Istituto Nazionale di Economia Agraria |
Introduzione1
Con le decisioni di settembre 2013, che seguono la chiusura dell’accordo politico di giugno dello stesso anno, la riforma della Politica agricola comune (Pac) per il 2014-2020 è giunta alla sua completa definizione.
Numerose sono le novità della riforma, dallo spacchettamento degli aiuti al greening, dalla regionalizzazione dei pagamenti diretti alla definizione di agricoltore attivo2, alla revisione della politica di sviluppo rurale e ai suoi rapporti con i Fondi strutturali. Si tratta di argomenti che hanno alimentato all’interno delle istituzioni un acceso dibattito (a titolo di esempio si possono citare i 2.292 emendamenti presentati in Commissione agricoltura del Parlamento europeo alla proposta di regolamento sui pagamenti diretti), degli Stati membri e del mondo accademico (Anania, 2013 e 2012, Bureau e Witzke, 2010, Buckwell, 2011, De Filippis e Sandali, 2013, Tangermann, 2011, Capreform.eu), che ne ha in parte modificato l’impianto originario. Al di là del giudizio finale sui testi dell’accordo, la vera sfida posta dalla riforma è il nuovo ruolo assegnato agli Stati membri. Da un lato si assiste allo scemare del peso delle misure classiche di intervento sui mercati agricoli, vale a dire ritiro del prodotto e restituzioni alle esportazioni, che per loro natura necessitavano di una politica comune forte3; dall’altro cresce il peso dei pagamenti diretti, che oggi rappresentano il 92% della spesa agricola del Feaga. Tutto questo, assieme al riconoscimento delle “agricolture” dell’Unione europea allargata a 28 membri, ha comportato una modifica sostanziale della governance delle politiche a sostegno dell’agricoltura. L’impianto della Pac fornisce gli strumenti per rispondere alle diverse esigenze dell’agricoltura europea in tema di sostenibilità e competitività, mentre viene lasciato a ciascun paese il compito di individuare gli strumenti più confacenti ai propri fabbisogni e di modularne l’intensità.
Nonostante la flessibilità accordata agli Stati membri, la riforma su alcune questioni stabilisce delle direzioni, che rappresentano dei punti di non ritorno. Uno di questi riguarda la regionalizzazione dei pagamenti diretti, introdotta in forma volontaria già nella riforma Fischler del 2003 e che ora, a dieci anni di distanza, diventa obbligatoria. In pratica, gli Stati membri dovranno abbandonare il criterio storico di calcolo del valore dei titoli del regime di pagamento unico (che rispecchia il valore medio dei pagamenti diretti ricevuti da ciascun agricoltore in un determinato periodo di riferimento) in favore di un criterio forfetario teso a rendere più uniforme il valore dei titoli a ettaro in uno Stato membro/regione.
Proprio per il suo effetto redistributivo degli aiuti tra territori, settori produttivi e agricoltori la regionalizzazione è uno dei temi critici su cui, all’indomani dell’approvazione della riforma, le regioni italiane stanno ponendo maggiore attenzione.
In questo articolo ci si propone di presentare la regionalizzazione, così come è stata disegnata dall’accordo politico, guardando ai suoi effetti in relazione alle decisioni circa gli altri pezzi della riforma. Successivamente vengono brevemente illustrate le implicazioni delle diverse opzioni di regionalizzazione a disposizione dell’Italia e vengono proposte delle “regioni alternative” a quelle amministrative, su cui il dibattito si è finora concentrato, con l’obiettivo di mettere in evidenza come l’identificazione a priori di chiari obiettivi di politica agraria potrebbe aiutare a trovare una posizione condivisa nella difficile composizione degli interessi locali.
La regionalizzazione nell’accordo di giugno 2013
La regionalizzazione rappresenta lo strumento attraverso il quale rendere gli aiuti diretti della Pac più omogenei in uno Stato membro o regione. L’obiettivo iniziale era quello di giungere, al più tardi entro il 2019, ad un aiuto forfetario su tutto il territorio di ciascun Stato membro o su regioni omogenee all’interno dello Stato membro. L’accordo politico raggiunto tra Presidenza del Consiglio UE, Commissione Agricoltura del Parlamento europeo e Commissione europea (il “trilogo”) ha definito i confini entro i quali la regionalizzazione dovrà muoversi.
A seguito delle pressioni dei paesi nei quali maggiori sarebbero stati gli effetti redistributivi della regionalizzazione (tra questi l’Irlanda, sotto la cui presidenza è stato raggiunto l’accordo) è stata inserita una deroga in base alla quale i paesi che attualmente applicano il regime di pagamento unico secondo un criterio storico possono muoversi verso valori di aiuto più uniformi, senza necessariamente raggiungere il pieno livellamento al 2019.
In sostanza, la riforma prevede tre possibili soluzioni (a) il raggiungimento di un aiuto flat al 2015, il primo anno di applicazione della riforma; (b) il raggiungimento di un aiuto flat nel 2019, verso cui ciascuno Stato (o regione) dovrà convergere con tempi e modalità da definire internamente; (c) il movimento, entro il 2019, verso un aiuto più omogeneo, ma non uniforme. Anche in quest’ultimo caso tempi e modalità saranno scelti dallo Stato membro, sebbene la riforma detti alcuni punti imprescindibili. Nelle prime due soluzioni, non cambia il punto di arrivo – l’aiuto forfetario al 2019 – ma come ci si arriva, se già dal primo anno o gradualmente, diluendo gli effetti redistributivi in un arco temporale; nel terzo caso, invece, il punto di arrivo non sarà univoco ma dipenderà dalla personale posizione di ciascun agricoltore e anche dalla scelta del numero di regioni omogenee all’interno dello Stato membro. Infatti, l’unico obbligo per gli Stati membri, in questa terza soluzione, è quello di fare in modo che, al 2019, nessun titolo abbia un valore unitario più basso del 60% del valore medio nazionale o regionale.
Vale la pena a questo punto ricordare che la regionalizzazione riguarda solo il pagamento di base, vale a dire ciò che resta del massimale nazionale dopo che sono state prese le decisioni sull’attivazione e il livello e di finanziamento degli altri aiuti. Questo particolare ha importanti implicazioni sulla valutazione degli effetti della regionalizzazione. Infatti, se è vero che essa può avere effetti redistributivi importanti che, per talune realtà, possono essere definiti addirittura drammatici, è altrettanto vero che quanto più un Paese decide di “diversificare” gli aiuti, applicando tutte le opzioni a disposizione, e quanto più alto è il massimale dedicato a ciascuno di essi, tanto meno importanti saranno gli effetti redistributivi della regionalizzazione. E questo perché ciò che andrà ripartito uniformemente (o in modo più omogeneo) su tutta la superficie ammissibile dello Stato membro/regione sarà una quota minoritaria del massimale nazionale (al limite il 18%4). La regionalizzazione, quindi, continuerà ad esplicare i suoi effetti redistributivi, ma gli importi coinvolti saranno di gran lunga meno rilevanti rispetto al caso in cui venga redistribuito tutto il massimale nazionale.
Il dibattito in Italia ruota attorno alla possibilità che la regionalizzazione sia fatta sulla base delle Regioni amministrative. Si può quindi guardare la regionalizzazione da più punti di vista, da quello per così dire “politico”, da quello di tenuta interna alle regioni e da quello del singolo agricoltore.
Il punto di vista “politico” richiama all’individuazione della chiave di distribuzione del massimale nazionale tra regioni, nel tentativo, di alcune, di limitare le perdite (si tratta delle regioni che sulla base dell’attuale Pac sono quelle maggiormente sostenute) e, di altre, di approfittare dell’occasione per ribaltare una posizione di inferiorità, in termini di aiuti ricevuti, dettati dalle loro particolari condizioni pedoclimatiche e produttive.
Lo “scontro” sui massimali regionali, oscura, in realtà, un problema ben più grave, che è quello della redistribuzione interna conseguente alla regionalizzazione. Indipendentemente da quale sia il massimale regionale e anche nell’ipotesi in cui una regione riuscisse a mantenere il proprio massimale regionale (o anche ad aumentarlo) questo non garantisce lo status quo distributivo interno. La regionalizzazione, infatti, avvia un processo di redistribuzione interna che è tanto più profondo quanto maggiore è la variabilità degli aiuti attorno alla media e quanto maggiore è la superficie oggi non coperta dagli aiuti che parteciperà alla futura redistribuzione. Nell’ambito di ciascuna regione amministrativa verrà calcolato un aiuto medio verso cui convergeranno tutti i titoli della regione, indipendentemente da considerazioni economiche, di impatto ambientale e sociale (si pensi alle opportunità di lavoro offerte da alcune colture per la popolazione locale) di ciascuna produzione. Un aiuto indifferenziato all’interno della regione potrebbe mettere a rischio il sistema produttivo regionale, ove questo fosse particolarmente dipendente dagli aiuti della Pac.
Uno strumento per attenuare il processo di redistribuzione interna è dato dalla possibilità di avvicinarsi al pagamento flat senza raggiungerlo (la terza soluzione prospettata all’inizio di questo paragrafo). Questo consentirebbe di mantenere una certa differenziazione degli aiuti all’interno di una singola regione facendo sì che i titoli di più elevato valore unitario continuino a presentare un valore più alto della media anche alla fine del settennio (sebbene con importi in diminuzione) e quelli di valore unitario più basso si avvicinino alla media, senza raggiungerla, alla stessa stregua di quanto avviene per la cosiddetta “convergenza esterna”, cioè il processo di riequilibrio della distribuzione degli aiuti tra Stati membri.
Scelte quali il calcolo del pagamento verde come percentuale del pagamento base (più è alto il pagamento base e più è alto il pagamento verde5) o l’applicazione della clausola che fissa al 30% la perdita massima che ciascun agricoltore può subire rispetto al valore iniziale dei propri titoli, sono ulteriori strategie che potrebbero rendere più soft il passaggio alla regionalizzazione per ciascun singolo agricoltore.
Quello che risulta evidente da quanto fin qui esposto, tuttavia, è che una trattativa tra le regioni basata sul semplice confronto numerico di guadagni e perdite, a cui ciascuna di esse andrebbe incontro a seguito della regionalizzazione, rischia di essere di difficile soluzione oltre che dannoso per il sistema agricolo italiano (Tabella 1).
La flessibilità demandata agli Stati membri dall’accordo richiede di guardare alla riforma nella sua interezza e non a singoli strumenti o pilastri e richiede la formulazione di chiari obiettivi di politica agraria, che possono anche essere declinati a livello locale, ma che tengano conto dell’orizzonte verso cui ci si sta muovendo, fatto di risorse sempre più scarse e di aiuti sempre più finalizzati al raggiungimento di determinati obiettivi.
Tabella 1 - Criteri alternativi di distribuzione del pagamento di base tra Regioni amministrative (peso %)
Fonte: elaborazioni Inea su dati Agea, Istat, Infc, Mipaaf, Ministero dell’Ambiente, Eurostat
Un’altra regionalizzazione è possibile?
Qui di seguito vengono proposti alcuni scenari alternativi di regionalizzazione, che rappresentano alcuni esempi di “regioni omogenee” costruite tenendo presente i criteri oggettivi previsti dall’art. 20 del futuro regolamento sui pagamenti diretti, vale a dire le caratteristiche agronomiche ed economiche e il potenziale agricolo dei territori. Per una più puntuale descrizione della costruzione delle cartografie relative agli scenari presentati si rimanda all’appendice metodologica.
Un primo scenario, definito “Soil regions”, guarda alle caratteristiche pedologiche, geomorfologiche e climatiche di ciascuna regione a cui è stata associata una coltura prevalente. Inoltre, per ciascuna regione è stata sovrapposta una carta di densità della zootecnia bovina ed ovina. Questa mappatura consente di individuare quattro regioni sulla base della vocazione produttiva territoriale determinata dalle condizioni strutturali e ambientali di ciascuna di esse: Pianura e bassa Collina - Seminativi; Colline - Vigneti-arboree; Alpi e montagne dell’Etna e della Sardegna - Prati/pascoli; Appennini Misto prati/arboree (Figura 1). In un’ottica di regionalizzazione a ciascuna di queste regioni potrebbe essere associato un aiuto la cui intensità dipende dall’obiettivo redistributivo insito nella regionalizzazione stessa. Se l’obiettivo fosse quello di ridurre lo spostamento di risorse dalle aree più ricche (pianura e bassa collina) verso le zone montane l’aiuto andrebbe modulato in modo da favorire le prime rispetto alle seconde. L’aiuto facoltativo in favore delle aree con svantaggi specifici potrebbe essere utilizzato per integrare l’aiuto nelle zone montane con una dotazione ad hoc indirizzata a specifiche zone particolarmente bisognose. Al contrario, un tale scenario potrebbe essere utilizzato per riequilibrare le risorse finanziarie tra le aree, spostando il sostegno dalle zone più ricche verso quelle dove maggiore è il rischio di spopolamento e di erosione delle risorse naturali. In tal caso, l’aiuto accoppiato potrebbe essere utilizzato nelle aree e nei settori dove la riduzione dell’aiuto potrebbe avere effetti negativi consistenti sull’economia locale e sul sistema produttivo nazionale.
Lo stesso discorso può essere fatto per il secondo scenario, denominato “Zone altimetriche”, che guarda alle condizioni agronomiche e stratifica il territorio nelle 5 fasce altimetriche classiche: montagna interna, montagna litoranea, collina interna, collina litoranea e pianura (Figura 2).
Il terzo scenario, definito “Grado di sostegno”, fa riferimento alla specializzazione produttiva dei suoli tratta dal censimento del 2000 come proxy del grado di sostegno associato a ciascuna coltura/produzione zootecnica all’epoca del passaggio al disaccoppiamento. Le regioni in questo caso sono tre e identificano tre diverse intensità di sostegno: Alto, Medio, Basso. In quest’ultima classe ricadono quelle che in passato non hanno mai goduto del sostegno o di un sostegno molto basso (ad esempio, orticole, frutteti, vite, erba medica), nella prima ricadono le colture e la zootecnia più sostenute in passato (ad esempio olivo, agrumi, pomodoro da industria, bovini), mentre nella classe intermedia ricadono, ad esempio, i cereali diversi dal grano duro e le oleo-proteaginose (Figura 3). Anche in questo caso la cartina mette in luce le differenze tra le aree che potrebbero essere utilizzate per modulare l’aiuto in maniera da mantenere lo status quo distributivo o pervenire a un riequilibrio della distribuzione classica. Ancora una volta gli aiuti facoltativi potrebbero essere usati come strumenti compensativi per le aree maggiormente penalizzate.
I tre scenari rappresentano, dunque, tre diversi modi di guardare al problema redistributivo che pone la regionalizzazione. Essi permettono di superare l’aspetto puramente aritmetico del calcolo dei massimali regionali e di puntare l’attenzione sui diversi tipi di territorio e di agricoltura che si vogliono sostenere attraverso il “governo” della redistribuzione dell’aiuto che da alcune aree confluirà verso altre aree, secondo un preciso disegno politico. Essi, inoltre, permettono di superare l’aiuto indifferenziato (o tendente a esso) che verrebbe a formarsi in ciascuna regione a seguito della regionalizzazione di tipo amministrativo. Con questo tipo di regionalizzazione, infatti, ogni regione amministrativa avrà al proprio interno più regioni omogenee con aiuti differenziati a seconda degli obiettivi che ci si prefissa con la regionalizzazione.
Figura 1 - Scenario di regionalizzazione “Soil regions”
Figura 2 - Scenario di regionalizzazione “Zone altimetriche”
Figura 3 - Scenario di regionalizzazione “Grado di sostegno”
Un effetto di questo tipo di regionalizzazione è che avendo come riferimento i Comuni (l’unità territoriale amministrativa più piccola ipotizzabile) ci sarà redistribuzione tra gli agricoltori che ricadono in un Comune ma che non ne rispecchiano il dato medio. Si tratta di un rischio insito in qualsiasi tipo di regionalizzazione e che è ancora più alto nel caso di regioni basate sulle Regioni amministrative o di Italia “regione unica”, poiché aumenta la variabilità attorno al dato medio.
Anche nel caso di questi scenari si ripropone il problema della redistribuzione interna alla regione; ma proprio per come sono costruiti (o per come dovrebbero essere costruiti), l’impatto redistributivo dovrebbe essere attenuato dal fatto che con la regionalizzazione teoricamente si è cercato di aggregare territori con caratteristiche simili. Tuttavia, quand’anche così non fosse, la redistribuzione, sia tra regioni che all’interno di ciascuna regione, non è lasciata al caso ma risponde a precisa finalità distributive. Inoltre, anche in questo caso è utilizzabile lo strumento della convergenza e tutti gli altri accorgimenti visti più sopra per rendere meno drammatico l’impatto della regionalizzazione.
Considerazioni conclusive
La riforma della Pac per il prossimo settennio di programmazione presenta numerose novità tra le quali un posto di rilievo, per gli effetti che potrà avere in Italia, è occupato dalla regionalizzazione. Il dibattito sembra essere concentrato sugli effetti dell’applicazione di questo strumento, dimenticando che esso è solo una delle novità della riforma e che, in determinate circostanze, il suo impatto potrebbe essere sovrastimato.
La futura Pac dà agli Stati membri l’opportunità, senza precedenti, di definire le politiche migliori per il proprio territorio scegliendo nella cassetta degli attrezzi gli strumenti più adatti a perseguire gli obiettivi prefissi. Definire obiettivi chiari e perseguibili permette di scegliere la regionalizzazione più adatta e di utilizzare gli altri pezzi della riforma, comprese le politiche di sviluppo rurale, al fine di integrare gli aiuti diretti o compensare le aree più penalizzate.
Gli scenari alternativi di regionalizzazione qui presentati non hanno la pretesa di essere esaustivi, né di essere i migliori possibili. La loro funzione è puramente esemplificativa e tesa a dimostrare che un’altra regionalizzazione è possibile e che essa è funzionale agli obiettivi che con essa si vogliono raggiungere. Va, tuttavia, ricordato, che quanto più si sceglie un criterio “complesso” di regionalizzazione, tanto più ci si aspetta una volontà ed una capacità amministrativa per impostare, seguire e monitorare nel tempo il risultato, senza le quali il processo rischia di generare conflitti tra attori, territori e amministrazioni locali.
Appendice metodologica
Il lavoro si è avvalso della realizzazione di diverse cartografie del territorio nazionale, a scala comunale, sulla base delle quali è stato possibile definire lo stato attuale della situazione agricola e/o ambientale al fine di utilizzare gli elaborati come strumenti di governance per “guidare” le scelte delle politiche agricole sulla regionalizzazione e l’impatto sul territorio.
Tramite l’elaborazione con strumenti Gis (Geographic Information System) si è pervenuti alla realizzazione di carte che permettessero una facile lettura della situazione agro-ambientale del territorio nazionale. Il Gis è uno strumento di elaborazione dei dati territoriali, un insieme organizzato di strumenti per la raccolta, modifica, analisi e restituzione di dati spazialmente riferiti. Esso dà la possibilità di riunire un insieme di dati, di diversa natura (agro-ambientali, economici, sociali...) i quali, analizzati separatamente, non consentirebbero una visione completa, oggettiva e immediata del rapporto esistente tra agricoltura e ambiente sul territorio italiano.
L’obiettivo del lavoro ha comportato una lunga ed articolata raccolta di dati per consentire un’indagine conoscitiva più ampia possibile. Sono stati raccolti in un dataware house informazioni di diversa natura: ambientali, agro-ambientali, statistici, geografici.
Sulla base delle analisi effettuate sono state definiti tre diversi scenari di regionalizzazione: “Soil Regions”, “Zone altimetriche” e “Grado di sostegno”.
Nello scenario “Soil Regions”, le classi sono state definite sulla base delle Regioni Pedologiche d'Italia a scala 1:50.000.000 (Costantini et al., 2004). La mappa “Soil Regions” tiene conto del clima e delle condizioni pedologiche, della geologia e della morfologia del suolo, del contenuto di materia organica, dell’acidità e dei processi di degrado. Sulla base di queste informazioni, sono state così individuate 34 “Soil Regions”, successivamente aggregate in 5 regioni:
1 - SR delle Pianure e bassa collina
2 - SR delle Colline
3 - SR delle Alpi
4 - SR degli Appennini
5 - SR delle montagne dell’Etna e della Sardegna
Sulla base delle caratteristiche pedologiche, geomorfologiche e climatiche a ciascuna “Soil Region” è stata associata una coltura prevalente. Le regioni pedologiche sono state così ristrette a 4, unificando la SR 3 delle Alpi con la SR 5 delle montagne dell’Etna e della Sardegna essendo simili dal punto di vista agro-ambientale:
1 - SR delle Pianure e bassa collina – Seminativi;
2 - SR delle Colline – Vigneti-arboree;
3 - SR delle Alpi e delle montagne dell’Etna e della Sardegna – Prati/pascoli;
4 - SR degli Appennini – Misto Prati/arboree.
Alle informazioni di tipo agro-ambientale sono state sovrapposte come strato informativo aggiuntivo le informazioni relative agli allevamenti in particolar modo bovini e bufalini ed ovi-caprini, utilizzando i dati Istat del 6° Censimento agricoltura. Ad ogni comune è stato assegnato il numero di capi presenti sul territorio comunale, rappresentandolo sulla carta con un punto che corrisponde a 6.000 unità di bestiame, indice di densità del fenomeno.
Il secondo scenario (Zone altimetriche) si basa sui dati Istat che ripartiscono il territorio nazionale per zone altimetriche (montagna, collina, pianura). Le zone di montagna e di collina sono state divise, rispettivamente, in zone altimetriche di montagna interna e montagna litoranea e collina interna e di collina litoranea, comprendendo in queste ultime i territori, esclusi dalla zona di pianura, bagnati dal mare o in prossimità di esso. Molti comuni si estendono territorialmente dalla montagna alla collina o dalla collina alla pianura, coprendo, talvolta, tutte e tre le zone altimetriche. Tuttavia, per ragioni di carattere tecnico e amministrativo, è stato adottato il criterio della inscindibilità del territorio comunale, da cui segue che l’intero territorio del comune è stato attribuito all’una o all’altra zona altimetrica, secondo le caratteristiche fisiche e l’utilizzazione agraria prevalente.
Di conseguenza, ad ogni comune è stata assegnata una classe di zona altimetrica e associando la superficie del comune alla classe si è suddiviso il territorio nazionale in 5 classi altimetriche.
Infine, lo scenario “Grado di sostegno” ha comportato l’utilizzo dei dati censuari dell’Istat relativi al 2000.
La metodologia ha riguardato l’analisi delle colture e degli allevamenti a livello comunale. Tutte le colture sono state riclassificate in tre classi: grado di sostegno Basso (B), Medio (M), Alto (A). Per ogni classe si è calcolata la Sau comunale e la classe che presentava il valore più alto è stata definita caratteristica del singolo Comune.
Per quanto riguarda gli allevamenti, sono stati presi in considerazione il numero di bovini/bufalini e di ovini presenti in ogni Comune. Per analizzare l’impatto degli animali sul territorio si è rapportato il numero di animali sulla Sau comunale (dato del censimento agricoltura riferito al centro aziendale). Per poter suddividere i valori elaborati nelle tre classi (Alto, Medio, Basso) si è proceduto ad una classificazione “standard deviation”: è stata calcolata la media e la deviazione standard e si sono definiti gli intervalli attorno alla media con ampiezze pari o multiple della deviazione standard. Questo tipo di classificazione consente di evidenziare i valori superiori ed inferiori alla media: nella classe più bassa rientrano i Comuni con il minor numero di animali, mentre nella classe più alta quelli con il numero più alto.
La classificazione adottata per le colture e quella fatta separatamente per gli allevamenti sono state successivamente rielaborate per arrivare ad una classificazione unica che tenesse in considerazione tutte le variabili. Tenuto conto che l’obiettivo finale è di pervenire ad una sorta di individuazione del grado di sostegno di cui aveva goduto un Comune, a ciascuno di essi è stato attribuito il “grado di sostegno” più alto presente nelle diverse classificazioni sulle colture e sulla zootecnia.
La complessità di una regionalizzazione che debba necessariamente tenere presenti diversi fattori che incidono sul territorio, rende indispensabili l'uso del mezzo informatico e l'implementazione del GIS. Quest’ultimo sta evolvendo da strumento per la creazione di banche dati ed archivi a strumento per la gestione dinamica dei processi di governo del territorio e di valutazione delle politiche. Grazie a esso, la conoscenza non è più statica e settoriale, ma è in continua evoluzione, diventa interdisciplinare e si presta bene all’interpretazione e alla valutazione del territorio anche in prospettiva di scenari di riforma della Pac.
Riferimenti bibliografici
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Anania G. (2013), “Riforma della Pac, agricoltura e sviluppo locale. Le politiche per l’agricoltura che servirebbero e quelle che ci siamo ritrovati”, Scuola Estiva di Sviluppo Locale ‘Sebastiano Brusco’ Politiche agricole: tra coesione, competitività e sostenibilità, Seneghe, 18-23 luglio 2013
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Anania G. (2012), “What is likely to be the outcome of the policy decision process, and why?”, 28mo Congresso Iaae The European Union’s Common Agricultural Policy after 2013: what is happening, what is likely to happen, and why? Foz do Iguaçu (Brazil), August 18-24, 2012
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Buckwell A. (2011), CAP reform through Analytical lenses”, European Parliament, 19 dicembre 2011
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Bureau J.C., Witzke H.P. (2010), The Single Payment Scheme After 2013: New Approach-New Targets (a cura), studio commissionato dal Parlamento europeo
-
Cap reform, www.capreform.eu
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Costantini E. A.C., Urbano F., L’Abate G. (2004), Soil Regions of Italy, (http://abp.entecra.it/soilmaps/download/csi-BrochureSR_a4.pdf)
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De Filippis F., Sandali P. (2013), La nuova Pac. Un’analisi dell’accordo del 26 giugno 2013 (a cura), Working paper n. 21 Gruppo 2013
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Inea (1997), Le politiche agricole dell’Unione europea, Roma
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Inea (2013), L’agricoltura italiana conta 2013, Roma
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Pupo D’Andrea M.R. (2013), “Finestra sulla Pac”, Agriregionieuropa, agosto 2013.
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Tangermann S. (2011), “Direct Payments in the Cap post 2013”, EP Workshop Cap towards 2020, Brussels, 7 febbraio 2011
- 1. Si ringrazia Roberto Henke per i preziosi commenti a una precedente stesura dell’articolo.
- 2. Per maggiori dettagli sui contenuti della riforma si rimanda a Pupo D’Andrea, 2013, De Filippis, Sandali, 2013.
- 3. Si pensi che nel 1992 queste due voci di spesa assieme rappresentavano poco meno del 50% delle totali spese agricole nell’UE e che nel 2012 sono giunte a pesare lo 0,3% (Inea, 1997 e 2013).
- 4. A tale percentuale si arriva se accanto agli aiuti obbligatori (pagamento verde 30% e pagamento per i giovani agricoltori 2%) si applicano tutti gli aiuti volontari al limite massimo: pagamento redistributivo sui primi ettari 30%, pagamento per le aree con vincoli naturali 5%, pagamento accoppiato 15%.
- 5. Questa opzione prevista dall’accordo mina la reale funzione del pagamento verde, in quanto è difficilmente giustificabile che un pagamento corrisposto a fronte di pratiche benefiche per ambiente e clima sia direttamente proporzionale al pagamento base che poco o nulla ha a che fare con il costo o la severità di queste pratiche.