Globalizzazione
La relazione tra commercio internazionale e prosperità economica occupa una posizione di primo piano fin dalle origini della scienza economica. Oggi essa richiama un’attenzione particolarmente ampia nel contesto della globalizzazione, in relazione ai processi di liberalizzazione commerciale e di flussi di capitali fra paesi, come provano l’ultimo G8, manifestazioni come il Live8 e le connesse manifestazioni di piazza, da Seattle a Gleneagles, passando per Genova.
Accanto ad un orientamento prevalente tra gli economisti, che vedono nella liberalizzazione degli scambi accresciute possibilità di crescita e di prosperità, c’è una diffusa preoccupazione circa il fatto che tali benefici siano principalmente per i ricchi e restino più o meno ampiamente preclusi ai poveri. Di fronte alla particolare ampiezza e complessità di argomenti in gioco ci si chiede ancora una volta se si può davvero guardare con ottimismo ai processi d’integrazione economica in atto e sperare quindi che essi contribuiscano a costruire un mondo con meno, se non senza, povertà e fame.
Ci si chiede dunque quali sono i nessi tra globalizzazione e povertà. Un primo effetto positivo della globalizzazione sulla povertà è quello di portarla agli occhi di tutti, mostrando i danni dello Tsunami nei paesi già poveri del Sud-Est asiatico o quelli dell’Aids nel poverissimo continente africano. Ma l’effetto di una tale globalizzazione mediatica è fugace e tende a lasciare il tempo che trova nel susseguirsi di scoop giornalistici che non portano a molta elaborazione, e ancor meno ad azione d’adeguato respiro per incidere sugli eventi in questione.
La globalizzazione mediatica è dunque solo uno strumento, che può contribuire tanto a beneficio quanto a danno, a seconda della sua qualità e del contesto nel quale si svolge. In senso analogo anche la globalizzazione economica può essere vista come opportunità e strumento, gli effetti in termini di riduzione della povertà dipendendo da un complesso insieme di circostanze e di azioni connesse. Serve comunque notare che, in contrasto con una percezione diffusa, la globalizzazione odierna non è né unica, né irreversibile, essendosi alternate nei tempi lunghi fasi di liberalizzazione degli scambi con fasi di protezionismo più o meno spinto.
La tendenza ad una progressiva liberalizzazione degli scambi è oggi al centro di un acceso dibattito che va ben oltre gli ambiti usuali degli addetti ai lavori, dando luogo a quel variegato movimento che viene di solito indicato col termine sommario e un po’ fuorviante di antiglobal e che talvolta assume toni anticapitalistici, talaltra di contrapposizione tra Nord e Sud, tra società civile e multinazionali, o tra società civile e organizzazioni internazionali che favoriscono la liberalizzazione degli scambi.
A ben guardare però tale dibattito riguarda più il grado e i modi della liberalizzazione, e la distribuzione dei suoi benefici, tra paesi ed all’interno di un paese, che non la liberalizzazione di per sé. Non è dunque tanto la globalizzazione economica come tale ad essere sotto processo, quanto la globalizzazione come essa è oggi.
Commercio internazionale e povertà
C’è ampio consenso tra gli economisti nel considerare il commercio internazionale come mutuamente benefico per i paesi che vi partecipano. A ben guardare, tuttavia, il consenso sembra riguardare più le possibilità che il commercio offre che non ciò che nel commercio realmente accade. Il commercio internazionale non favorisce allo stesso modo tutti i paesi che vi partecipano, e con la liberalizzazione c’è sempre, almeno nell’immediato, chi ci guadagna e chi ci rimette, tra paesi e nei singoli paesi.
Le ragioni di un’apparente frattura fra teoria e realtà rimandano alle concrete circostanze nelle quali il commercio si svolge e la liberalizzazione procede, e al frequente prevalere degli interessi di attori forti, siano essi paesi o imprese multinazionali, o comunque di particolari gruppi d’interesse nei paesi ricchi, a danno degli interessi di attori deboli. In ragione della loro forza i primi possono incidere sulle decisioni dei governi e sulle politiche che, direttamente o indirettamente, influiscono sul commercio internazionale e sulla distribuzione dei suoi benefici, con tale forza da compromettere la potenziale riduzione delle disuguaglianze, potendo anche contribuire a ulteriore povertà.
A tale riguardo l’esperienza storica è variegata e suggerisce cautela nel generalizzare. Se, infatti, le vicende di numerosi paesi asiatici, quali l’India, la Corea del Sud e le Filippine, e di qualche paese latino americano, come il Cile e il Brasile, sembrano sostenere una visione ottimistica, quelle di numerosi altri sembrano piuttosto confermare le ragioni di scetticismo. Con la liberalizzazione degli scambi aumenta, assieme alle opportunità, l’esposizione a condizioni esterne sulle quali, tanto più quanto più si è piccoli e deboli, si ha poca capacità d’influire.
Aumenta dunque la vulnerabilità e i risultati concreti dipendono anche dalla capacità di farvi fronte, per grandi che siano le opportunità annunciate. La liberalizzazione di per sé non garantisce automaticamente né crescita né sviluppo, perché le vicende e le politiche interne non sono a tal fine meno rilevanti di quelle internazionali. Politiche interne accorte possono ridurre il rischio di effetti collaterali avversi della liberalizzazione, ma è parte del problema il fatto che spesso i paesi poveri sono tali anche dal punto di vista istituzionale e della loro capacità di adottare adeguate politiche complementari.
In un certo senso, e in solo apparente paradosso, i processi di globalizzazione non sono poi tanto globali: in larga misura il commercio internazionale si svolge fra un ristretto numero di paesi più o meno ricchi, mentre buona parte del mondo in via di sviluppo ne resta al margine. Per molti passi avanti che si siano fatti, le esportazioni dei paesi poveri trovano ancora forti barriere all’accesso ai mercati ricchi.
Emblematico resta al riguardo il caso del protezionismo agricolo dei paesi ricchi, dove continuano a pesare gli interessi di specifici gruppi, che, lasciando in ombra l’onere che il protezionismo comporta per il consumatore e per il contribuente, possono anche essere spacciati per interessi nazionali. Il fatto è che all’interno di quei paesi i gruppi che traggono beneficio dal protezionismo sono ben organizzati e capaci di far valere i loro interessi negli equilibri politici interni, nonostante la loro esiguità numerica, ciò che poi si riflette anche nel consesso internazionale, in contenziosi che restano peraltro spesso tra gli stessi paesi ricchi, come è il caso di UE ed USA nelle loro dispute in ambito WTO.
La complessità economica e sociale che le riduzioni della protezione comportano rispetto ad assetti da tempo consolidati non è certo da sottovalutare, ancor meno nelle particolari difficoltà della presente congiuntura. Occorre tuttavia resistere alle tentazioni, o tentativi, di far rientrare dalla finestra ciò che si accetta di far uscire dalla porta. Le tariffe, le quote ed i sussidi non sono gli unici mezzi per proteggere le produzioni nazionali e i peraltro nobilissimi propositi di salvaguardia della qualità, di tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori possono diventare comoda scusa nei paesi ricchi per contrastare la penetrazione commerciale di paesi poveri con standard ambientali e lavorativi più bassi.
Non è questione di soprassedere ad obiettivi coerenti con i livelli di benessere attuali dei paesi ricchi, ma piuttosto di astenersi dal fare del loro perseguimento un uso strumentale a danno di paesi più poveri che, così come a suo tempo per i paesi oggi ricchi, non possono oggi accordare ad essi analoga priorità, proprio a causa della povertà e del più modesto sviluppo.
Crescita e uguaglianza, le politiche e le istituzioni
Anche quando essa favorisce la crescita economica, non è detto che la liberalizzazione degli scambi porti a ridurre la povertà, perché un aumento medio del reddito pro-capite non significa automaticamente che esso valga in misura adeguata anche per gli strati più bassi e può accompagnarsi ad un aumento della disuguaglianza con effetti sul livello di povertà che restano da verificare.
D’altra parte, questioni essenziali per lo sviluppo tendono ad essere trascurate o a rimanere fuori campo nella visione neo liberale prevalente, già nella definizione delle priorità, per cui la stabilizzazione economica può venire in testa all’agenda e la creazione di occupazione restarne del tutto fuori; si possono reperire le risorse per salvare le banche, ma non la scuola o i servizi sanitari; si può mettere mano alla tassazione dei redditi, ma non ad una riforma agraria, per quanto sia ben noto il ruolo che questa ha avuto in alcuni dei casi di maggior successo nello sviluppo di lungo periodo, come in Giappone, nella Corea del Sud e a Taiwan.
La stessa privatizzazione, altro elemento chiave della visione neo liberale, se non adeguatamente accompagnata da regole che garantiscano la concorrenza, può portare a risultati opposti a quelli annunciati. E l’esperienza di numerosi paesi, quali Cina, India, Polonia, che anziché adottare supinamente la prescrizione prevalente hanno messo mano a riforme istituzionali e politiche sociali e distributive, mostrano che l’intervento pubblico, piuttosto che ostacolo, può essere fattore di sviluppo.
Viceversa altri casi, Russia compresa, indicano il pericolo di un’adozione troppo frettolosa di politiche di liberalizzazione dei mercati senza prima assicurare le precondizioni, giuridiche ed istituzionali, notoriamente essenziali perché un’economia di mercato possa ben funzionare. D’altra parte, prestare attenzione solo alle esigenze d’efficienza può portare a una riduzione, anziché un aumento, del benessere sociale, come nel caso della Tailandia dove l’aumento dell’incidenza della prostituzione e dell’Aids sono correlati con la riduzione della spesa sociale indotta dall’austerità fiscale.
Il mercato, anche ammettendo che sia il più efficiente meccanismo di allocazione delle risorse, non è detto che porti sempre, da solo, a risultati socialmente preferibili. La vecchia idea che occorra scegliere tra più crescita e più equità è oggi messa in discussione alla luce dei numerosi studi che indicano, al contrario, come paesi con una più equa distribuzione del reddito crescono, a parità di condizioni, più rapidamente e con migliori prospettive di sostenibilità.
Ridurre la disuguaglianza è dunque un obiettivo non solo da perseguire di per sé, ma anche al fine di promuovere la crescita, e sarebbe ingenuo pensare che di ciò possa farsi carico il mercato da solo, tanto più quanto questo appare lungi da una sua ideale perfezione. Ciò significa, non minore, ma maggior bisogno di governo, e di buon governo, nei paesi e tra i paesi. E, in entrambi i casi, di un più compiuto assetto istituzionale, in grado di funzionare non di meno, ma di più, e meglio.