I giovani dimenticati1
I giovani sono da molto tempo fuori agenda. Ai margini dei rari racconti collettivi di cui siamo capaci nel nostro Paese. Assistiamo attoniti e inerti a un invecchiamento incipiente e a un ampliamento delle disuguaglianze intergenerazionali. Da anni la natalità è patologicamente bassa, del tutto insufficiente a garantire l’equilibrio demografico e il ricambio generazionale. Cala paurosamente il numero di giovani e declina il loro peso relativo in una popolazione fortunatamente viepiù longeva, solo in parte attenuato dal provvidenziale arrivo degli immigrati. Ciò nonostante ci occupiamo pochissimo dei nostri “pochi” giovani. Mostriamo una preoccupante incapacità a bilanciare il deficit quantitativo con un sovrappiù di attenzione qualitativa. Nessuna politica pubblica intenzionale per la famiglia, per la casa, per la mobilità territoriale, per il lavoro, per l’impresa. Al più provvedimenti disorganici, ad hoc, locali, lenitivi dell’invecchiamento “dal basso”. I giovani, più di prima affidati alle famiglie, al capitale accumulato, al patrimonio relazionale dei genitori, alla prigione della precarietà come condizione esistenziale. Se non all’apartheid dei Neet (Not in education, employment or training), del non lavoro né studio né formazione, o del rifugio all’estero alla ricerca di un lavoro ad elevato contenuto cognitivo e professionale negato dall’Italia. Un disimpegno corale, agghiacciante sul futuro del nostro Paese.
Il de-giovanimento imprenditoriale italiano è altrettanto intenso e preoccupante. E nondimeno opaco e ignorato. Si trascura colpevolmente il potenziale impatto innovativo dei giovani. Un giovane è intrinsecamente più predisposto a intraprendere vie nuove, a sperimentare nuovi approcci, specializzazioni, mercati. Perché è meno condizionato dal passato, perché più istruito e soprattutto perché embedded nella contemporaneità e nelle sue dilatate opportunità per cambiare e smarcarsi dai sentieri consolidati. Non è scontato. È però una straordinaria potenzialità che se ben coltivata potrebbe consentire un “salto innovativo” all’intero sistema imprenditoriale nazionale. Ma l’Italia non sembra accorgersene. Stato, istituzioni della rappresentanza e welfare sono diventati conservatori, chiusi al nuovo, al ricambio generazionale. Mirano a difendere le loro funzioni del passato, ancorati al paradigma fordista in un mondo ormai postfordista.
Da tempo latitano attive politiche di sostegno all’imprenditoria giovanile. Preferiamo scoloriti, instabili, tortuosi e inefficaci incentivi finanziari. Smunti palliativi mentre necessiterebbero strategie pensate, robuste, persistenti. Ci affascinano più le bolle di start-up di imprese effimere, predestinate ad un ciclo di vita brevissimo, piuttosto che l’avvio e lo sviluppo di incerte ma potenzialmente feconde attività innovative promosse da giovani imprenditori. Non meraviglia così il decrescente interesse dei giovani per le imprese. E neppure l’alta e duratura “chiusura” del turn-over imprenditoriale nei perimetri angusti delle famiglie imprenditoriali. Più che altrove, nel nostro Paese domina un circuito di “produzione di imprenditori a mezzo di famiglie imprenditoriali”. Un Paese bloccato, con una bassa e decrescente mobilità sociale ascendente, chiuso nella riproduzione “domestica” dei ceti professionali e delle classi dirigenti. Un circuito incestuoso che tende a deprimere la propensione all’innovazione e alla crescita.
La fatica di fare impresa
Fare impresa per un giovane italiano è un’impresa quasi impossibile. Gigantesche barriere all’entrata, finanziarie, tecnologiche, burocratiche, di know-how, deprimono inesorabilmente l’offerta. Gli slanci vitali degli intraprendenti si consumano così pressoché unicamente nell’arena della turbolenza estrema della nati-mortalità delle microimprese marginali, con modeste barriere in entrata e in uscita. Quando non nella sfera delle mere imprese “di necessità”, ossia di minute iniziative autonome forzate dalla rarefazione delle opportunità di lavoro dipendente. Naturalmente, come le oasi nel deserto, esistono anche da noi casi di imprese innovative di successo avviate e condotte da giovani. Poche, isolate, “contronatura”.
Fare impresa in agricoltura è tanto più difficile. Perché agli ostacoli generali si somma il vincolo più stringente della disponibilità della terra, che da noi è praticamente interdetta. Intrecciati assetti socio-culturali e normativi rendono la terra un bene privato rigidamente anelastico. I proprietari non sono disponibili a cederla, anche se inutilizzata o male utilizzata da tempo, incoraggiati da un perverso sistema di incentivi che rafforza le convenienze al mantenimento della proprietà. Ne consegue una paralizzante e penalizzante rigidità fondiaria che danneggia l’agricoltura e il Paese. Per i giovani, di fatto, l’unico canale aperto è quello della terra di famiglia, della trasmissione da padre a figlio, dell’integrazione nell’azienda preesistente. Un indubbio vantaggio individuale per i figli, se interessati e attratti dall’agricoltura e dalla campagna. Ma allo stesso tempo un indubbio svantaggio per la collettività in termini di equità delle opportunità e di allocazione ottima del capitale umano. Più che in altri settori, in agricoltura dunque conta molto il pregresso, l’accumulo aziendale e familiare. Un accumulo permissivo per i potenziali giovani agricoltori familiari. Ma anche un accumulo condizionante, un retaggio che evidentemente influenza le scelte future, i gradi di libertà produttivi, organizzativi, gestionali.
Azienda e famiglia sovrapposte
L’azienda è il cuore dell’attività agricola. Molto di più che nella manifattura e nei servizi. Innanzitutto per il carattere di bassa scomponibilità dei processi produttivi agricoli. Come scriveva Adam Smith nel 1776 nel libro convenzionalmente considerato come la base dell’economia moderna – Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni – l’agricoltura “per sua natura non consente tante suddivisioni del lavoro, come le manifatture, né una così completa separazione di un’attività dall’altra”. A differenza della produzione di un tavolo che può essere scomposta in un insieme elementare di lavorazioni-produzioni separate anche in aziende diverse, molte colture agricole sono tecnicamente obbligate all’integrazione verticale e pertanto ad essere realizzate per lo più dallo stesso agricoltore e nella stessa azienda. Inoltre, l’attività agricola è fortemente condizionata dall’immobilità della terra e dunque dalla sua non delocalizzabilità. Un produttore di scarpe può astrattamente decentrare la sua azienda in un altro luogo portandosi dietro macchinari e attrezzature, input produttivi e semilavorati, capacità produttive e gestionali sedimentate, competenze tecniche, reti di relazioni e finanche personale specializzato. In un’altra ubicazione potrà continuare a produrre scarpe grosso modo come prima. Per un agricoltore il decentramento è quasi impossibile, non solo perché la terra è una risorsa immobile o perché attrezzature e macchinari sono trasferibili solo in misura limitata. Un’azienda agricola, ancor più se a gestione familiare, non è delocalizzabile perché è intrinsecamente affondata in un particolare contesto sociale e ambientale, in un certo paesaggio, in una certa cultura locale. I pomodori e le lattughe di qualità si nutrono, molto di più delle scarpe di qualità, di ingredienti intangibili di un determinato luogo, che non sono riproducibili in altri luoghi. Si può fare agricoltura “altrove” ma un’“altra” agricoltura, perché la terra è naturalmente diversa, il paesaggio agrario e sociale è diverso, il clima, le precipitazioni atmosferiche e il vento sono diversi, le reti personali sono diverse.
Per queste ragioni, per la famiglia l’azienda sovente è la priorità, l’asset strategico sovraordinato, il centro di gravitazione delle attività aziendali e della microregolazione sociale. La famiglia è prima di tutto riserva di forza-lavoro. I familiari sono lavoratori affidabili, disponibili, flessibili, polivalenti, saturabili. Lavoratori tendenzialmente privi di costo, a-salariati. Un lavoratore familiare non è forza lavoro canonica: abilità e capacità lavorativa per un certo numero di ore al giorno ad un certo salario orario. Il lavoro familiare è un miscuglio inseparabile di “dono” e di scambio, spesso molto più “dono” che scambio. Un valore-lavoro molto più alto del salario marginale. Perché l’azienda è della famiglia e i suoi frutti sono della famiglia. Perché l’azienda è magna pars dell’identità soggettiva. Perché l’azienda, è un progetto di vita familiare. L’azienda è la famiglia e la famiglia è l’azienda. Per questi motivi, il ricorso al lavoro extra-familiare è ridotto al lumicino. Per evitare di sottrarre alle casse aziendali liquidità, che costituisce la sofferenza gestionale più spinosa, endemica. Semmai si acquista una nuova macchina, un nuovo attrezzo, possibilmente con il sostegno di agevolazioni pubbliche, piuttosto che assumere lavoratori esterni al nucleo familiare. Oppure si cerca di “ottimizzare” i cicli lavorativi con assetti labour saving, facendo ricorso alle conoscenze e alle tecniche apprese nelle aule universitarie. Quando è possibile si pratica lo scambio di manodopera con parenti e vicini: giornate cedute e giornate acquisite senza intermediazione monetaria, guardando al valore d’uso del lavoro non alla sua componente mercantile. Quando è possibile, utilizzando i voucher, si ricorre agli agropensionati, la grande fanteria di riserva del mercato del lavoro agricolo locale, oppure ai sempre più rari studenti universitari che non disdegnano sporcarsi le scarpe per qualche giorno in campagna. La preferenza è per i vicini di casa, i “paesani”, gli “amici e gli amici degli amici”. Perché si conoscono, esistono legami sociali extralavorativi pregressi che alimentano lealtà di comportamenti anche nella sfera lavorativa. Da qualche anno, con intensità crescente entrano in azienda lavoratori stranieri, extra-comunitari, che rimpiazzano la progressiva scomparsa di manodopera locale disponibile a lavorare nei campi.
La stretta sovrapposizione tra destino economico e destino familiare è allo stesso tempo un esito “dovuto” e un esito “voluto”. Necessaria per ridurre all’osso il ricorso al mercato del lavoro esterno ma anche per agevolare la comunicazione, per abbattere costi di transazione ma anche per beneficiare di buffer di flessibilità. La famiglia garantisce a priori condivisione di valori e di obiettivi da conseguire, appartenenza a un comune sentire, adesione emotiva, fiducia. Che implicano facilità e fluidità comunicativa, aiuto incondizionato, trasmissione tacita di saper fare produttivo e gestionale, responsabilità diffusa. Un formidabile e inconsapevole contenitore di risparmio informativo. Nelle storie di giovani agricoltori raccolte è forte la risonanza di questi vincoli. Dei condizionamenti esterni e interni all’azienda che tendono ad incanalare e plasmare il modo di fare impresa da parte dei giovani agricoltori. Più di tutto condiziona l’essere cresciuti in quella famiglia agricola, in quel contesto rurale, in quella azienda. Di essere stati esposti sin dalla nascita ad un particolare polline socio-culturale. Legami gerarchici e spaziali sedimentati che contano molto per i giovani agricoltori, più della condivisione degli “spazi” virtuali che informano identità e cultura dei giovani d’oggi, più delle aggregazioni digitali. Circostanze che costruiscono destini e forma mentis, biografia personale e professionale. E che tendono a contenere le asimmetrie cognitive e operative inter-generazionali. Padre e figlio agricoltori in una stessa azienda familiare sono inevitabilmente più simili di padre e figlio di una famiglia comune, non imprenditoriale. Non è una caratteristica solo agricola. Nella aziende familiari, la dimensione anagrafica, che ha ovviamente il suo peso nell’armatura e nello stile di conduzione aziendale, deve fare i conti con stringenti vincoli strutturali: la forma e gli sbocchi di mercato, le economie di scala, la specializzazione.
I giovani, agenti di cambiamento.
L’arrivo di un giovane in azienda, tanto nella forma di nuovo imprenditore o più frequentemente di coadiuvante familiare, porta con sé cambiamenti importanti, palpabili, reali. A volte cambiamenti piccoli ma comunque significativi, altre volte cambiamenti radicali, che destrutturano gli assetti aziendali pregressi. Ogni esperienza evidentemente ha la sua via al cambiamento. C’è chi è in grado di imprimere trasformazioni rapidamente e chi invece è capace di praticare un cambiamento incrementale. Cambia la morfologia aziendale e, ancor più, i perimetri delle catene del valore e i flussi extra-aziendali pregressi. Cambiamenti legati innanzitutto alla dimensione anagrafica in sé, al fatto cioè che l’ingresso di un giovane allunga fisiologicamente, oggettivamente, l’orizzonte aziendale. Una cosa è un’azienda con un conduttore sessantenne e senza figli, un’altra con un conduttore sessantenne con un figlio venticinquenne che ha deciso di fare l’agricoltore. Nel primo caso, l’aspettativa di vita potenziale dell’azienda familiare è al più di 10-15 anni, nel secondo di 45-50 anni. Una differenza abissale che muta l’ottica di vedere le cose, la sostenibilità di indirizzi colturali, investimenti e apprendimenti. I figli allungano l’orizzonte temporale dei genitori. È naturale. Agisce un riflesso cognitivo di proiezione oltre il ciclo vitale. Un’impercettibile ombra lunga sul futuro extra-terreno. Sapere che la propria casa sarà abitata da un figlio incoraggia i genitori a una sua manutenzione straordinaria. La speranza che nel giardino di casa un giorno giocheranno i nipoti, sprona i nonni potenziali ad abbellirlo, a tramandarlo rigoglioso e curato. Lo stesso è per gli agricoltori. Un agricoltore avanti con gli anni assume posture percettive del futuro aziendale differenti a seconda della presenza o meno al suo fianco di un figlio agricoltore. Un figlio in azienda cambia radicalmente la prospettiva. Per l’agricoltore-genitore e per l’azienda. Cambia l’atteggiamento verso il rischio d’impresa, verso le immobilizzazioni tecniche, verso la diversificazione colturale. Con un figlio in azienda si può osare ancora, sperare che il solco tracciato sarà coltivato. Accantonare l’idea della dismissione.
L’età è decisiva per il cambiamento anche nel caso di imprenditori ex-novo, di prima generazione. Un giovane agricoltore avvia una nuova azienda in uno scenario molto diverso da quello passato, con molte più opportunità e con un sistema di vincoli differente. Il background conoscitivo, informativo e comunicativo dei giovani agricoltori è profondamente diverso da quello degli agricoltori maturi, dei loro genitori e nonni. Tutto ciò si riversa, almeno in parte, nel modo di pensare e fare agricoltura, un modo spesso diverso dalla tradizione familiare e non. In alcuni casi i giovani agricoltori non di provenienza agricola o che ritornano in agricoltura dopo esperienze lavorative in altri settori, portano in azienda sensibilità e accumuli di conoscenze diverse e complesse e, a volte, anche di nuove competenze professionali che facilitano i processi di diversificazione aziendale e la tracimazione verso attività connesse e collegate al core agricolo. Inoltre, l’ingresso di un giovane induce il cambiamento aziendale non solo per motivi strettamente anagrafici.
Il cambiamento indotto è molto visibile in quasi tutte le funzioni aziendali. Cambiano le dimensioni fisiche, il mix colturale e, soprattutto, i confini delle attività produttive, i rapporti con il mercato finale e l’orizzonte temporale della vita dell’azienda. Sul piano colturale, l’ingresso di un giovane determina un intenso processo di diversificazione degli ordinamenti verso assetti più spiccatamente multifunzionali. Nuove attività si affiancano alle precedenti, nuove colture soppiantano quelle tradizionali oppure, frequentemente, si intraprendono nuove piste produttive, complementari e non, all’attività agricola. Sovente si avviano strategie di accorciamento della filiera per internalizzare valore aggiunto, principalmente attraverso forme organizzative di progressivo avvicinamento al consumatore finale, come la vendita diretta e l’integrazione verticale.
Il cambiamento più soft, ma forse più importante per il futuro, è l’arrivo in azienda di nuove culture e nuove sensibilità sul “come” e “cosa” produrre. Un giovane è più «spregiudicato» e ha una più immediata e matura consapevolezza sull’importanza del benessere degli animali. Sul fatto che stalle pulite e salubri incidono tanto sulla qualità della vita degli animali quanto sulla quantità e qualità del latte prodotto. Che maiali allevati all’aperto producono carne migliore. Con i giovani entrano in azienda nuove tecniche agronomiche, semmai apprese a scuola, che consentono traguardi di qualità inarrivabile con le tecniche tradizionali, ma anche l’informatizzazione della contabilità e le e-mail che rendono il contatto con i clienti più semplice e veloce. Entrano nuove abilità “impiegatizie” per stare dietro al processo di terziarizzazione dell’agricoltura e non solo alla sua crescente burocratizzazione. Ma anche nuove sensibilità ambientali che spingono verso un uso meno intenso di diserbanti e fitofarmaci, un minor sfruttamento della terra, un uso più razionale e limitato di acqua per l’irrigazione, il risparmio energetico, l’ottimizzazione del parco macchine, la tracciabilità di prodotti e processi. Oppure verso la produzione di cibi biologici. I giovani hanno una particolare attitudine alla diversificazione. Forse perché vedono opportunità nuove o semplicemente perché la diversificazione colturale è una via obbligata per conseguire risultati economici sostenibili con la presenza in azienda di una nuova unità lavorativa full time. Nella quasi totalità delle esperienze ascoltate, l’ingresso definitivo di un giovane in un’azienda familiare preesistente si è quasi immediatamente accoppiato all’inizio di un processo di diversificazione colturale. A volte cambia l’assortimento delle colture, altre volte si aggiungono nuove colture a quelle tradizionali, altre volte ancora si abbandonano vecchi ordinamenti produttivi per avviarne nuovi. In altri casi si perseguono assetti aziendali tendenzialmente multifunzionali, attraverso diversificazioni in attività collaterali alla produzione agricola, oppure in specializzazioni solo latamente riferibili all’agricoltura. Più di recente la diversificazione ha imboccato la via della produzione energetica, soprattutto fotovoltaico e biomasse, che risulta particolarmente allettante per gli agricoltori sotto il profilo del reddito e della liquidità ma anche della riduzione delle oscillazioni delle entrate connessa alle fluttuazioni e alle quotazioni esasperate dei prezzi delle commodity.
L’agricoltura è afflitta da tanti, troppi, passaggi nella filiera e tra le filiere di produzione e commercializzazione. Processi tortuosi che dissipano valore agricolo. Un pomodoro, una mela, il latte, cambiano molte mani prima di arrivare al consumatore finale. Siamo immersi in filiere lunghe, lunghissime. Non solo in termini spaziali: mettiamo in tavola molti prodotti che provengono da terre lontane. Altrettanto critica, se non più critica, è la distanza in termini di intermediazione tra l’agricoltore che ha prodotto il pomodoro, la mela, il latte, e chi li consuma. Intermediazioni plurime, stratificate e, soprattutto, costose. Ogni passaggio ha il suo costo; ogni intermediario aggiunge il suo profitto, sovente il suo extra-profitto. Così il prezzo finale del pomodoro, della mela, del latte, è molto più alto del prezzo iniziale, alla fonte primaria, agricola. La ridondante black box che si frappone tra il produttore e il consumatore fa lievitare costi e prezzi intermedi. L’agricoltore incassa poco, pochissimo, anche quando il consumatore paga molto, moltissimo. Perché, come si dice con gergo aziendalista, “il mercato è in mano ai venditori”. A coloro che governano l’ultimo miglio, il passaggio finale. Grande distribuzione, supermercati, ristoranti: sono questi e altri i detentori del maggior potere di mercato. E dunque i percettori delle fette più grandi della torta impastata dalla black box. Una paradossale organizzazione di mercato e una visibilissima mano che ingrassa a discapito di consumatori e produttori agricoli. Da qualche tempo gli agricoltori stanno tentando di reagire. Provando a presidiare i processi a valle della catena del valore. Provando ad accorciare la filiera, a sottrarre ragion d’essere all’intermediazione parassitaria. I giovani agricoltori sono alquanto agguerriti. Forse più dei loro genitori e nonni soffrono per il funzionamento di questo mercato, per quella sorta di funghi socio-economici che si alimentano sottraendo agli agricoltori e ai consumatori. Questa consapevolezza si traduce spesso in prassi aziendali sotto la forma di integrazione verticale, ossia di internalizzazione di funzioni post-produzione, e di avvicinamento il più possibile al mercato finale, attraverso lo sviluppo della vendita diretta.
Una tendenza emergente da qualche tempo nelle organizzazioni aziendali agricole è la cosiddetta multifunzionalità. Che, schematicamente, è assimilabile ad una diversificazione-dilatazione delle attività agricole verso campi e settori complementari e connessi, anche se talvolta in modo molto lasco, vago. Un’azienda multifunzionale estrae il suo reddito da un insieme composito di attività. Agriturismo, fattoria didattica, agri-asilo, fotovoltaico, giornate degustative sono alcune delle attività più note che alimentano la multifunzionalità aziendale. Le aziende si specializzano in diverse di queste attività, affiancandole e sovrapponendole alle tipiche attività agricole e zootecniche. A volte le nuove attività sopravanzano la produzione primaria in termini di generazione di reddito e l’agricoltura si trasforma così in un’attività ancillare delle altre. Senza smarrimento e preoccupazione, almeno tra gli agricoltori più giovani. La varietà e la ridondanza sono, d’altro canto, chiodi fissi della contemporaneità; soluzioni per attenuare l’incertezza ontologica che pervade sempre più mercati, economie, comunità, individui. Perseguire la dilatazione dello spettro delle attività, anche e forse soprattutto in agricoltura, è un buon antidoto al rischio della monocoltura, dell’erraticità dei prezzi, delle crisi settoriali. E al contempo una via per catturare liquidità finanziaria, per assecondare vocazioni professionali familiari, per coltivare relazioni umane e ortaggi. Per questo le aziende sono tentate dalla multifunzionalità, soprattutto quando al loro interno c’è un giovane.
Una “scelta di vita”
Le storie dei giovani imprenditori agricoli raccolte sono diverse una dall’altra anche se tutte si collocano entro un ordito di punti ricorrenti: il lavoro e la famiglia prima di tutto, la fatica senza posa, l’apprendimento lungo la linea intergenerazionale, la “parentela” con la terra, le piante, gli animali. Anelli di una comune catena di “senso”. Di un’”etica della terra”, direbbe Enzo Bianchi, il priore della Comunità monastica di Bose. Impressiona molto l’auto-rappresentazione da iperlaburisti incalliti: il lavoro come esistenza, l’esistenza come lavoro. Ma impressiona anche la solida presa organizzativa, decisionale e identitaria della famiglia agricola, nonostante il trend storico di acuta contrazione dei suoi membri. E impressiona pure il forte senso di appartenenza alla terra e alla vita di campagna, senza subalternità o rimpianti per le luci della città. Senza un’ombra di superbia rurale.
La tessera più densa del mosaico comune, forse anche la più confortante, è l’impatto dell’ingresso del giovane in azienda. Un arrivo quasi sempre dirompente in sé, che determina cambiamenti nell’assetto gestionale, negli indirizzi colturali, nel modo di produrre, nel perimetro fisico ed economico dell’attività. Un giovane è generatore di fiducia, dà nuovo slancio e dilata il set delle potenzialità. Fattori determinanti per un’azienda agricola familiare, molto di più di quanto si possa immaginare. I giovani permettono trasformazioni inimmaginabili in loro assenza. Non il cambiamento di pelle delle imprese e degli stili gestionali. La famiglia agricola non sopporta stress radicali. Né il contesto rurale. La trasformazione indotta è visibile e apprezzabile soprattutto nella sfera strettamente produttiva, mentre la “diversità” e l’impatto innovativo dei giovani sembrano meno evidenti nella sfera extra-produttiva. Nella famiglia, nel lavoro, negli orientamenti culturali, i giovani paiono calcare solchi consolidati, pratiche e sentimenti sedimentati in luoghi-comunità a forte sviluppo endogeno. Sembrano prevalere traiettorie cumulative, di raccolta e revisione delle eredità dei padri, piuttosto che traiettorie di rigetto del passato. Ovviamente con differenze tra le esperienze, in primis tra i giovani imprenditori di seconda o terza generazione e i neo-imprenditori senza famiglia agricola alle spalle. Ciò nonostante, per la quasi totalità dei giovani coinvolti nella ricerca la condizione di agricoltore è un approdo naturale, l’esito scontato dell’esser nato e cresciuto in una famiglia agricola o di aver frequentato sin da piccolo ambienti rurali. Però, non un percorso obbligato, costretto, come avveniva di frequente alcuni decenni orsono. Nella scelta dell’azienda di famiglia, della campagna, c’è quasi sempre una intenzionalità, una scelta consapevole. Diverse volte, una impegnativa e convinta “scelta di vita”.
D’altro canto, la campagna e l’agricoltura d’oggi offrono opportunità di vita e di lavoro autonomo altrettanto gratificanti di altri contesti ambientali. Non migliori semmai, ma sicuramente diverse. Altri ritmi, altri modi di interazione e simbiosi con la natura, altra socialità. Molta campagna italiana peraltro ha significativamente attenuato il carattere di isolamento, di lontananza cognitiva prima che fisica, di luogo dell’arretratezza civile prima che produttiva. Per di più, l’adozione crescente di tecnologie e macchinari libera dai lavori aziendali più faticosi e ripetitivi, attenua l’antica “schiavitù dalla stalla” e, nel contempo, consente di utilizzare il lavoro liberato in attività gestionali sempre più terziarie, fini. Inoltre, le recenti rivalutazioni culturali della vita rurale concorrono molto a stemperare stereotipi ossificati nella rappresentazione pubblica dell’agricoltura e dei lavori agricoli.
Nel suo piccolo, l’esplorazione ha mostrato la notevole carica di cambiamento e di potenziale generativo dei giovani agricoltori. Anche in contesti difficili, un giovane che resta in azienda è di per sé uno small player di innovazione. Nessun rivolgimento di paradigma ma lievito per crescere, per allungare la vista oltre i confini aziendali tradizionali, oltre il ciclo biologico dei genitori. Non è poco in un Paese che non cresce da più di un decennio, anche se si tratta di crescita rarefatta e puntiforme. Pochissimo diffusa e, di norma, rigorosamente confinata entro perimetri aziendal-familiari. L’Italia sembra non vedere, sembra rassegnata a disconoscere il potenziale cumulato, produttivo e innovativo, dei giovani. In agricoltura e altrove. Un Paese che non “vede” i giovani, che non investe sui ragazzi, rischia fatalmente di depotenziare anche le aspettative di crescita individuali, soggettive. Può apparire uno sforzo inutile, non richiesto, facoltativo. Comunità che non investono sul proprio futuro inducono al disimpegno sul futuro anche dei singoli. Insieme e da soli compressi sull’unica dimensione del presente, dell’orizzonte corto, della gamma delle opportunità correnti. Che provoca schiacciamento della visione prospettica, rimozione della diacronia e compattamento dell’esperienza di vita sul contingente.
- 1. Nel contributo sono riportate alcune pagine sparse del libro Tracce di Futuro. Un’indagine esplorativa sui giovani Coldiretti, Donzelli, Roma 2012.