i contraccolpi della crisi finanziaria del 2008 che ha caratterizzato l’economia mondiale di quel periodo ed hanno visto diminuire il PIL del settore: Francia, Germania e Regno Unito nel 2009 hanno visto scendere il PIL all’ottanta percento di quello del 2007; Estonia e Irlanda al 60 e al 70%. Per contro, alcuni paesi sono riusciti a mantenere le posizioni (Repubblica Ceca e Slovenia) ed altri a migliorarle (Slovacchia, Cipro, Bulgaria e Romania).
- 17. Esiste, in tale esigenza di indipendenza dagli approvvigionamenti sul mercato mondiale, un’analogia di obiettivo con quello perseguito nel mondo uscito dalla II Guerra Mondiale. Ma è il contesto ad essere mutato: il rischio non è più dettato da possibili evoluzioni da una “guerra fredda” ad una “calda”, ma dalla potenziale volatilità della disponibilità di derrate alimentari in un mercato unico mondiale in cui cresce la domanda e l’offerta di nazioni che perdono i connotati di ”paesi in via di sviluppo” per diventare attori geo-politici di primaria importanza.