Sistemi agro-alimentari in competizione: from farm o lab/brand to fork?

Sistemi agro-alimentari in competizione: from farm o lab/brand to fork?

Introduzione

Questo articolo affronta il problema del futuro dell’agricoltura e dell’agroalimentare dal punto di vista sistemico sulla base di due modelli. Chiameremo il primo con l’espressione from farm to fork (letteralmente: “dalla fattoria alla forchetta”). La sua caratteristica principale è di fondarsi sulle strette connessioni tra tutti gli operatori della filiera e sul rilievo cruciale della relazione tra agricoltore e consumatore, sia pure mediata dai passaggi intermedi.
Chiameremo il secondo modello from lab/brand to fork. I suoi elementi caratteristici sono la ricerca applicata (lab) e la marca (brand) considerate come fattori cruciali dai quali dipendono le relazioni che guidano tanto la produzione (gli agricoltori) che il mercato (fino ai consumatori). In questo caso imprese di grandi dimensioni (industriali o della Gdo), generalmente multinazionali, disponendo di grande potere finanziario, controllano le innovazioni tecniche e le leve del marketing. Questo ruolo egemone consente loro di muoversi nei mercati globalizzati prescindendo da stabili relazioni di rete e senza legami territoriali specifici, alla ricerca delle opportunità di acquisto dei fattori e di vendita dei prodotti di volta in volta più convenienti. I due modelli a volte si fronteggiano, altre volte si integrano. Essi rispondono, ciascuno a suo modo, alla riorganizzazione dell’alimentazione in relazione alle scelte di consumo e di vita, alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, ai cambiamenti nei mercati mondiali, al riassetto dei rapporti tra paesi sviluppati e new comers, alla crisi economica, alla ristrutturazione delle imprese e ai nuovi scenari competitivi.
Scopo delle prossime pagine è presentare le basi fondative dei due modelli, per analizzarne la solidità e la capacità di sviluppo in una prospettiva di medio-lungo termine. Nell’ipotesi che prevalga l’uno o l’altro, il lavoro si propone di analizzare le opportunità (e i problemi) per l’agricoltura in Europa e in Italia. Seguiranno alcune riflessioni su come dovrebbero di conseguenza riconfigurarsi le politiche agricole e agro-alimentari e qualche suggerimento per la ricerca.

Il modello from farm to fork

L’espressione from farm to fork è molto frequentemente utilizzata nel gergo comunitario. Essa è esplicitamente adottata nel delineare la strategia dell’Ue in materia di sanità degli alimenti: “assicurare un alto livello di sicurezza alimentare, salute e benessere degli animali e salute delle piante […] attraverso misure coerenti dalla fattoria alla tavola (from farm to fork nella versione originale in inglese) e un monitoraggio adeguato, garantendo al tempo stesso l’efficace funzionamento del mercato interno” [link].
Le radici di questo orientamento vanno ricercate in una serie di scelte e iniziative del passato: - il “modello agricolo europeo” di Agenda 2000; - i tanti richiami alla multifunzionalità e alla diversificazione dell’agricoltura fin dal Libro verde del 1985; - le politiche per l’identificazione, attraverso il tracciamento, di tutte le aziende coinvolte (dalla produzione primaria, alla trasformazione, alla commercializzazione) dei soggetti che contribuiscono all'ottenimento del prodotto alimentare e della provenienza di tutte le materie prime; - l’impegno dell’Ue a tutela dei prodotti agroalimentari di qualità, delle produzioni biologiche e, all’opposto, la riluttanza nei confronti delle produzioni Ogm. In parallelo, muove l’impegno in Europa per l’affermazione di una politica di sviluppo rurale.
Questi fenomeni, che riguardano la sfera della politica, si accompagnano ad altri sul fronte delle preferenze espresse dai cittadini all’insegna della “riscoperta del rurale” e, attraverso la contro-urbanizzazione, della “rivincita delle campagne” (Barberis, 2009).
Si tratta di fenomeni diffusi la cui rilevanza è anche evidenziata dal successo mediatico e di massa di fenomeni come Slow food (con il Salone del gusto e Terra madre) ai quali si possono associare iniziative economiche e commerciali di rilievo nazionale e internazionale (come Eataly, Club papillon, Crociera dei sapori o Academia Barilla).
Più di recente, altri significativi fenomeni si sono mossi nella stessa direzione: i ristoranti con “menu a Km zero” o la “Filiera agricola tutta italiana” di Coldiretti.
Il modello from farm to fork appare dunque a livello europeo, e italiano in particolare, una acquisizione condivisa e un obiettivo per le politiche (almeno a livello di enunciazione). Un riferimento assoluto, forte del consenso e delle aspettative degli agricoltori, dei consumatori e dei contribuenti.

Come si trasformano i consumi alimentari

Gli studi sulle modifiche dei consumi alimentari e sui cambiamenti dei comportamenti dei consumatori indicano però l’esistenza anche di altre forze che muovono le strategie delle imprese agro-alimentari, degli operatori commerciali e di conseguenza anche degli agricoltori. La prima è quella in base alla quale si assiste, in materia di alimenti, al passaggio dai needs ai wants (dai bisogni ai desideri) (Fabris, 2003). In un passato non particolarmente remoto, i consumi alimentari erano sostanzialmente quantitativi, tangibili, mono-dimensionali e descrivibili con pochi indicatori fisici. In una società in rapida crescita economica e con livelli di benessere che man mano si estendevano a vasta parte della società, la spesa si indirizzava sempre più verso altri settori e consumi diversi da quelli alimentari. Pochi erano i prodotti, limitato il grado di sostituibilità tra di essi. La legge di Engel guidava il restringimento delle quote di mercato fino ai margini della saturazione dei bisogni. In mercati generalmente protetti dalle politiche di garanzia, l’unica soluzione capace di tenere i redditi agricoli al passo con quelli delle altre categorie economiche, era di comprimere i costi standardizzando le tecniche produttive e passando dalle difformi produzioni dei territori per i mercati locali, alla produzione di prodotti ugualmente standardizzati per mercati sempre più di massa e globali.
Il passaggio dai needs ai wants è segnato dal prevalere nei consumi alimentari degli aspetti qualitativi, immateriali e intangibili. Le scelte dei consumatori sono orientate dalla multidimensionalità della percezione, le cui determinanti sono estremamente complesse, non più facilmente descrivibili, mutevoli nel tempo e tendenzialmente infinite. Aggiungendo servizi, diversificando e personalizzando, l’agroalimentare può anche sfuggire alla legge di Engel. D’altra parte, nella scelta del consumatore entrano in gioco tutti i sensi (non più solo il gusto, ma anche la vista, il tatto, l’olfatto e perfino l’udito), dal momento che l’acquisto si integra e accompagna ad un consumo (più complesso) anche del contesto: il packaging, il luogo di acquisto (supermercato) o di consumo, dove l’intrattenimento conta quanto o più del cibo (è stato coniato a riguardo il termine eatertainment).
Tutto questo si riflette sulla definizione stessa di qualità, nella quale si condensano e riassumono, in forma intangibile e differentemente percepita dai singoli consumatori, emozioni, sensazioni, esperienze, originalità, cultura, novità-scoperta, lusso, paura-diffidenza, aspetti etici, e così via. Le tante declinazioni del concetto di qualità si coniugano con gli stili di consumo (Cavicchi, 2008), che spesso si alternano, coesistono e confliggono nella determinazione delle scelte di uno stesso consumatore. Nell’analisi economica delle tendenze alimentari non conta il comportamento dei consumatori in specifiche occasioni, ma il sommarsi cumulativo dei tanti atti di consumo nell’arco dell’anno. Non conta cosa si consuma tra Natale e Capodanno, ma tra Capodanno e Natale.
Ne consegue un quadro estremamente complesso e in continua evoluzione, dove peraltro alcune qualità, in passato riconosciute e apprezzate come tali, si trasformano in pre-requisiti (must), cioè in valori universali che debbono essere necessariamente posseduti da ogni prodotto (pena altrimenti l’esclusione dal mercato), perdendo così forza distintiva. È il caso di attributi quale “buono”: tutti i prodotti, anche dietetici, debbono comunque avere sapore buono; “sano”: anche i prodotti della tradizione – es.: formaggio di fossa – debbono essere oltre ogni dubbio sani; “bello”: non c’è più mercato per i prodotti con imperfezioni – (es.: rugginosità sulla frutta); “comodo”: con riferimento al packaging (es.: apertura a strappo) o in genere alla facilità uso.

Il modello from lab/brand to fork

In questo scenario si inserisce e si impone il modello from lab/brand to fork. Esso non è affatto nuovo: la Coca-Cola lo ha adottato fino dagli anni Venti. Certamente però i cambiamenti tecnologici, la globalizzazione dei mercati e dei consumi hanno potentemente offerto al modello nuove possibilità di affermazione. Esposti (2005) mette in evidenza come, in una prospettiva futura, la ricerca combinata nel campo dell’integrazione tra neuroscienze, nanotecnologie, genetica e Ict offra, attraverso la modularità (e muovendosi tra naturalità, funzionalità e convenienza), la possibilità di produrre su vasta scala una varietà praticamente infinità di prodotti alimentari personalizzati e adattati alle più disparate esigenze del consumatore.
Già nel decennio 1990-2000 sono stati introdotti negli Usa dai 13 mila ai 22 mila nuovi prodotti all’anno (Usda). Si è trattato spesso soltanto di innovazioni incrementali (relative alla presentazione, alla logistica, alle modalità uso, al formato). La tendenza si amplierà ulteriormente nei prossimi anni e decenni.
Questo sviluppo si associa ad un profondo cambiamento nell’atteggiamento del consumatore da diffidente al tempo delle produzioni massificate e standardizzate imposte anche nell’agro-alimentare dal paradigma tayloristico-fordista, a fiducioso nel momento in cui l’innovazione tecnologica e l’ingegneria dell’alimento offrono soluzioni a problemi sanitari (diabete), salutistici (colesterolo), dietetici (obesità) o semplicemente estetici (cellulite), pratici (non deperibilità) o edonistici finora non risolti. Resta ovviamente una certa diffidenza verso alcuni sviluppi tecnologici (Ogm), ma l’accettazione complessiva dei nuovi prodotti alimentari da parte dei consumatori, anche perché assistita da un forte impegno pubblicitario e dalla credence nella marca è generalmente consistente (Fabris, 2003).
L’affermazione del modello from lab/brand to fork si accompagna anche ad una trasformazione del linguaggio e della terminologia utilizzata per indicare gli alimenti e le loro peculiarità. Nel tempo in cui i prodotti alimentari erano pochi e le connessioni con l’agricoltura erano forti, le relazioni tra alimento e origine agricola erano evidenti: gallina-uova, vacca-burro, grano-pane, vitello-bistecca. Un primo cambiamento terminologico ha riguardato il passaggio dalle denominazioni che riconducevano ai prodotti agricoli di base dell’alimento a quelle delle sue componenti: colesterolo, fibre, vitamine, grassi, antiossidanti, amido, zuccheri, proteine, enzimi, trigliceridi. Il secondo passaggio ha riguardato l’introduzione di nomi commerciali e di fantasia. Si prenda il caso degli yogurt. Non solo sulle confezioni mancano tracce che riconducano alla materia prima latte o ai luoghi e ai soggetti della sua produzione. Lo stesso termine “yogurt” è spesso in secondo piano rispetto alle denominazioni commerciali: Actimel, Activia, Essensis (Danone); Lc1 (Nestlè); Kyr (Parmalat), Yomo (Granarolo).
È evidente come, con il cambiamento terminologico, si attenui per il consumatore ordinario fino a spezzarsi ogni possibilità di ricostruire le connessioni tra trasformazioni industriali e origine agricola degli alimenti, di collegare cioè il prodotto alimentare ai prodotti agricoli dai quali è derivato.
Nell’analisi fin qui svolta ci si è prevalentemente soffermati su come il modello from lab/brand to fork si affermi come conseguenza del cambiamento di atteggiamento dei consumatori, delle nuove opportunità offerte dal cambiamento tecnologico e dalla ristrutturazione in corso nelle grandi corporation agroalimentari. È evidente che altri driver muovono nella stessa direzione: il dominio della Gdo nei mercati alimentari, anche attraverso l’imposizione di propri marchi e di propri standard, la globalizzazione dei mercati, l’ingresso nello scenario concorrenziale di nuovi competitor, la stessa internazionalizzazione dei prodotti, alcuni dei quali, tipicamente italiani, hanno perso o stanno perdendo nell’omologazione delle abitudini, ogni richiamo all’origine geografica e storica: pizza, espresso, cappuccino, pasta, sono ormai denominazioni internazionali così come wurstel, crepes, frites, kebab, paella, tapas, tortilla.
Naturalmente, anche la crisi economica può giocare un ruolo nell’affermazione del modello from lab/brand to fork, specie se si considera che i prodotti del modello from farm to fork, per il fatto stesso di essere ottenuti in sistemi di imprese più articolati e complessi, e su scale più ridotte o con cure aggiuntive rispetto ai prodotti convenzionali (biologico), inevitabilmente hanno costi, e quindi prezzi, più elevati (considerando anche i costi di transazione che sono minimi al supermercato); e inoltre si associano a livelli di informazione, cultura, impegno sociale, disponibilità di tempo (che spesso è la risorsa più scarsa), tipici di consumatori in condizioni economiche relativamente migliori (1).

Il problema delle garanzie

Un tema spesso evocato a vantaggio del modello from farm to fork è quello della sicurezza del consumatore sia in termini di sanità degli alimenti, che di garanzia della loro qualità organolettica e alimentare. L’attenzione dei consumatori a riguardo è certamente cresciuta in reazione agli scandali alimentari recenti (Bse, foot and mouth disease, influenza aviaria e suina, metanolo nel vino, mangimi alla diossina), enfatizzati da una informazione molto più pronta a diffondere le notizie allarmistiche che quelle rassicuranti. Il dibattito sugli Ogm, per le forme radicali e pre-scientifiche, con cui spesso si è svolto, ha ancora di più disorientato il consumatore, inducendolo ad assumere atteggiamenti di diffidenza e a spostare le proprie preferenze di mercato. Indubbiamente, il tracciamento di tutti i passaggi della materia prima fino al prodotto finale, l’etichettatura e la tutela delle denominazioni di origine e geografiche, lo stesso autocontrollo dei produttori, così come l’informazione corretta e la vigilanza del consumatore, contribuiscono a rassicurare e favorire lo sviluppo del modello from farm to fork. Ma, nello stesso tempo, è ovvio che in un tale sistema il free riding è sempre in agguato. Quanto più numerosi e dispersi nel territorio sono i produttori, più generiche e ambigue le normative, più laschi i controlli o corrotti i controllori, tanto più è possibile che qualche produttore tenti di lucrare la rendita compresa nel maggior prezzo conseguente alla rassicurazione offerta collettivamente ai consumatori evitando nello stesso tempo i maggiori costi che i protocolli della rassicurazione imporrebbero. La sicurezza nel modello from farm to fork non è dunque assoluta. Essa è affidata alla prevenzione contro il free riding dei produttori stessi e all’efficienza ed efficacia del sistema giuridico-amministrativo pubblico di controllo e sanzione.
Nel modello from lab/brand to fork apparentemente non vi sono garanzie connesse alla possibilità per il consumatore o per le pubbliche autorità di risalire la catena del tracciamento fino all’origine agricola dei cibi. La composizione degli alimenti è talvolta considerata un segreto aziendale. Ma, dal punto di vista del consumatore, le garanzie, riposte nella marca, possono essere anche più consistenti che nel modello alternativo. La fiducia del consumatore è riposta, in questo caso, nella propensione delle imprese egemoni del modello from lab/brand to fork a perseguire il proprio tornaconto. Gli investimenti ex-ante in ricerca e sviluppo di un nuovo prodotto sono così ingenti e i danni ex-post di un difetto, anche semplicemente in una sola confezione venduta in un angolo del mondo, sarebbero talmente generalizzati e rilevanti (sia in termine di ritiro di intere partite, che di logoramento della fiducia) che la grande marca ha tutta la convenienza a non lesinare sui pure ingentissimi costi dell’autocontrollo. Non è la legge dello Stato, ma quella del profitto che suggerisce in questo caso il tracciamento, la diffusione dei controlli e l’applicazione delle sanzioni. Sono le stesse grandi imprese per la propria convenienza a dotarsene. Fidelizzato dall’informazione pubblicitaria della marca, il consumatore può in questo caso sentirsi non meno rassicurato che nel modello from farm to fork.

Le implicazioni per il modello agricolo europeo e italiano in particolare

Naturalmente, i due modelli coesisteranno anche in futuro. D’altra parte, nelle sue scelte, il consumatore li integra già ora, rivolgendosi alternativamente all’uno e all’altro a seconda delle circostanze, delle opportunità, delle condizioni economiche. Analogamente lo stesso agricoltore che vende direttamente alcuni prodotti nella filiera corta, si rivolge per altri ai circuiti internazionali. Tra i due modelli sono possibili anche varie forme di convergenza, come avviene nel caso il cui la Gdo apre e sviluppa il reparto del tipico, del biologico o dei prodotti locali; o come nel caso di imprese che non esitano ad utilizzare le forme di marketing e di vendita tipiche della moderna distribuzione, pur richiamandosi al modello from farm to fork (come Eataly).
Indubbiamente, comunque, numerosi segnali mostrano che il modello from lab/brand to fork non stia perdendo, ma semmai guadagnando terreno. Tra questi certamente importante è la tendenza all’omologazione delle abitudini alimentari, specie nelle giovani generazioni, e l’abbandono (o quanto meno l’integrazione con altri prodotti) della tradizionale dieta mediterranea nei Paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna, con la conseguente importazione dei problemi tipici di altri paesi abituati ad altri regimi alimentari, come l’obesità infantile (Mazzocchi, 2005).
La principale differenza tra il modello from farm to fork e il modello from lab/brand to fork risiede nel differente legame connettivo che si stabilisce tra i diversi operatori lungo tutti i rami delle filiere. Nel caso dell’agroalimentare, come è noto, queste sono spesso particolarmente articolate prevedendo il concorso di numerosissimi operatori e attori.
Nel modello from farm to fork i legami nella filiera sono solidi, sistematici, durevoli. Elementi essenziali di questo modello sono i flussi di beni, informazioni e relazioni interpersonali (permanenti nel tempo e localizzate). Tali flussi sono tipici delle reti di impresa e, nello specifico, delle interdipendenze tra gli attori (individuali o associati) delle filiere agro-alimentari. Essi garantiscono ad ogni produttore, anche ai piccoli ed economicamente più deboli (in primo luogo, agli agricoltori) quella bilateral dependency (Banterle, 2008), spesso fondata sulla presenza delle imprese cooperative o di altre forme associative, che rassicura sulla persistenza nel tempo e nel territorio del rapporto. Da questo dipendono, fondamentalmente, quei comportamenti strategici che favoriscono gli investimenti per il miglioramento continuo della qualità dei prodotti e la loro valorizzazione economica. Le motivazioni ad investire nella cooperazione tra produttori, nella selezione delle razze, nel miglioramento qualitativo delle specie, nell’introduzione e diffusione di innovazioni (di prodotto e processo) e nel loro adattamento alle vocazioni locali, dipendono fortemente dall’aspettativa di relazioni solide e durature tra produttori.
Ben diversa è la situazione nel modello from lab/brand to fork. Le corporation che controllano i laboratori e le marche possono sostanzialmente prescindere dai legami di filiera (tanto che è discutibile se sia appropriato l’uso stesso del termine) e approvvigionarsi delle singole materie prime nei luoghi del mondo più disparati, spostandosi continuamente verso i fornitori di volta in volta più convenienti.
Sono evidenti, nel caso prevalga il modello from lab/brand to fork e manchi una politica appropriata, i pericoli della rottura dei legami sistemici, della convergenza di interessi lungo la filiera. Di fronte alla concorrenza globale che comporta maggiori rischi e minori garanzie, ogni produttore può essere spinto ad adottare obiettivi di breve termine, abbandonare ogni comportamento strategico e cooperativo, in una lotta planetaria per strapparsi i contratti di coltivazione e allevamento da un continente all’altro.
Ovviamente in una situazione di competizione esasperata nella produzione delle componenti di base dei prodotti alimentari, non c’è spazio per i produttori di minori dimensioni, e per quelli più orientati verso le produzioni tradizionali e di qualità. La prospettiva futura di una agricoltura produttrice di generici prodotti grezzi per un mercato completamente dominato ed eterodiretto, e di agricoltori ridotti a “bidelli” del proprio campo, incombe sull’agricoltura di qualità e mina alle fondamenta il “modello di agricoltura europeo” (e quello italiano in particolare). Sarebbe questa una prospettiva infausta sia sul terreno delle relazioni di mercato, ma anche del ruolo dell’agricoltura nella produzione di beni pubblici.

Le politiche che servono, le politiche di cui si dispone

Dopo l’analisi condotta, la scelta dell’Ue di optare (almeno nelle intenzioni) per il modello from farm to fork è la più pertinente per la sua vocazione produttiva e per la sua concezione integrata e multifunzionale della ruralità. Ma questa scelta ha delle implicazioni in termini di politiche più appropriate. Quattro prescrizioni appaiono a riguardo fondamentali. Esse sono state già suggerite nella letteratura economica, specialmente nei contributi scientifici rivolti ad analizzare le politiche per la tutela della qualità e per lo sviluppo integrato delle filiere:
(a) Aggregare – il primo obiettivo è quello di “rafforzare la cooperazione e trovare altre forme di gestione in comune delle fasi di produzione e commercializzazione” (Carbone, 2006), “ridurre la polverizzazione dell’offerta e mirare alla concentrazione di mercato” (Frascarelli, 2008), “compiere un salto di qualità nell’organizzazione dell’offerta per dialogare con le grandi piattaforme logistico-distributive” (De Castro, 2009).
(b) Fare rete – le reti “hanno un effetto moltiplicativo: aumentano il valore della conoscenza estendendone il bacino, […] consentono ai singoli operatori di specializzarsi reciprocamente in attività complementari, […] mettono in contatto con nuovi fornitori e nuovi clienti”. “La forma a rete serve ai piccoli per fare economie di scala e serve ai grandi per non irrigidirsi […] ma bisogna che ognuno accetti di dipendere da altri, su cui non ha potere di controllo. Se accetta è perché il legame in rete rende possibile fidarsi del comportamento di altri” (Rullani, 2009).
(c) Innovare – È falsa l’assunzione che i prodotti naturali o tipici o della tradizione non abbiano bisogno di ricerca e innovazione. “La soddisfazione della crescente domanda di naturalità-tradizione, di cibo quale ‘identità e cultura’ oltre che di sicurezza alimentare, viene spesso associata all’immutabilità di tecniche di produzione tradizionali e, quindi, all’assenza di innovazione tecnologica. In realtà i processi produttivi tradizionali, e la stessa natura, non sempre e non necessariamente garantiscono ciò che il consumatore chiede da questo punto di vista. Soprattutto nei prodotti di ‘fascia alta’ ed esclusivi, la difesa della garanzia di origine, della qualità organolettica e la totale garanzia di sicurezza richiede continui interventi tecnologici sempre più avanzati e sempre più specifici” (Esposti, 2005). Questo implicherebbe un notevole impegno nella ricerca e nei servizi alle imprese puntando sul capitale umano, sulla formazione e l’informazione oltre che sul ricambio generazionale.
(d) Garantire – “Tracciare significa accrescere i valori reputazionali del sistema a livello sia di filiera che di territorio” (Boccaletti, 2008). Significa, nello stesso tempo, ridurre i costi di transazione e “rafforzare le relazioni business to business che sono spesso più importanti di quanto percepito dai consumatori” (Banterle, 2008). D’altra parte, attraverso la comunicazione ai consumatori si rafforza la “reputazione comune”: ciò vincola le imprese al controllo reciproco di qualità (Carbone, 2006). Garantire significa anche controllare, cioè “impedire attivamente il free riding di chi sfrutta la rendita reputazionale sostenendo costi inferiori, ma così contribuendo ad abbassare la qualità” (Boccaletti, 2008).
Si pone a questo punto una domanda: vanno le attuali politiche agricole, di sviluppo rurale e agro-alimentari nelle quattro direzioni ora indicate? Sono adatte, in altri termini, allo scopo di difendere e valorizzare il modello from farm to fork, che sembrerebbe quello che si vorrebbe perseguire? Di fronte poi all’affermazione del modello from lab/brand to fork, sono capaci di accrescere la competitività e il potere contrattuale delle imprese, in modo da resistere ai condizionamenti e correggere le possibili distorsioni? La risposta purtroppo non può essere positiva. Il primo pilastro della Pac non si occupa di questi problemi, essendo tutt’al più una difesa del reddito o una compensazione per gli obblighi connessi alla multifunzionalità e al “valore di esistenza” dell’agricoltura (De Filippis, 2009). Il menu di misure del secondo pilastro difficilmente riesce ad integrarsi in una strategia complessiva, mentre la stessa “politica di qualità dei prodotti agricoli” recentemente rilanciata a seguito del Libro verde (Commissione europea 2008 e 2009) non affronta il problema nella sua complessità ma limita la sua attenzione al solo aspetto delle garanzie. La generalità delle politiche per l’agricoltura e l’agro-alimentare, d’altra parte, considera le aziende agricole e le imprese agro-alimentari nella loro singolarità e non premia adeguatamente l’aggregazione, non stimola come sarebbe opportuno i progetti collettivi.

Considerazioni conclusive

I temi affrontati in questo articolo meriterebbero qualche approfondimento per valutare innanzitutto il peso relativo dei due modelli. A questo proposito sarebbe utile una misurazione dell’interdipendenza tra gli attori nelle filiere fondata sulla continuità (o occasionalità) dei reciproci rapporti e sulla natura delle connessioni. Sarebbe poi da testare se e come, nel corso della loro evoluzione, i due modelli tendano a convergere e integrarsi oppure a divergere e opporsi.
Naturalmente questi approfondimenti andrebbero riferiti ai singoli sistemi agro-alimentari (latte, vino, ortaggi, frutta) in relazione alla loro complessità, al peso delle organizzazioni collettive dei produttori (cooperative, associazioni) e alle differenti forme di governance che nel tempo si sono affermate.
Un approfondimento in questo senso favorirebbe una presa di coscienza più piena delle reali dinamiche future dell’agro-alimentare, delle convenienze e dei rischi che in esse si celano e delle effettive opportunità competitive per il nostro Paese e per l’Europa.
Si discute del futuro della Pac. Il dibattito salirà di livello con l’insediamento del nuovo Parlamento europeo e della nuova Commissione. Riteniamo sia necessaria una analisi critica che integri le tematiche settoriali agricole con quelle dell’industria e della distribuzione. La dimensione sistemica della questione agro-alimentare non può essere trascurata e va esplicitamente presa in carico. Tenerne conto, con riferimento alla analisi qui proposta dei sistemi agro-alimentari e dei connessi modelli agricoli, consentirebbe di difendere con buoni argomenti l’importanza in futuro di una politica agricola e alimentare europea e fornirebbe utili indicazioni per il rimodellamento della Pac.

Note

(1) Si può obiettare che, in realtà, uno degli argomenti a favore delle filiere corte sarebbe proprio il fatto che i prodotti costino meno, tanto da proporle alle famiglie come risposta alla crisi economica. Si deve comunque tenere conto che soluzioni del genere (a parte maggiori i costi di transazione che gravano sia sui produttori che sui consumatori) non sono generalizzabili, restando circoscritte a specifiche condizioni di produzione e mercato.

Riferimenti bibliografici

  • Banterle A. (2008), “Tracciabilità, coordinamento verticale e governance delle filiere agro-alimentari”, Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 [link].
  • Barberis C. (a cura) (2009), “Ruritalia. La rivincita delle campagne”, Insor, Donzelli Editore.
  • Belletti G., Marescotti A. (2008), “Approcci alternativi per la regolazione e la tutela dei nomi geografici: reputazioni collettive e interesse pubblico”, Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 [link].
  • Boccaletti S. (2008), “Gli effetti di mercato delle indicazioni geografiche”, Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 [link].
  • Canali G. (2008), “Verso una strategia europea per i prodotti agroalimentari di qualità: il ‘green paper’”, Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 [link].
  • Carbone A., (2006), La valorizzazione della qualità agroalimentare: diverse strategie a confronto, Agriregionieuropa , n. 5, anno 2 [link].
  • Cavicchi A. (2008), “Qualità alimentare e percezione del consumatore”, Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 [link].
  • Commissione Europea (2008), Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli, requisiti di produzione e sistemi di qualità, COM(2008)641, del 15.10.2008, Bruxelles.
  • Commissione Europea (2009), Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, Al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni sulla politica di qualità dei prodotti agricoli, COM(2009)234 definitivo, del 28/5/2009, Bruxelles.
  • De Castro P. (2009), Un made in Italy per l’era globale, Terra e Vita, n.17. De Filippis F. (2009), Contributo a: AA.VV., Forum sull’Health check e la PAC dopo il 2013, Agriregionieuropa, n.16, anno 5 [link].
  • Esposti R., (2005), Cibo e tecnologia: scenari di produzione e consumo alimentare tra tradizione, convenienza e funzione, Agriregionieuropa, n. 3, anno 1 [link].
  • Fabris G., Minestroni L. (2004), Valore e valori di una marca. Come costruire e gestire una marca di successo, FrancoAngeli, Milano.
  • Fabris G. (2003), Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, FrancoAngeli, Milano.
  • Frascarelli A., (2008), Differenziazione, tutela della qualità e concentrazione dell’offerta: come riprendersi il valore, Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 [link].
  • Mazzocchi M., (2005), Sicurezza alimentare, nutrizione e salute: tendenze recenti in Europa e negli Stati Uniti, Agriregionieuropa, n. 3, anno 1 [link].
  • Rullani E. (2009) Reti globali, una rivoluzione che prima comincia e meglio è, L’impresa, n.10, aprile.
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Commenti

Ho ricevuto questa email e, con il permesso dell'autore, la pubblico con il successivo mio commento
 
Pregiatissimo Professore,
sono Mario Giuseppe Paolucci, di Perugia, ieri sera ero a Rimini alla riunione del Comitato della Compagnia delle Opere Agroalimentare.
Ho ascoltato il Suo intervento con molta curiosità, attenzione ed interesse.
Le premetto che non sono un economista ma solo un ciabattino del diritto agrario.
Qualche anno fa ricordo di aver letto un suo articolo pubblicato su Agriregione, dal titolo “L'impresa agricola alla ricerca del valore”.
Se non ricordo male, Ella, dopo aver sottolineato che l'imprenditore agricolo deve ricercare il valore chiedendosi cosa vuole il consumatore, attraverso il mercato ed il cittadino, attraverso la politica di sostegno ed agevolazioni verso l'agricoltura, sosteneva che la prima domanda trovava una risposta nella diversificazione, la seconda nella multifunzionalità.
Inoltre, chiedo scusa per la estrema sintesi, affermava che la ricerca del valore da parte della impresa agricola portava quest'ultima a diversificare verso tre direzioni: allargamento, approfondimento e riposizionamento.
Infine, metteva in evidenza alcune criticità che avrebbero dovute essere affrontate: i servizi e le politiche per la diversificazioni, compreso il ruolo dello Stato in senso lato.
Ora, se posso, vorrei domandarLe se il modello di impresa agricola multifunzionale e diversificata è, secondo Lei, ancora attuale e competitivo.
In secondo luogo, ho come dire la percezione che tale modello, se ancora attuale, sia ricompreso completamente nel primo sistema agroalimentare (from farm to fork), mentre non comprendo - e qui viene in risalto la pochezza delle mie conoscenze- come possa in qualche modo rientrare nel secondo sistema, cioè essere riconosciuto e quindi competitivo anche in questo secondo sistema.
Oppure il secondo sistema sottende un altro sistema di imprese?
Le chiedo scusa per la mia intrusione e impertinenza, ma il Suo intervento ha in qualche modo sollecitato la mia curiosità.
La saluto, se posso, cordialmente.
Mario Giuseppe Paolucci
 
La mia risposta.
 
Caro signor Paolucci
le rispondo, dopo aver notato con piacere che ho almeno un lettore attento di quello che scrivo. Le sue osservazioni sono interessanti e se mi consente, le inserirei in Agriregionieuropa nello spazio dei commenti sotto l'articolo che lei cita.
Non credo ci sia contraddizione tra la spinta alla diversificazione, che è una caratteristica saliente di tutti i mercati. Solo l'agricoltura del passato e forse l'industria delle catene di montaggio e delle produzioni di massa (che gli economisti chiamerebbero tayloristico-fordista) avevano come obiettivo la produzione di prodotti standard e buoni per tutti i consumatori.
Nell'era postindustriale nella quale ci troviamo sono l'attenzione al consumatore, la personalizzazione del prodotto, l'aggiunta di servizi (la diversificazione appunto) che dominano. Tanto nell'industria che in agricoltura e nell'agro-alimentare. Questo non riguarda solo il prodotto in sé, ma anche il contesto (luogo di acquisto, occasione di consumo, ecc) : pensi ai supermercati. Il cui successo è nella vastissima gamma di prodotti e servizi che propongono, compreso quello di non richiedere troppo tempo per fare la spesa.
Il problema dell'aggregazione che io vedo, la necessità di “fare sistema” che sollecito, quindi, non riguarda solo le singole filiere (che non sarebbe già poco), ma anche le filiere tra di loro. Occorre compattare l'offerta, organizzarla, coordinarla, comunicarla e contemporaneamente renderla ricca, varia, differenziata. Poi ci sono sempre le nicchie e qui si possono fare affari ugualmente ma, come si dice “ci sono spesso dei buchi nel mercato, ma non sempre c'è del buon mercato nei buchi” .
Cordialmente, Franco Sotte

Commento originariamente inviato da 'Franco Sotte' in data 19/05/2010.