Traduzione di Valentina Cristiana Materia
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Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento dell’interesse verso gli investimenti internazionali nelle agricolture dei paesi in via di sviluppo. In particolare, recentemente hanno soprattutto attratto la massima attenzione le acquisizioni e le forme di leasing di terreni agricoli a scopo di approvvigionamento alimentare, specialmente in Africa, da parte di investitori provenienti da diversi Stati del Golfo, anche se questi investimenti non rappresentano che una tipologia tra le tante forme di investimento che vengono effettuate in Africa per le più disparate motivazioni.
Anche altri paesi al di fuori dell’Africa sono diventati oggetto di attenzione da parte degli investitori, in particolare sono soprattutto i cinesi e i sud-coreani ad aver realizzato o programmato maggiori investimenti in queste terre. Le compagnie di investimento dell’Europa e del Nord America stanno sperimentando anche altre opportunità di investimento, motivate da rendimenti attesi potenzialmente alti, in parte dovuti ai più alti prezzi dei beni alimentari, e specialmente dove la produzione di biodiesel rappresenta una concreta possibilità di guadagno.
L’investimento internazionale nelle agricolture dei paesi in via sviluppo non rappresenta un fenomeno nuovo, basta tornare indietro nel tempo all’epoca del colonialismo.
È lunga la storia degli investimenti da parte di società transnazionali nelle piantagioni tropicali quali, ad esempio, quelle per la gomma o il tè. Il Giappone ha investito massicciamente nella produzione agricola in Brasile. Più recentemente, gli investimenti cinesi nell’agricoltura africana, iniziati già intorno al 1995 nello Zambia. Questi, comunque, sembra che non solo si siano incrementati notevolmente negli ultimi tre anni, ma che abbiano anche caratteri piuttosto insoliti rispetto al passato, nonché implicazioni più estese.
Il primo principale motivo del recente accrescimento di interesse per l’investimento internazionale nella produzione alimentare sembra essere l’approvvigionamento alimentare, nonché la crescente preoccupazione, derivante dal recente incremento dei prezzi dei beni alimentari e dagli shock indotti dalle politiche dal lato dell’offerta, che la dipendenza dai mercati mondiali per quanto attiene l’approvvigionamento di beni o materie prime agricole sia diventata più rischiosa.
Nei primi mesi del 2008, i prezzi dei beni alimentari si attestavano al valore più elevato degli ultimi 30 anni, essendo aumentati di più del 50% rispetto al 2007 (FAO, 2009).
Più di recente, i prezzi sono scesi rispetto a quegli alti livelli, tuttavia sono ancora significativamente al di sopra dei valori osservati negli anni più recenti e ci si aspetta che rimangano tali. Inoltre, anche se i prezzi sono certamente più bassi, questo riflette piuttosto una domanda decrescente che non un incremento nell’offerta di beni alimentari. La recente volatilità mostrata dai prezzi internazionali dei beni alimentari ha comprensibilmente provocato preoccupazione circa il costo e la disponibilità di cibo in quei paesi che per il loro approvvigionamento alimentare dipendono fortemente dalle importazioni. Per i paesi più ricchi, la preoccupazione non è tanto il prezzo dei beni alimentari importati, quanto la loro disponibilità considerato che, come nel biennio 2007-2008, i maggiori esportatori in tempi di crisi potrebbero ricorrere nuovamente a restrizioni alle esportazioni.
In una prospettiva di lungo periodo, la preoccupazione per l’approvvigionamento alimentare di paesi che dipendono dalle importazioni di beni alimentari potrebbe essere ben fondata alla luce della crescita della popolazione, dell’incremento dei redditi, dei vincoli sempre più stringenti nell’utilizzo delle risorse, in primis della terra e dell’acqua, nonché alla luce del cambiamento climatico.
I Paesi del Golfo sono tra quelli che più dipendono dalle importazioni, posto che più del 50% di quanto consumano consiste in beni alimentari importati.
L’incremento e la volatilità dei prezzi internazionali dei beni alimentari, aggravati soprattutto dalle restrizioni alle esportazioni adottate dai principali esportatori di grano a seguito dell’inflazione che ha colpito i prezzi alimentari, hanno portato ad una perdita di fiducia nei mercati internazionali, soprattutto alla luce della relativa debolezza della disciplina del WTO circa le restrizioni all’esportazione. Incrementare l’auto-approvvigionamento alimentare non è un’opzione ragionevole laddove, come nella maggior parte degli Stati del Golfo, le restrizioni nell’uso di terra e acqua si fanno sempre più stringenti, tanto che l’investimento nelle produzioni alimentari all’estero è visto come una possibile strategia di approvvigionamento alimentare.
Allo stesso tempo, alcuni paesi in via di sviluppo in Africa stanno compiendo sforzi ingenti per attrarre simili investimenti al fine di sfruttare il “surplus” di terra di cui dispongono, incoraggiando l’accesso internazionale a risorse di terra la cui proprietà e il cui controllo nel passato sono stati tipicamente interamente nazionali.
Non sorprendentemente, la situazione apparentemente anomala dal punto di vista della sicurezza alimentare, nella quale i paesi meno sviluppati in Africa vendono le proprie terre ai paesi più sviluppati perché producano cibo per l’esportazione per nutrire la più ricca popolazione dei secondi, ha attratto l’interesse di molti mass-media, apparendo la circostanza sensazionale. Alcuni studiosi hanno sostenuto che questi investimenti potrebbero segnare l’inizio di un cambiamento fondamentale nella geopolitica dell’agricoltura internazionale.
La crescita dell’interesse per gli investimenti esteri nelle terre agricole ha anche generato, più in generale, una sostanziale preoccupazione internazionale. Basti pensare che se ne è discusso anche in occasione del summit del G8 a L’Aquila, allorquando il Giappone ha sollevato il problema della necessità di un “investimento responsabile”, proponendo anche una iniziativa di cooperazione internazionale per assicurarlo.
Ovviamente, emergono questioni complesse e controverse di carattere economico, politico, istituzionale, legale ed etico in relazione a temi quali l’approvvigionamento alimentare, la riduzione della povertà, lo sviluppo rurale, il progresso tecnico e l’accesso a risorse quali la terra e l’acqua. D’altro canto, il fatto che per molti anni, in molti paesi in via di sviluppo specialmente dell’area Sub-Sahariana, siano sostanzialmente mancati investimenti in agricoltura, ha significato una produttività costantemente bassa nonché una produzione stagnante. La mancanza di investimenti è stata vista come una causa fondamentale della recente crisi alimentare e delle difficoltà che i paesi in via di sviluppo hanno incontrato nell’approcciarsi ad essa.
Secondo una stima della FAO, sono necessari investimenti addizionali per circa 83 miliardi di dollari all’anno perché l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo possa soddisfare la richiesta di cibo prevista per il 2050 (Schumidhuber et al., 2009). La capacità propria dei paesi in via di sviluppo di colmare il gap è limitata. La quota di spesa pubblica in agricoltura nei paesi in via di sviluppo è scesa a circa il 7%, ed anche a meno in Africa, e solo il 5% è destinato all’assistenza allo sviluppo agricolo. Anche il prestito che le banche commerciali assicurano all’agricoltura dei paesi in via di sviluppo è di modesta entità, meno del 10% nell’Africa Sub-Sahariana, mentre i prestiti di micro-finanza sono in generale troppo esigui e non adatti alla formazione di capitale in agricoltura. I fondi di investimento finalizzati all’agricoltura africana rappresentano un interessante sviluppo recente, ma gli investimenti effettivi sono ancora modesti.
Dati i limiti delle fonti alternative nel finanziamento degli investimenti, le acquisizioni dirette estere nell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo potrebbero costituire un contributo importante tale da colmare il gap di investimento.
La questione è, così, non tanto se gli investimenti diretti stranieri possano contribuire ad incontrare le necessità di investimento dei paesi ospitanti, quanto piuttosto in che modo il loro impatto possa essere ottimizzato al fine di massimizzare i benefici e minimizzare i rischi ad essi associati per tutti i soggetti coinvolti. Per rispondere alla questione è necessario capire cosa sia accaduto agli investimenti esteri nelle agricolture dei paesi in via di sviluppo e perché.
Questo articolo rappresenta un approfondimento sullo stato delle conoscenze circa la recente ondata di investimenti nell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo, e a tal fine rappresenta un riepilogo sulla natura di questi investimenti e sulla loro ragione d’essere. Esso cerca di comprendere quali siano le implicazioni, da un punto di vista sia economico che politico, della crescita di questi investimenti per i paesi riceventi, per gli investitori e per la comunità internazionale.
Concludono l’articolo alcune riflessioni circa questioni di policy nonché di diritto, inclusa quella sull’opportunità di definire un codice internazionale di condotta.
Il contributo si focalizza sugli investimenti nella produzione di alimenti in particolare in Africa, sebbene anche gli investimenti in biocarburanti e gli investimenti negli altri paesi in via di sviluppo ovviamente sollevino molte delle stesse questioni.
Cosa sappiamo circa i recenti investimenti nell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo?
Sfortunatamente, non sono disponibili dati dettagliati sull’estensione, la natura e l’impatto di questi investimenti. I dati disponibili circa gli investimenti diretti esteri mancano di sufficiente dettaglio e sono troppo aggregati per poter determinare quanto si è investito in agricoltura e che forma questo investimento abbia preso. È quindi difficile affermare con una certa precisione se i recenti investimenti siano davvero una recente novità o piuttosto soltanto la continuazione di trend preesistenti.
Alcune informazioni sono rese disponibili dagli stessi investitori e dai paesi in via di sviluppo che ricevono al loro interno gli investimenti, sebbene non siano mai divulgate informazioni dettagliate data la sensibilità delle questioni che riguardano questi investimenti e il bisogno di riservatezza. Talvolta circolano aneddoti, probabilmente esagerati e difficili da verificare. La debolezza delle informazioni disponibili suggerisce di ricorrere a studi di caso a livello di singoli paesi per comprendere l’estensione e l’impatto di investimenti ricevuti, come realizzato da alcune organizzazioni internazionali.
Ad ogni modo, a partire dalle informazioni disponibili, possono essere tratte alcune osservazioni.
- L’investimento estero nell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo appare essersi incrementato negli ultimi due anni, sebbene il numero di progetti attualmente implementati sia inferiore di quanto prospettato o riportato nei mass-media.
- L’investimento estero nell’agricoltura dei paesi in via di sviluppo e nella terra non è un fenomeno nuovo.
- La forma principale con cui gli investimenti recenti si manifestano è l’acquisizione, specialmente attraverso un leasing di lungo periodo (fino a 99 anni) di terra agricola per la produzione di cibo.
- Gli investimenti nella terra possono essere su larga scala: in molti casi riguardano più di 10 mila ettari e in alcuni anche più di 500 mila ettari.
- La superficie complessiva in Africa verso cui hanno mostrato interesse gli investitori stranieri negli ultimi tre anni si stima sia stata pari a circa 20 milioni di ettari, tuttavia la terra sotto il controllo estero rimane ancora una porzione relativamente piccola dell’area totale di terra dei paesi ospitanti.
- Gli investimenti spesso si occupano anche dello sviluppo infrastrutturalale, come la costruzione di strade o collegamenti su rotaie o attrezzature portuali.
- I principali investitori attuali sono i Paesi del Golfo, ma anche la Cina e la Corea del Sud.
- I principali obiettivi degli investimenti recenti sono i paesi dell’Africa, ma non mancano anche investimenti nel Sud-Est asiatico e nel Sud America.
- È emerso un particolare modello di flussi bilaterali di investimento che tiene conto di legami culturali, politici, di business, nonché di restrizioni geografiche sui fondi di investimento: i Paesi del Golfo hanno preferito investimenti nel Sudan, e in altri paesi principalmente africani, membri dell’Organisation of the Islamic Conference (OIC), mentre la Cina, fuori dall’Asia, ha preferito lo Zambia, l’Angola e il Mozambico.
- Ad investire è soprattutto il settore privato, ma a sostegno degli investitori privati intervengono anche i fondi governativi e i sovereign wealth funds (Fondi di investimento di proprietà dello Stato, ndt), coinvolti in alcuni casi anche direttamente.
- Gli investitori del settore privato sono spesso le società di investimento o di partecipazione, piuttosto che veri specialisti del settore agro-alimentare, il che significa che hanno bisogno di acquisire competenze necessarie alla gestione di complessi investimenti di larga scala nel settore agricolo.
- Nei paesi di accoglienza sono i governi ad impegnarsi a negoziare le offerte di investimento.
- Continuano i più tradizionali investimenti diretti esteri – quali, ad esempio, quelli in orticoltura e floricoltura nell’Africa Orientale o nelle banane in Mozambico, - ma spesso si adottano varie forme di joint venture come, ad esempio, l’agricoltura a contratto (contract farming).
- Gli investimenti attuali si differenziano dal modello precedente di investimenti esteri diretti per diversi aspetti: si interessano al controllo delle risorse (principalmente terra e acqua), piuttosto che di ricercare un mercato; enfatizzano la produzione di alimenti di base anche per l’alimentazione animale e per le esportazioni verso il paese che investe, piuttosto che la produzione di colture tropicali per una più ampia esportazione commerciale; comportano l’acquisizione di terreni e il controllo effettivo della produzione, piuttosto che forme più flessibili di joint venture.
- Potrebbero esserci alcuni segnali che dimostrano come l’incremento degli investimenti abbia raggiunto recentemente un picco, che vi è stato un allontanamento dall’Africa e che si cerca una maggiore partecipazione a livello locale sia attraverso forme di joint venture, sia con gli investimenti diretti esteri come effettuato in passato.
Questioni chiave
Perché gli investimenti esteri?
Una delle preoccupazioni principali che giustificano il recente rilancio degli investimenti e che in un certo senso ne indica la differenza, rispetto al normale corso degli investimenti diretti esteri, è la sicurezza alimentare. Ciò riflette il timore (derivante dal recente rincaro dei prezzi alimentari e dagli shock dal lato dell’offerta, in particolare, effetto diretto delle politiche di controllo sulle esportazioni) che la dipendenza dai mercati mondiali per l’approvvigionamento alimentare si sia fatta più rischiosa. In quei paesi con limitate risorse, quali terra e acqua, ma con popolazione e urbanizzazione in costante aumento e che, quindi, dipendono sempre più dalle importazioni anche di generi di prima necessità, questi timori hanno indotto una seria rivalutazione delle proprie strategie per la sicurezza alimentare. L’investimento nella produzione alimentare in paesi in cui non sono presenti i vincoli connessi alla limitatezza della terra e dell’acqua, presenti invece a livello nazionale, è visto come una risposta strategica. In particolare, questo modo di procedere ha offerto opportunità di investimento al settore privato che i governi e le istituzioni finanziarie sono stati disposti a sostenere.
Gli investitori che cercavano occasioni al di fuori dei paesi con problemi di sicurezza alimentare hanno visto negli investimenti nella produzione alimentare opportunità redditizie per la diversificazione del portafoglio, in particolare allorquando i rendimenti derivanti da altri investimenti sono diventati meno attraenti. Altri investitori, invece, sono stati motivati dalle prospettive offerte dagli sviluppi dei biocarburanti. Recentemente, sono stati istituiti diversi fondi di investimento dedicati – un esempio è l’Africa Trasformational Agri Fund - al fine di investire nell’agricoltura africana, perseguendo anche scopi sociali oltre che finanziari.
Alcuni paesi in via di sviluppo stanno compiendo notevoli sforzi per attrarre e agevolare gli investimenti esteri nei loro rispettivi settori agricoli. Per questi paesi, l’investimento diretto estero è visto come un contributo potenzialmente importante per colmare il divario di investimenti, anche se non è chiaro quanto questi investimenti rispondano realmente ai loro bisogni effettivi. I benefici finanziari di cui i paesi che accolgono gli investimenti nell’agricoltura possono godere in conseguenza dei trasferimenti di risorse sembrano essere modesti. In genere, si chiedono bassi affitti per i terreni, talvolta sono addirittura prossimi allo zero, mentre le varie concessioni fiscali offerte agli investitori stranieri comportano minori entrate fiscali. Eppure, gli investimenti esteri continuano ad essere visti come se fornissero potenziali benefici di sviluppo attraverso, ad esempio, il trasferimento di tecnologia, la creazione di occupazione, lo sviluppo infrastrutturale. Se tali benefici potenziali di sviluppo possano effettivamente essere realizzati è un problema fondamentale. Questo problema verrà discusso più avanti.
Alternative agli investimenti diretti esteri
Gli investimenti nei terreni sono solo una risposta strategica ai problemi di sicurezza alimentare dei paesi con limitate risorse quali terra e acqua, e il dibattito circa questi investimenti deve essere inserito nel più ampio e generale contesto di discussione delle strategie di sicurezza alimentare. Vi è una varietà di altri meccanismi, tra cui la creazione di riserve alimentari regionali, gli strumenti finanziari per gestire i rischi, gli accordi bilaterali che includono scambi incrociati e il miglioramento dei sistemi di informazione sul mercati alimentari internazionali, che possono contribuire a promuovere la sicurezza alimentare per i paesi importatori di generi alimentari e con risorse limitate. L’investimento potrebbe essere nelle infrastrutture di cui si ha più bisogno, e nelle istituzioni che attualmente limitano di molto l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo, soprattutto nell’Africa Sub-Sahariana. Questo tipo di iniziative, insieme con gli sforzi per migliorare l’efficienza e l’affidabilità dei mercati mondiali degli alimenti, potrebbe aumentare la sicurezza alimentare per tutti gli interessati, più in generale attraverso la possibilità di espandere la produzione e il commercio. Siffatti investimenti, tesi allo sviluppo, potrebbero essere simili agli aiuti ufficiali allo sviluppo, ma con un potenziale beneficio indiretto per i donatori attraverso un aumento della disponibilità delle esportazioni. Gli investimenti pianificati dal Giappone al fine di aumentare la produzione alimentare, in particolare in America Latina, e gli investimenti della Cina in materia di ricerca tecnica e di sviluppo per aumentare la produzione di riso in Mozambico sono solo alcuni esempi.
Il land grabbing
Il tanto citato land grabbing (accaparramento di terra) che comporta l’acquisizione di terreni agricoli nei paesi in via di sviluppo per la produzione alimentare è solo una forma di investimento, forse quella con meno probabilità di fornire consistenti benefici per lo sviluppo del paese accogliente. Alcuni investitori vedono l’acquisizione di terreni come una misura di sicurezza per i loro investimenti. Tuttavia, non è detto che sia necessario o auspicabile: l’acquisto di terreni non necessariamente rende immuni dal rischio-paese (sovereign risk) e può provocare conflitti sociali, politici ed economici. Anche altre forme di investimento, come i contratti di coltivazione (contract farming), potrebbero ugualmente consentire la sicurezza degli approvvigionamenti.
Alcuni paesi in via di sviluppo stanno cercando investimenti esteri per sfruttare il surplus di terra attualmente inutilizzata o sottoutilizzata. Una ragione per cui la terra non può essere utilizzata per le sue complessive potenzialità è che gli investimenti infrastrutturali necessari per renderla produttiva sono così sostanziosi da essere al di là delle disponibilità di bilancio del paese. Gli investimenti internazionali potrebbero rivolgersi alle infrastrutture, di cui si ha molto più bisogno e da cui tutti possono trarre beneficio. Tuttavia, la vendita, il leasing o l’accesso agevolato alla terra sollevano la questione di come la terra oggetto di interesse sia stata precedentemente utilizzata, da chi e in quale forma. In molti casi, la situazione non è chiara per via di diritti di proprietà mal definiti, diritti sulla terra informali, basati sulla tradizione e sulla cultura. Il soggetto che realmente vanta diritti di possesso sulla terra, in Africa, varia da paese a paese: in alcuni casi, come per l’Etiopia, la terra è di proprietà dello Stato, mentre in altri casi può essere di proprietà delle comunità locali o del “consiglio” del villaggio.
Se il terreno dell’Africa Sub-Sahariana può attualmente non essere sfruttato interamente per il suo potenziale, o la costatazione del fatto che vi sia a livello globale un sovrappiù di terra, non significa che questa sia attualmente inutilizzata o non occupata. La possibilità di sfruttarla attraverso le nuove forme di investimento comporta la necessità di conciliare diverse rivendicazioni. Il cambio d’uso e di accesso può comportare effetti potenzialmente negativi sulla sicurezza alimentare, nonché sollevare complesse questioni economiche, sociali e culturali. Questi problemi, insieme con le questioni legate al diritto al risarcimento, sono estremamente difficili da risolvere, soprattutto in assenza di espliciti diritti sulla terra (Cotula et al., 2009). Simili difficoltà richiedono che vi sia almeno una consultazione con coloro che avanzano per tradizione diritti sulla terra, e possono favorire soluzioni alternative per gli investimenti che prevedono esplicitamente il coinvolgimento locale.
Alternative all’acquisizione di terra
Come osservato in precedenza, gli investimenti esteri che comportano l’acquisto di terreni rappresentano una questione controversa e contengono una serie di rischi. Altre forme di investimento come le joint venture o le coltivazioni a contratto di varia forma (contract farming, out-grower schemes) possono in linea di principio allo stesso modo rappresentare uno strumento, per gli investitori, per garantire la sicurezza degli approvvigionamenti. È interessante notare che, in altri contesti, il coordinamento verticale tende a basarsi molto più su accordi tra i diversi attori nella filiera che sull’acquisizione di attività o imprese a monte o a valle. Il coinvolgimento delle catene di supermercati europei nello sviluppo della produzione orticola dell’Africa orientale per l’esportazione rappresenta un caso emblematico. Simili accordi poco stringenti possono andare maggiormente incontro agli interessi del paese accogliente, offrendo prestazioni più accessibili ai piccoli agricoltori e alle loro associazioni. Tuttavia, anche qui è possibile che sorgano problemi in relazione alla compatibilità tra i volumi e le qualità richieste dagli investitori e le possibilità offerte da un’agricoltura di piccoli proprietari dispersi sul territorio. Quando per esigenze delle imprese acquirenti è necessario incrementare la dimensione e la concentrazione dei fornitori, è possibile che si creino difficoltà sotto il profilo della lotta alla povertà. Tuttavia, forme di joint venture tra investitori stranieri e produttori locali (o loro associazioni come partner) potrebbero offrire più ricadute positive sul paese ospitante. Nell’ambito delle varie forme di coltivazione a contratto o di accordi interprofessionali, i piccoli proprietari terrieri possono ricevere anche altri input per loro necessari, quali credito, consulenza tecnica e un mercato garantito a un prezzo fisso, anche se a costo di una certa libertà di scelta sulle coltivazioni da effettuare.
È possibile ricorrere anche a modelli misti con gli investimenti esteri concentrati in grandi imprese orientate alla produzione base, ma che coinvolgano contrattualmente gli agricoltori indipendenti nell’ambito di contratti finalizzati ad arricchire e completare la produzione di base. Alcuni governi si sono mostrati attivi nel promuovere la partecipazione estera in tali imprese, come nel settore dello zucchero della Tanzania o con il cosiddetto Farm Blocks nello Zambia. Quale modello di business sia più appropriato dipende dalle circostanze specifiche e dal prodotto in questione. Laddove le economie di scala sono importanti o sono necessari investimenti nelle infrastrutture, gli investitori possono favorire le acquisizioni dei terreni e l’agricoltura commerciale su larga scala. Nei casi in cui queste considerazioni non siano significative, possono essere più accettabili le forme di coltivazione a contratto e gli accordi interprofessionali che coinvolgano i piccoli proprietari.
Quali sono i benefici in termini di sviluppo derivanti dagli investimenti esteri?
L’aspetto chiave della discussione è quanto in realtà i benefici derivanti da investimenti esteri riescano a diffondersi nel settore agricolo domestico realizzando una relazione sinergica e catalizzatrice che includa i piccoli produttori con i loro sistemi di produzione tradizionali e altri attori della catena del valore quali i fornitori di fattori di produzione. Perché ciò si verifichi, è necessario che il settore agricolo nazionale abbia una certa capacità di assorbimento. Benefici dovrebbero sorgere in termini di afflusso di capitali, trasferimento di tecnologia per l’innovazione e per l’incremento della produttività, potenziamento della produzione interna, miglioramento della qualità, creazione di occupazione, collegamenti tra i processi a monte e a valle. Effetti moltiplicativi potrebbero registrarsi sul mercato locale del lavoro e su quelli di altri input fattori di produzione, nonché nella trasformazione dei prodotti ed, eventualmente, nell’aumento dell’offerta locale di beni alimentari per il mercato interno e per l’esportazione.
Tali benefici non si manifestano, tuttavia, se l’investimento si limita unicamente alla creazione di un’enclave di agricoltura avanzata in un sistema dualistico che presenta ancora un’agricoltura tradizionale fatta di piccoli proprietari non in grado di emulare e riprodurre lo stesso modello. Le condizioni necessarie perché si realizzino ricadute positive possono spesso mancare, e in questo caso si renderebbero necessari interventi di policy perché vengano create.
Mentre le informazioni sui recenti investimenti internazionali sono scarse, non mancano conoscenze e studi circa gli investimenti esteri diretti (IED) nel settore agricolo. Nonostante le particolari dimensioni economiche e politiche delle acquisizioni di terra, l’esperienza degli investimenti esteri diretti in generale può fornire alcune indicazioni non solo sui possibili benefici e sulle insidie, ma anche sui pro e i contro delle diverse forme possibili di investimento (Cuffaro, 2009). Come osservato in precedenza, alcune delle caratteristiche dell’attuale crescita degli investimenti, soprattutto nel fattore terra, sono in contrasto con le tendenze degli investimenti esteri diretti di carattere tradizionali, dal momento che questi ultimi tendono piuttosto a favorire gli accordi contrattuali piuttosto che l’effettiva acquisizione degli asset più importanti.
L’evidenza storica circa gli effetti degli investimenti esteri diretti in agricoltura suggerisce che i benefici dichiarati non sempre si concretizzano, e mostra con preoccupazione come: tendano ad essere favorite tecnologie di produzione altamente meccanizzate ma con effetti limitati di creazione di occupazione; si crei dipendenza dai fattori produttivi importati e quindi limitati effetti moltiplicativi sul mercato interno; si registrino impatti ambientali negativi a causa delle pratiche di produzione adottate con effetti quali la contaminazione chimica, il degrado del suolo e l’impoverimento delle risorse idriche; si osservino comportamenti irrispettosi dei diritti dei lavoratori e cattive condizioni di lavoro. Allo stesso tempo, vi è però anche prova di benefici di più lungo periodo in termini, ad esempio, di miglioramento tecnologico, potenziamento dei fornitori locali, migliore qualità di prodotti e del rispetto delle norme sanitarie e fitosanitarie. Nel considerare gli effetti benefici o meno degli investimenti diretti esteri nel settore agricolo è quindi importante adottare una prospettiva dinamica.
Ulteriori questioni politiche ed etiche emergono quando il paese ricevente è in regime di insicurezza alimentare. Sebbene si ritenga da più parti che gli investimenti comporteranno un aumento dell’offerta di beni alimentari a livello globale, questo non implica che la disponibilità degli stessi beni aumenti anche nel mercato interno, soprattutto se l’intenzione è che il cibo prodotto sia esportato verso il paese che investe. I beni prodotti potrebbero anche diminuire nel momento in cui risorse, quali terra e acqua, vengano dirottate dal progetto di investimento internazionale a scapito dei piccoli coltivatori o laddove gli investimenti stranieri aumentino il valore dei terreni.
Un ampio controllo del territorio da parte di altri paesi può anche sollevare questioni di interferenza e di influenza politica.
Opzioni politiche e considerazioni
Gli investimenti internazionali dovrebbero portare benefici per lo sviluppo del paese di destinazione, in termini di trasferimento di tecnologia, creazione di occupazione, collegamenti a monte e a valle e così via. In questo modo, questi investimenti possono essere di tipo win-win, recando vantaggi a tutti, piuttosto che di neo-colonialismo. Tuttavia, questi benefici non sono automatici: occorre fare attenzione sia nella fase di formulazione dei contratti di investimento, sia nella scelta di modelli di business adeguati; occorre che siano messi in atto appropriati quadri legislativi e politici perché si possa garantire che si ottengano effettivi benefici in termini di sviluppo e si riducano al minimo i rischi. È comunque molto debole l’informazione di base necessaria per la progettazione e l’attuazione di politiche efficaci e di una legislazione adeguata. Vi è quindi l’urgente necessità di monitorare la portata, la natura e gli impatti degli investimenti internazionali e di catalogare le migliori pratiche di diritto e di policy per informare meglio sia i paesi ospitanti, sia gli investitori.
Un’analisi di impatto dettagliata è necessaria per valutare quali politiche e quale legislazione, sia nazionale che internazionale, siano necessarie e quali misure specifiche sia più appropriato adottare. Se gli investimenti diretti esteri svolgono un ruolo efficace nel colmare il gap di investimenti che connota l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo, vi è la necessità di conciliare gli obiettivi di investimento degli investitori con le esigenze di investimento dei paesi in via di sviluppo. Occorre identificare le priorità di investimento nell’ambito di una strategia globale e coerente, nonché devono essere compiuti sforzi al fine di individuare le misure più efficaci per incoraggiare il matching tra gli obiettivi di chi apporta il capitale, le opportunità e i bisogni.
L’onere di attrarre investimenti laddove sono maggiori le esigenze strategiche e di garantire che tali esigenze siano soddisfatte spetta in primo luogo ai paesi di accoglienza. Al di là dei termini e delle condizioni finanziarie degli investimenti, occorre tener conto, fra l’altro, delle fonti locali di input tra cui il lavoro, degli standard sociali e ambientali, dei diritti di proprietà e del coinvolgimento delle parti interessate, della coerenza con le strategie di sicurezza alimentare, della distribuzione degli alimenti prodotti tra esportazioni e mercati locali, e della distribuzione dei redditi. Tali questioni potrebbero costituire l’oggetto di un contratto di investimento tra l’investitore e il governo del paese ospitante, anche se i contratti di investimento, in pratica, tendono ad essere piuttosto di breve durata e non specifici per tali questioni. Ovviamente, se gli investimenti si realizzano in forma di joint venture, includendo i governi ospitanti come partner, gli interessi locali possono essere meglio tutelati, sempre a condizione che il governo li riconosca.
Il contratto di investimento è uno degli elementi del quadro giuridico che riguarda gli investimenti internazionali. Il diritto interno e gli accordi di investimento internazionali forniscono il quadro giuridico per i contratti di investimento, con questi ultimi che in genere prevalgono sul primo. Un contratto di investimento può anche bypassare il diritto interno, in particolare quando, come in molti casi, quest’ultimo non è completo o chiaro per ciò che concerne la difesa degli interessi delle parti interessate locali. In generale, il quadro giuridico tende a favorire l’investitore piuttosto che il paese ospitante, e in particolare a favorire i diritti degli investitori rispetto a quelli dei soggetti locali interessati. Ciò sottolinea l’importanza di dotarsi di tipologie di contratto di investimento che tengano conto delle preoccupazioni del paese ospitante. È quindi essenziale che vi sia un chiaro e completo sistema di diritto interno (Smaller e Mann, 2009).
Al di là della politica e dei quadri giuridici per ridurre al minimo rischi e massimizzare i benefici, una serie di misure di policy è a disposizione per i paesi ospitanti per tentare di attirare gli investimenti internazionali e orientarli verso le aree prioritarie a sostegno della loro sicurezza alimentare e delle strategie di riduzione della povertà. Fornire informazioni circa le esigenze di investimento e le priorità può portare all’attenzione degli investitori stranieri talune opportunità di investimento, nonché incentivi quali gli sgravi fiscali o le iniziative di finanziamento locali possono aiutare a focalizzare i bisogni di investimento nei settori prioritari.
I paesi che investono possono usare misure analoghe per incoraggiare gli investimenti all’estero.
I paesi di accoglienza possono inoltre creare un clima più favorevole agli investimenti, attraverso politiche che riducano i costi delle transazioni e i rischi degli investitori. Molti paesi in via di sviluppo hanno introdotto negli ultimi anni ampie riforme politiche in questo senso, liberalizzando le condizioni di ingresso e creando istituzioni che promuovano gli investimenti interni. Molti hanno firmato accordi di investimento internazionale, anche se, come detto sopra, gli impegni che questi possono comportare hanno bisogno di essere equilibrati nel diritto interno. Alcuni partecipano a trattati bilaterali e ad altri accordi e convenzioni internazionali per l’esecuzione dei contratti, l’arbitrato e la risoluzione delle controversie, come la Multilateral Investment Guarantee Agency. Alcuni paesi - Ghana, Mozambico, Senegal e Tanzania, per esempio - hanno cercato di attirare e facilitare investimenti interni attraverso l’istituzione di organismi di investimento e altri enti che forniscono servizi da agenzia per lo sviluppo, per attrarre investimenti e orientare gli investitori attraverso le varie procedure burocratiche.
Nel caso della Tanzania, il Centro investimenti della Tanzania non solo agevola gli investimenti esteri, ma individua e gestisce anche i terreni su cui investire. Tuttavia, la frequente mancanza di chiari diritti di proprietà, in particolare per quanto concerne la terra, rimane la preoccupazione principale di alcuni investitori internazionali.
Alla mancanza di infrastrutture adeguate, che può costituire anche un deterrente per alcuni investitori, si può porre rimedio con uno sviluppo delle infrastrutture pubbliche: il piano di sviluppo Zambia Farm Block, ad esempio, prevede investimenti pubblici in infrastrutture di base, come le strade. Anche altri investitori stranieri possono vedere la fornitura di infrastrutture come una componente necessaria e integrante dei loro investimenti.
La politica, in una varietà di altre aree al di là di quella specificatamente rivolta all’investimento, è rilevante anche nel regolare gli investimenti internazionali. La politica commerciale è coinvolta nel momento in cui gli investitori intendano esportare i beni alimentari prodotti nei loro paesi di origine, in quanto questo può risultare in conflitto con il diritto del paese ospitante, conformemente alle norme del WTO, di imporre controlli sulle esportazioni in tempi di crisi alimentare nazionale. Alcuni paesi ospitanti sembrano aver dato disponibilità a rinunciare ai loro diritti in base alle norme del WTO, e hanno convenuto di non imporre controlli sulle esportazioni, anche in caso di crisi alimentare. I contratti di investimento bilaterali, più in generale, possono bypassare le norme del WTO entrando così in conflitto con gli impegni assunti nel quadro degli accordi commerciali regionali. La coerenza con l’accordo sulle misure relative agli investimenti che incidono sugli scambi commerciali (Agreement on Trade-related Investment Measures, TRIMS) può essere un problema nel momento in cui si offrono incentivi agli investimenti.
Non importa quanto successo i paesi in via di sviluppo abbiano nell’attrarre gli investimenti esteri, non vi sarà per loro nessun impatto positivo sullo sviluppo se i loro settori agricoli non sono in grado di capitalizzare gli effetti di ricaduta (spillover) derivanti da tali investimenti. Appropriate misure interne di politica di sviluppo agricolo e rurale sono necessarie per garantire che l’agricoltura locale possa trarre beneficio dalle nuove tecnologie e affinché l’economia locale sia in grado di rispondere alle nuove richieste di input e servizi. La politica, nei confronti degli investimenti esteri, deve essere parte integrante delle strategie globali di sviluppo agricolo e rurale.
C'è necessità di un codice di condotta internazionale?
Le recenti acquisizioni di terra, avvenute su larga scala, da parte degli investitori stranieri hanno attratto l’interesse internazionale e i rischi percepiti legati a tali investimenti sono tali che si è sollevata la necessità di un codice internazionale di condotta di regolamentazione. In assenza di una forte legislazione nazionale e di contratti di investimento equi, tale codice potrebbe mettere in evidenza gli interessi del paese ospitante, ma potrebbe anche essere visto come una guida per gli investitori per investimenti socialmente responsabili. Sembra pertanto avere un ampio sostegno pubblico la proposta di definire un codice volontario di condotta internazionale o delle linee guida che rispondano all’esigenza di trasparenza, sostenibilità, coinvolgimento degli attori locali e riconoscimento dei loro interessi, sottolineando le preoccupazioni per la sicurezza alimentare interna e lo sviluppo rurale.
La FAO, insieme con la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) e la Banca mondiale, sta mettendo a punto un codice. Un codice di condotta volontario o delle linee guida basate su ricerche specifiche relative alla natura, la portata e l’impatto degli investimenti esteri e le migliori pratiche di diritto e di policy potrebbero sfruttare le lezioni apprese e fornire un quadro al quale potrebbero riferirsi la normativa nazionale, gli accordi internazionali di investimento, le iniziative di responsabilità sociale delle istituzioni finanziarie internazionali e i contratti individuali di investimento.
Il set-base di principi guida per un investimento agricolo responsabile, che rispetti i diritti, i mezzi di sussistenza e le risorse, proposto dalle quattro organizzazioni e da tradursi in un codice di condotta o linee guida comprenderebbe i seguenti punti:
- rispetto dei diritti legati alla terra e alle risorse: gli attuali diritti sulla terra e sulle risorse naturali vanno riconosciuti e rispettati;
- sicurezza alimentare e lo sviluppo rurale: gli investimenti non mettano a repentaglio la sicurezza alimentare e lo sviluppo rurale, piuttosto li rafforzino;
- trasparenza, il buon governo e il rispetto dell’ambiente: i processi relativi agli investimenti in agricoltura siano trasparenti, controllati, e garantiscano il rispetto delle regole da parte di tutte le parti coinvolte;
- consultazione e la partecipazione: siano consultati tutti coloro che risultano effettivamente interessati, e gli accordi derivanti dalle consultazioni siano registrati ed eseguiti;
- redditività economica e investimenti responsabili in agricoltura: i progetti siano sostenibili economicamente, rispettino il diritto, riflettano le migliori prassi del settore, e risultino in beni durevoli di valore condiviso;
- sostenibilità sociale: gli investimenti generino auspicabili impatti sociali e distributivi e non aumentino la vulnerabilità;
- sostenibilità ambientale: gli impatti ambientali siano quantificati e siano adottate misure per favorire l’uso sostenibile delle risorse, riducendo al minimo e mitigando gli impatti negativi.
Tuttavia, mentre sembra che vi sia ampio sostegno per un codice che divulghi tali principi, un accordo su come renderli operativi e attuarli può risultare più difficile da raggiungere.
Un codice di condotta internazionale rigorosamente esecutivo e che incorpori questi principi rischia di essere problematico.
Lo sviluppo di un codice di condotta volontario richiederebbe un’ampia consultazione di tutte le parti interessate, compresi i governi, le organizzazioni degli agricoltori, le ONG, il settore privato e, più in generale, la società civile. Tale processo di consultazione è inevitabilmente lungo, ma senza una consultazione globale, esauriente ed efficace e senza proposte è improbabile che un codice di condotta praticabile possa essere definito. Tuttavia, l’esperienza dimostra che il processo di elaborazione di un codice di sviluppo o di linee guida può essere vantaggioso in termini di promozione di comportamenti più responsabili degli investimenti.
Riferimenti bibliografici
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