In Italia sono pochi gli intellettuali che esprimono opinioni su problemi complessi valorizzando conoscenze acquisite con metodo scientifico e molteplici strumenti di misura. C’è un comportamento diversificato da parte degli esponenti della cultura nel contribuire a formare l’opinione dei cittadini. E questo non è irrilevante in un paese che vuole guardare con fiducia al futuro, puntando sull’innovazione.
Un fiero oppositore degli ogm come Piero Bevilacqua, in una sua recente pubblicazione, così si esprime: “Non era mai accaduto che un nuovo prodotto venisse immesso nel mercato a dispetto di una controversia scientifica così aspra qual è quella che oggi divide il mondo della ricerca” (Bevilacqua, 2008). Dopo quest’affermazione ci si aspetterebbe un’analisi del dibattito scientifico sugli ogm. Ma niente. L’intento sembra essere solo quello di svuotare di significato i dati scientifici. Anzi, rincarando ulteriormente la dose, lo storico continua: “Non si era mai visto, in tutta la storia secolare delle società industriali, un prodotto di dubbia utilità esporre in maniera tanto gratuita a rischi così elevati e imprevedibili la comunità umana”. Una condanna netta da parte di uno studioso di storia dell’agricoltura, che sa perfettamente come da almeno diecimila anni i contadini hanno con sagacia e pazienza selezionato, modificato, ibridato piante e semi che l’infinita biodiversità della natura metteva loro a disposizione. Ciò che raccapriccia lo studioso è il trasferimento di materiale genetico appartenente a un’altra specie. Ma in realtà, la barriera della specie è stata già superata in natura più volte ed esistono svariate specie nuove. Il triticale, per esempio, deriva da incroci tra specie diverse. Com’è noto, la differenza rispetto al passato anche recente è che la tecnica adottata ora – quella del Dna ricombinante - consente una maggiore precisione.
La radicalità del rifiuto dipende forse dal fatto che le questioni biotecnologiche esorbitano la mera applicazione alle piante e riguardano l’uomo stesso? Oppure dal fatto che pongono problemi di potere che la politica ha difficoltà a regolare a livello globale con gli attuali strumenti della democrazia? Può darsi. E tuttavia, neanche di questi problemi si discute in profondità. Dopo le Grandi Speranze sembra non esserci altro che la disperazione.
Oltre la specie con speranze ragionevoli
Siamo appena entrati in una nuova rivoluzione tecnologica. E ciò che traspare all’orizzonte è il superamento della separazione tra storia della vita e storia dell’intelligenza. Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano. La nostra natura, nella sua interezza, diventerà un risultato storicamente determinato della nostra cultura. L’intelligenza umana e quella non biologica presto si alleeranno. E così entreremo nella cosiddetta “Singolarità”. E quando sfonderemo tale soglia, saremo oltre la specie, in una dimensione non più “naturale” ma interamente “culturale” dell’umano. A detta dei futurologi, tale condizione aprirebbe prospettive inedite oggi difficili da intravedere.
In una cultura come quella italiana, nutrita di antimodernismo e di sensazionalismo giornalistico, la sola evocazione di siffatte novità suscita una reazione di rigetto. Ma senza peccare di ottimismo tecnologico e senza ricorrere ai grandi racconti fantascientifici, si possono senz’altro nutrire speranze ragionevoli entro un futuro incerto e difficile (Rossi, 2008). Tra l’Apocalisse e le Grandi Speranze c’è la giusta misura con cui guardare al domani a condizione, tuttavia, che in Italia si abbandoni la demonizzazione della tecnica applicata alla natura umana e alla natura in generale. La violenza della polemica ha sfiorato addirittura il paradosso. All’oncologo Umberto Veronesi che dichiarava in un articolo su Repubblica del 4 novembre 2004 “Se potessi scegliere, preferirei nutrirmi di mais transgenico”, Bevilacqua replicava in modo perentorio: “Affermiamo senza difficoltà che, di fronte a un mondo a così alto rischio, la fede incondizionata che anche intellettuali liberi nutrono nei confronti della tecnoscienza rappresenta un aspetto costitutivo della superstizione contemporanea” (Bevilacqua, 2008).
Lo storico è un intellettuale di sinistra; eppure accusa di atteggiamento fideistico e superstizioso quei settori che si battono per la libertà della ricerca scientifica da posizioni positiviste e illuministe. Perché? I termini “fede” e “superstizione” tirati in ballo dallo studioso fanno emergere una novità che non tutti colgono: oggi non solo i diversi punti di vista sono percepiti come credenze o fedi, indipendentemente se queste siano religiose o meno, ma anche i dati scientifici sono assimilati alle credenze. Insomma, da una parte della cultura italiana il metodo scientifico non è più riconosciuto ed è considerato superfluo. Gli intellettuali che a esso continuano a ricorrere nella loro attività devono, pertanto, attrezzarsi per farlo valere nella società mediante un’azione pedagogica e un impegno civile di ripensamento della democrazia.
Laicità e innovazione sociale
Che si debba porre mano alla democrazia, ai suoi fondamenti etici e ai modi di produrre decisioni condivise, appare ormai scontato in una società che diventa sempre più multiculturale. Non si tratta solo di una molteplicità d’interessi particolari o di punti di vista limitati, che si possono trascendere in sintesi superiori, ma di un pluralismo che “è parte integrante dell’opera della ragione pratica libera, entro la cornice di libere istituzioni” (Rawls, 1994).
Dinanzi a questa novità, le istituzioni politiche dovrebbero assumere un atteggiamento laico e tollerante. Si tratta di accettare il pluralismo non come modus vivendi o come necessità, ma per adesione profonda a un regime di libertà e ai suoi principi. Pertanto, l’idea stessa di laicità, che non riguarda più solo il rapporto tra stato e confessioni religiose, andrebbe rifondata. La nuova laicità presuppone uno stato neutrale tra le diverse concezioni e indipendente da qualunque dottrina (Mancina, 2009). Ma quando i dati scientifici devono necessariamente supportare le decisioni, in che modo si potranno difendere da eventuali manipolazioni? Non è semplice rispondere a questa domanda. Si può tentare qui di prospettare un’ipotesi. La nuova laicità dovrebbe presupporre non già il mero riconoscimento di una comunità scientifica che si autogestisce nel produrre una conoscenza affidabile mediante percorsi collettivi di controllo e approvazione, bensì l’”immersione” degli scienziati nella società civile per interagire con l’insieme dei cittadini e contribuire “dal basso” alla formazione dei punti di vista. Si tratta, in sostanza, di produrre un’innovazione sociale che cambia la qualità e l’estensione delle relazioni per fare in modo che la conoscenza si diffonda e diventi effettivo diritto di cittadinanza. A quel punto la scienza e il metodo scientifico possono diventare concretamente un pilastro costitutivo della democrazia.
Di fronte a scenari che prospettano uno sviluppo rapidissimo delle biotecnologie, ci vorrebbe una politica capace di sognare progetti volti ad anticipare la forma civile e naturale che le grandi strutture della tecnoeconomia già cominciano a ridisegnare in solitudine e, dunque, nel pericolo.
Ma prima ancora della politica, avremmo bisogno di una nuova etica, che dovrebbe maturare nella società civile. Di quale etica? A questa domanda un altro storico, Aldo Schiavone, che da tempo riflette su tali questioni, così risponde: “Di un’etica che sappia trovare il divino nell’accrescersi delle facoltà dell’umano e non nella sacralità della natura. Di un’etica della trasformazione e non della conservazione; che accolga le responsabilità e non le respinga; che non rifiuti l’aumento illimitato di potenza, ma ne determini gli obiettivi; che non consideri definitivo nessun assetto biologico o sociale, ma accetti di considerarli tutti come figure del mutamento e della transizione; che cerchi le sue leggi non nella natura, ma nell’intelligenza e nell’amore. (Schiavone, 2007)”.
E’ questo il livello cui il dibattito sulle biotecnologie dovrebbe tendere per favorire percorsi efficaci, benché complessi, al fine di giungere a decisioni condivise. Ma in Italia le istituzioni (e anche i mass media) non garantiscono condizioni d’imparzialità, indipendenza e laicità per un confronto civile tra le diverse posizioni. E nelle reti sociali non nascono ancora azioni di monitoraggio e correzione (con analisi di dati dettagliati e rigorosi ricorsi alle fonti scientifiche), interdisciplinari e gratuite, a sostegno delle persone che intendono avvalersene nella formazione delle opinioni.
Dal blocco della ricerca al neonazionalismo autarchico
Tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, in modo bipartisan fu vietato, con due successivi decreti del Ministero delle Politiche agricole, lo studio degli ogm in campo aperto. Il primo provvedimento fu firmato da Alfonso Pecoraro Scanio per tenere insieme l’ambientalismo nostrano con la sinistra alternativa, e il secondo da Gianni Alemanno, il quale, con l’avversione agli ogm, volle segnalare che il suo approdo al neocomunitarismo conservatore non rigettava le vecchie pulsioni antimoderniste e antitecnocratiche (Alemanno, 2002). Si trattò di una chiusura alla ricerca scientifica che ancora oggi non si riesce a rimuovere.
La ricerca pubblica del nostro paese era, infatti, all’avanguardia nell’affrontare una serie di problemi creati dalla “rivoluzione verde”. E molti studiosi vedevano nelle nuove conoscenze e nei nuovi strumenti tecnologici una seria possibilità per farlo. Ma le istituzioni interrompono queste attività che non vengono più finanziate.
Intorno al blocco della ricerca sugli ogm si è unito un asse politico e sociale che sfrutta questa scelta nella comunicazione del Made in Italy agroalimentare. Un asse rinchiuso nella tutela di una malintesa italianità, frutto del raggrumarsi di subculture che rispondono impaurite e rabbiose alla globalizzazione e ai nuovi equilibri mondiali, in cui emergono paesi con un tasso di crescita prima inimmaginabile. Un’alleanza che preme sul governo per bloccare l’utilizzo in Italia delle sementi ogm approvate da Bruxelles; che ottiene dal Parlamento leggi sull’etichettatura degli alimenti o sulla percentuale di alchil esteri nell’olio d’oliva da usare come armi puntate verso gli organismi europei per tentare di condizionarne le scelte.
Emerge, dunque, una sorta di neonazionalismo autarchico che esclude ogni collaborazione con le agricolture di altri paesi, considerate come nemiche da combattere, e preme ostinatamente sulle istituzioni nazionali perché riguadagnino quella sovranità che un tempo si sarebbe sacrificata volentieri per l’obiettivo di un ideale europeo.
Il tutto nasce da due elementi strettamente connessi. In primo luogo dall’esasperazione dell’idea di tipicità, considerata come strategia unica che permetterebbe di affrontare la globalizzazione eludendo la competizione da costi. E in secondo luogo dalla costruzione di un mito originario basato su un presunto insanabile contrasto tra produzioni tipiche e ogm, negando così in radice l’assunto scientifico su cui i nostri ricercatori di “seconda generazione” avevano avviato le nuove sperimentazioni (Pascale, 2012). E la cosa grave è che si fa passare questa tesi antiscientifica nell’opinione pubblica, mediante programmi promozionali, con un dispendio insensato di risorse pubbliche e in barba a ogni criterio di laicità e indipendenza delle istituzioni.
Il teorema costruito sulle coppie tipico/sano e ogm/dannoso, tipico/naturale e ogm/artificiale, tipico/italiano e ogm/straniero, tipico/imprese locali e ogm/multinazionali, è dunque la miope invenzione di chi si è seduto sul ramo che egli stesso sta tagliando.
Sta, infatti, avvenendo qualcosa che ha diversi punti in comune con l’affermazione e il crollo del primato culinario italiano tra Medioevo e Rinascimento, raccontato dallo storico Ruggiero Romano. Nel Trecento la cucina era soltanto una pratica e nel secolo successivo diventa anche un’arte, in parallelo con l’evoluzione dei modelli culturali nell’architettura e nelle lettere dell’Italia comunal-mercantile. Ma una volta che il modello raggiunge il top, non si creano più piatti nuovi e l’attenzione alla qualità si sposta sul servizio. La tavola diventa pretesto per musica, danze, canto, teatro, giochi, conversazioni. Si vive di rendita, ritenendo di dover confermare quanto già inventato nel passato, senza dover far leva sull’innovazione. Si esasperano fino alla tracotanza i motivi che in origine avevano costituito la forza del nostro modello. Ci si ripiega su se stessi e non si ricercano più nuovi sentieri. Di fatto, si spegne ogni creatività. E così il nostro modello è ripreso fuori d’Italia, assorbito, assimilato, digerito fino a farne qualcosa di diverso che l’Italia del XVII secolo è costretta a importare (Romano, 1994).
E’ quanto accade oggi al modello agroalimentare italiano con l’approccio autarchico e l’identificazione del naturale con il bene e l’artificiale con il male. Ma fortunatamente alcuni intellettuali di frontiera si stanno schierando contro questa deriva, mostrando passione civile e attenzione fiduciosa alle facoltà dell’ingegno umano. Lo scrittore Antonio Pascale dedica di continuo saggi e interventi su questi temi. L’inviato speciale della Rai, Elio Cadelo, ha pubblicato alcuni libri che spiegano in modo scientifico cosa sono gli ogm (Cadelo, 2012). Il giornalista Luigi Caricato dirige una rivista on line Teatro Naturale, aperta al confronto tra diversi punti di vista. Il chimico Dario Bressanini cura il blog Scienza in cucina svolgendo un’opera di divulgazione scientifica senza pregiudizi. Il ricercatore Roberto Defez cura il blog Salmone.org da cui si possono ottenere informazioni sugli ogm.
Sarebbe davvero un delitto se proprio ora che gli scambi non solo economici diventano nel mondo più ampi e ramificati, rinunciassimo alla nostra principale prerogativa: quella di assimilare più culture e ricrearle in modo così originale da farle apparire come se fossero sempre appartenute al nostro Dna. E’ questo il senso più profondo del “saper fare” che la nostra storia ci consegna. Anziché difenderci dai paesi emergenti con le leggi e i tribunali, faremmo meglio a coltivare gli scambi culturali, la ricerca scientifica, la creatività, il gusto di essere imitati per ricavarne la stimolo a superare noi stessi. Anziché continuare a vivere di rendita, sarebbe ora di attivare la molla dell’innovazione, che oltre ad essere tecnologica, dev’essere un’innovazione sociale, cioè fondata su un nuovo rapporto tra scienza e società civile.
Riferimenti bibliografici
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Alemanno G. (2002), Intervista sulla destra sociale, Marsilio, Venezia
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Bevilacqua P. (2008), Miseria dello sviluppo, Gius. Laterza & figli, Roma-Bari
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Cadelo E. (2012), Perché gli ogm, Palombi Editori, Roma
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Mancina C. (2009), La laicità al tempo della bioetica, Il Mulino, Bologna
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Pascale A. (2012), Pane e pace, Chiarelettere, Milano
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Rawls J. (1994), Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano
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Romano R. (1994), Paese Italia. Venti secoli di identità, Donzelli, Roma
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Rossi P. (2008), Speranze, Il Mulino, Bologna
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Schiavone A. (2007), Storia e destino, Einaudi, Torino