Una premessa, spiacevole, dalla quale partire: l’agro-alimentare soffre
La condizione economica che sta attraversando l’agricoltura è tutt’altro che rosea. Diversi i motivi che ne sono alla base: la nuova politica agricola che si inserisce all’interno di un quadro di competitività internazionale mai prima conosciuto, ma anche la presenza di numerosi problemi interni al nostro paese e specifici del settore agroalimentare. Alcuni di questi ultimi sono presenti da troppo tempo e mai affrontati seriamente, altri sono la diretta conseguenza degli stessi cambiamenti internazionali. Ne deriva che le imprese della filiera, soprattutto quelle della produzione agricola, si trovano di fronte ad una condizione immediata di sofferenza economica ed alla presenza di una forte incertezza per le prospettive dei prossimi anni.
Prezzi bassi per le produzioni agricole, costi di produzione in crescita, iniqua distribuzione tra i soggetti della filiera del valore che paga il consumatore per i beni alimentari, sono queste le tendenze esplicite che condizionano negativamente la possibilità, per le imprese agricole, di ottenere redditi remunerativi. Tendenze, per alcune delle quali, non esiste la possibilità di intervento da parte dei singoli operatori (prezzi prodotti ed input a livello mondiale) e che, quindi, rendono sempre più necessarie azioni specifiche, se possibile, per contrastare il declino. L’occasione della presentazione del PSR da parte della Regione deve essere utilizzata per riflettere a tutto campo su questi aspetti. Abbiamo, forse, ancora qualche anno di disponibilità finanziarie comunitarie per cercare di rimettere sulla giusta direzione un sistema, quello agro-alimentare, che per troppo tempo si è accontentato dei risultati resi possibili da quaranta anni di politica iper-garantista e, per questo, preoccupandosi troppo poco di realizzare una trasformazione innovativa. Il perché di questa esigenza è da collegare sia al fatto che il settore della produzione agroalimentare è strategico in questi periodi di forte incertezza internazionale, al fatto che l’obiettivo di un’alimentazione sana per la popolazione è imprescindibile ed al fatto che non possiamo cancellare la cultura che per secoli l’agricoltura è riuscita a determinare con la propria attività.
Se ci si sofferma sulla situazione regionale, non è semplice indicare i percorsi operativi necessari, data la numerosità e la complessità di fattori esterni ed interni che condizionano lo stato attuale dell’agroalimentare regionale, ma ritengo che qualsiasi sia il percorso che potrà essere individuato due sono le precondizioni comportamentali per farlo. Il primo, nel rispetto delle autonomie di ciascun soggetto che partecipa al ed incide sul percorso, privato o pubblico che sia, è indispensabile che ciascun soggetto rinunci all’atteggiamento del “gioco delle parti”. E’ vero che in momenti di crisi, in ciascuno di noi si fa più forte lo spirito di conservazione e, quindi, tende a proporre gli interventi che aiutano allo scopo, ma se non si determinerà uno stato realmente cooperativo e finalizzato a centrare gli obiettivi condivisi è probabile che tutto il sistema risulti perdente, non solo questa o quella componente. Il secondo, la presenza di ottimismo tra i decisori. Di fronte alla situazione di crisi ed alle difficoltà che si incontrano per superarla, tra i soggetti coinvolti dalla crisi stessa sembra prevalere un atteggiamento remissivo, di accettazione passiva degli eventi esterni che sembrano non controllabili da parte dei singoli. Ne scaturisce un effetto diffuso di protesta e di recriminazione verso tutto e tutti, piuttosto che un’espressione fattiva e positiva che, invece, sarebbe indispensabile soprattutto in questi momenti di grave difficoltà.
Tutto quanto sta avvenendo ci indica che, per affrontare l’incerta e preoccupante condizione che attanaglia il settore agro-alimentare, non bisogna perdere ulteriore tempo. Iniziando, in particolare, ad individuare un metodo attraverso il quale si riesca a valutare in modo oggettivo i livelli di analisi e decisionali ai quali è opportuno far riferimento per verificare le strade da percorrere per contrastare le tendenze in atto. In termini schematici, è possibile pensare di far riferimento a tre di questi livelli. Il primo riguarda gli obiettivi strategici generali che dovranno fungere da guida per il comportamento degli operatori del settore agro-alimentare. A seguire, l’individuazione di percorsi strategici specifici, poi la definizione delle azioni concrete e delle procedure necessarie a promuoverle e realizzarle.
Individuare il percorso di sviluppo dei territori rurali significa specificare con dettaglio i contenuti di tutti i tre livelli, ma, soprattutto, richiede di trovare un’adeguata armonia tra i contenuti dei diversi livelli, utilizzando tutte le politiche che possono essere messe a disposizione dai vari decisori istituzionali. E’ una conclusione che potrebbe sembrare scontata; invece, ancora oggi, non sono pochi coloro che pensano di trovare soluzioni efficaci per lo sviluppo dei territori rurali ricorrendo esclusivamente alle politiche che sono proposte all’interno del cosiddetto secondo pilastro. Queste ultime danno la possibilità di cogliere opportunità importanti, ma non sono sicuramente sufficienti per centrare l’obiettivo della vitalità delle aree rurali. L’impegno di tutti, dunque, deve essere quello di verificare la condivisione delle strategie e, successivamente, di valutare con attenzione l’insieme delle iniziative da intraprendere, evidenziando quante di queste sono percorribili ricorrendo alle politiche già presenti e decidendo di promuovere quelle che, ritenute necessarie, non hanno alcun riferimento programmatorio.
Le considerazioni che sono proposte in questa nota non vogliono rappresentare il decalogo che lo studioso di turno propone tanto per soddisfare, in modo più o meno soddisfacente, alla richiesta di dover costruire una relazione per questo o quel convegno. Esse, invece, hanno l’ambizione, ancorché giudicabile arrogante, di voler presentare un metodo di lavoro per iniziare a costruire insieme una nuova fisionomia per l’agro-alimentare dei prossimi anni. Se ho una convinzione, infatti, è proprio quella dell’esigenza di un’innovazione radicale del settore e non dei soliti adattamenti minimali messi in atto nel corso degli ultimi decenni e resi possibili dalla presenza di una rete di protezione di grande efficacia messa a disposizione dalla comunità dei paesi europei. Un cambiamento che, al suo interno ne deve contenere uno ancora più determinante, se possibile. Quello di attivare un processo organizzativo e gestionale, a tutti i livelli, che non serva a passare da uno stato consolidato ad un nuovo stato definito, ma permetta di operare in termini strategici, secondo quanto previsto dagli insegnamenti della pianificazione strategica. Facendo si che, seguendo le fasi di programmazione di attuazione e di controllo, si abbia la possibilità di poter rispondere in continuazione a quanto di nuovo si propone all’esterno dell’ambiente di riferimento. Difficile, anzi difficilissimo; ma dobbiamo provarci.
Quello che vorremmo dalla multifunzionalità
Il primo livello strategico sembrerebbe ampiamente condiviso. E’ la strategia della multifunzionalità, attraverso la quale al settore agricolo sono attribuiti i ruoli congiunti di produrre in modo conveniente i beni agricoli, di tutelare l’ambiente ed il territorio, di promuovere lo sviluppo sociale ed economico delle aree rurali, di valorizzare le risorse locali, di tutelare le esigenze del consumatore. Strategia che si presenta di grande interesse e che potrà dimostrare a pieno la sua efficacia se si riusciranno a mettere a punto tutte le azioni e le procedure necessarie a farla agire; prima tra tutte, l’esigenza di far comprendere a tutti i soggetti che ad essa sono interessati che tale percorso non può essere frequentato se non in forma di forte integrazione tra tutti.
Parlare di multifunzionalità, nell’accezione comunemente accettata, significa parlare di sviluppo rurale da perseguire utilizzando la varietà implicita del settore e quella dei sistemi territoriali nei quali l’agricoltura si propone. La moltitudine variegata dei territori agricoli, le molteplici combinazioni delle risorse naturali, le diverse espressioni socio-economiche, le svariate manifestazioni della cultura, l’eterogenea presenza delle tipologie strutturali delle aziende agricole, l’enorme differenziazione delle combinazioni produttive possibili, il gran numero delle espressioni organizzative del lavoro, la varietà delle conoscenze degli imprenditori e tanti altri elementi di differenza presenti nell’ambiente rurale, se gestiti in modo appropriato, costituiscono il presupposto essenziale per determinare soluzioni efficaci dello sviluppo rurale. Su questi aspetti molto si è detto, da tempo, e su di essi esiste un ampio consenso politico. Per questo non è necessario dettagliare i contenuti degli stessi, se non per sottolineare, da una parte, che la Regione dovrà stabilire se ritiene efficaci allo stesso modo tutte le componenti strategiche della multifunzionalità o se ne reputa alcune più proficue di altre per lo sviluppo del territorio rurale. Dall’altra, per affermare che l’ampia condivisione della strategia di questo primo livello non significa che la stessa non sia perfettibile nei contenuti.
Rispetto al primo punto, la scelta della direzione da frequentare per lo sviluppo rurale, è evidente la natura politica della stessa. Una scelta, in ogni caso, che è saldamente connessa al modello di sviluppo socio-economico generale che la regione vuole definire. Se si decidesse che il modello di sviluppo della regione deve essere centrato sull’integrità del paesaggio, sulla valorizzazione delle risorse naturali, sulla vivibilità dei vari territori, le misure per lo sviluppo rurale dovranno essere differenti da quelle che si dovrebbero attivare nel caso in cui il modello di sviluppo regionale volesse far perno in modo diffuso sulla competitività economica.
Qualche considerazione in più sul secondo punto, la perfettibilità della multifunzionalità. Personalmente, ad esempio, ritengo che all’interno del concetto di multifunzionalità dovrebbero essere espressi in modo molto evidente almeno tre criteri guida per il futuro del settore. Il primo, riguarda la necessità di una scelta politica ben determinata per sistemare la questione della compensazione dei servizi non commerciali generati dalle attività agricole. Il secondo, il ruolo strategico che, forse oggi più di ieri, assume la produzione di beni agro-alimentari per contrastare l’incertezza internazionale e, quindi, per alimentare uno sviluppo equilibrato dei nostri paesi europei. Il terzo, la centralità del ruolo della conoscenza e delle innovazioni per alimentare una condizione di competitività forte, tanto per le imprese che per le filiere produttive ed i sistemi territoriali.
Il primo aspetto, il rapporto tra la funzione produttiva di beni dell’agricoltura e quella di generatrice di servizi sociali. Ciò su cui si dovrebbe ragionare con maggiore attenzione riguarda la possibilità di garantire, attraverso questo rapporto, la tanto declamata condizione di competitività per i soggetti che operano nel settore. Relativamente alla natura del rapporto, nulla di nuovo da evidenziare: gli operatori devono produrre beni nel rispetto delle esigenze delle risorse naturali e dei consumatori. Potranno, così, rispondere, in modo congiunto, tanto agli interessi privati che a quelli sociali. Interessante, come affermazione teorica, meno reale in termini concreti. Non a caso ho parlato, in termini generici, di operatori, perché il comportamento di attenzione verso un modo di produrre sostenibile deve essere adottato da tutti coloro che sono coinvolti nella produzione dei beni alimentari: gli agricoltori, i trasformatori ed i distributori. Spesso, però, quanto si afferma l’esigenza di sviluppo sostenibile ci si riferisce in modo esclusivo, ma non esatto, alle imprese agricole che, tra l’altro, sono quelle verso le quali si riversa la minima parte del valore del prodotto finale. Il 15% secondo alcune stime dell’anno scorso; oggi forse di meno. Ci si chiede: perché il segmento meno prospero di tutta la filiera dovrebbe essere quello che si deve impegnare, per tutti, a realizzare i servizi richiesti dalla società? E, soprattutto, perché dovrebbe farlo senza che ad esso sia riconosciuta una valutazione monetaria per gli stessi servizi che genera?
La questione è, per l’appunto, quella delle esternalità positive generate dai produttori agricoli; cioè, funzioni svolte effettivamente, ma che non hanno alcun compenso dal mercato. Secondo alcune interpretazioni, l’ultima considerazione non è esatta, in quanto i premi collegati al criterio del disaccoppiamento devono essere considerati come compensazioni monetarie delle esternalità positive. Personalmente, ritengo queste valutazioni del tutto inappropriate. I premi relativi al disaccoppiamento hanno, a mio avviso, altre finalità; e qui dovrebbe scattare il dibattito sul secondo dei criteri da introdurre nel dibattito sulla multifunzionalità. Essi, infatti, hanno il ruolo, in primo luogo, di garantire la produzione di beni, quelli agro-alimentari, che, alla luce delle profonde crisi sociali e politiche presenti a livello internazionale, si stanno proponendo come beni ad alto contenuto strategico. Nessun paese, ritengo, possa permettersi il lusso di dipendere commercialmente, oltre che per le risorse energetiche, anche per i beni agro-alimentari. Se così fosse, le proprie condizioni di stabilità sociale, politica ed economica risulterebbero minate sin dall’origine. In secondo luogo, la possibilità di garantire la produzione di beni agricoli, sostiene la vitalità di moltissime altre imprese a monte ed a valle della fase primaria, rendendone meno probabile la disattivazione imprenditoriale ed assicurando condizioni di crescita dei sistemi meno controverse. Sicuramente queste finalità sono implicite nel criterio del disaccoppiamento parziale, utilizzato dalla maggior parte dei paesi europei Il fatto che l’Italia abbia scelto il criterio del disaccoppiamento totale, oltre a confermare la non felicità della scelta, non può certo azzerare il significato politico implicito nel disaccoppiamento.
Se si condivide questa interpretazione, resta ancora aperta la vertenza del riconoscimento monetario delle esternalità positive generate dalle attività agricole. Al di là delle difficoltà oggettive che si incontrano per individuare metodi efficaci per realizzare le valutazioni quantitative, ciò che si deve sottolineare, almeno per me, è la carenza del dibattito politico intorno a questo aspetto. Ci si deve chiedere con insistenza, invece: perché i servizi ambientali, culturali e sociali realizzati attraverso le attività agricole devono essere considerati alla stregua di beni congiunti delle tradizionali attività produttive e, per questo, trattati come beni pubblici, per i quali non si definisce una valutazione da parte del mercato? Ed ancora, perché le risorse pubbliche destinate alle imprese agricole che sono in grado di avvicinarsi a finalità extra-agricole condivise da tutta la collettività dovrebbero gravare in modo esclusivo sul budget finanziario della politica agricola?
Il terzo criterio che deve avere rango centrale all’interno della condizione strategica della multifunzionalità riguarda il ruolo che le innovazioni possono svolgere ai fini della competitività; un criterio poco frequentato nel dibattito specifico sulla stesa condizione strategica. Forse perché si è ritenuto che la discussione sarebbe stata ridondante, in quanto, da sempre, le innovazioni di processo e di prodotto sono considerate fattore centrale per lo sviluppo. Nulla da eccepire, se non fosse che la categoria delle idee e delle conoscenze intellettuali si sta progressivamente sostituendo a quella delle quantità fisiche nel processo di generazione del benessere degli individui. Ciò ha determinato il passaggio dalla produzione industriale a quella scientifica, facendo sì che la scienza, da una parte, abbia acquisito sempre più i connotati di forza produttiva prioritaria e, dall’altra, stia diventando fattore strategico centrale di sviluppo. Se questa constatazione è condivisa, non si può trascurare di osservare come, nel nostro paese, la condizione inerente alla produzione ed alla gestione delle innovazioni non sia così efficiente ed efficace come dovrebbe.
I motivi sono molteplici; bisogna affrontarli in modo determinato da parte di tutti i soggetti che sono interessati alla crescita delle conoscenze. Solo così, infatti, sarà possibile permettere alle imprese di avere le condizioni basilari per affrontare con successo il difficile percorso della competizione internazionale. Ma, al di là di questa condizione di base, l’efficienza e l’efficacia del sistema delle conoscenze è indispensabile per dare la possibilità ai sistemi economici, nazionali e regionali, di puntare sempre più all’esportazione delle invenzioni scientifiche, delle innovazioni tecnologiche e delle competenze professionali di tutti gli addetti, piuttosto che all’esportazione dei beni prodotti. Per il settore agro-alimentare, caratterizzato da prodotti di base che hanno un elevato grado di maturità, quest’ultima scelta strategica dovrà costituire il riferimento costante del prossimo futuro. Bisogna lavorare per renderla concreta, iniziando a mettere a punto le azioni per razionalizzare il sistema della ricerca.
A livello regionale, se si riuscirà a realizzare un sistema della ricerca efficiente ed efficace, tra qualche anno si potrebbe iniziare a frequentare una nuova strategia di sviluppo del settore agroalimentare. Quella che si basa sulla produzione e commercializzazione dei prodotti di qualità regionali, insieme alla “vendita” delle innovazioni e dei saperi che lo stesso sistema mette a punto. Una scommessa molto impegnativa, ma che di fronte alle tendenze mercantili internazionali deve essere vinta, se si vuole che il sistema agroalimentare regionale sia competitivo.
Le strategie specifiche dalle quali partire
Accettando l’interpretazione della multifunzionalità proposta dalla comunità e gli obiettivi che con essa si prefigge la collettività, il secondo livello al quale si deve far riferimento è quello delle strategie specifiche da individuare per centrare gli obiettivi generali, tanto quelle efficaci per la competitività degli operatori, siano essi imprese, filiere e territori, quanto quelle utili alla generazione dei servizi sociali richiesti dalla società civile. Fermo restando che, se si sposa sino in fondo la logica della multifunzionalità, nella definizione di ciascuna strategia specifica si possono, anzi si devono, realizzare condizioni di integrazione e di sinergia per esaltare la possibilità di centrare la meta dello sviluppo rurale.
Nel rispetto di questa condizione, le strategie specifiche devono far riferimento al miglioramento dell’efficienza economica delle unità di produzione, alla diversificazione dei prodotti e dei processi, alla qualificazione della produzione agro-alimentare, all’integrazione verticale tra i vari soggetti che operano lungo le filiere produttive, all’integrazione orizzontale tra i vari soggetti che operano all’interno dei vari sistemi territoriali. Cercando, in questo modo, di trovare soluzioni efficaci tanto per la competitività degli operatori quanto per la tutela dell’ambiente e dei consumatori.
Da queste prime e sommarie indicazioni risulta che le strategie specifiche hanno tre riferimenti decisionali: le imprese, le filiere ed i territori; ognuno dei quali, ovviamente, ha la propria autonomia decisionale ed operativa. E’ altrettanto ovvio che, per centrare gli obiettivi propri del percorso multifunzionale, se si dovesse individuare un qualche criterio per fissare con quale priorità dare attenzione alle stesse strategie, quelle che sono ascrivibili ai sistemi territoriali dovrebbero essere preferite. Da chiarire, che questa ultima considerazione non vuole minimamente contestare il criterio della sussidiarietà al quale l’Unione Europea cerca di ricondurre tutte le iniziative di sviluppo. Il criterio è irrinunciabile, in quanto qualsiasi iniziativa può risultare concreta ed efficace solo se nasce dai diretti interessati. La volontà di dare maggiore attenzione alle iniziative proposte a livello territoriale nasce dalla convinzione che, oggi più che mai, la vitalità di un sistema, promossa in modo coordinato da tutte le componenti, è obiettivo molto più importante di quella delle singole componenti se si vuole affrontare con successo la sfida lanciata dai molteplici cambiamenti in atto a livello internazionale.
Con queste precisazioni, l’obiettivo della “competitività sostenibile”, può essere frequentato con differenti strategie. In primo luogo, quella tradizionale, basata sull’efficienza economica. Frequentare questa direzione significa, ad esempio, ottimizzare la struttura e l’organizzazione aziendale per contenere i costi, introdurre innovazioni tecnologiche appropriate, creare servizi di assistenza e di supporto che siano efficienti ed efficaci. C’è ancora spazio per questa strategia, ma per farlo si richiede un impegno preliminare di straordinaria importanza: migliorare la professionalità degli imprenditori, ma anche quella dei lavoratori. Diventa così importante rafforzare gli interventi per la formazione e quelli per l’informazione, in modo tale che gli operatori possano acquisire una condizione di prossimità, e non di lontananza, rispetto ai nodi della rete della conoscenza ed a quelli decisionali a scala maggiore. L’operato congiunto della formazione-informazione, cioè, deve permettere agli operatori di avere un rapporto più equilibrato con le istituzioni, con i vari centri decisionali delle filiere e dei territori, con i diversi soggetti del mondo della ricerca scientifica e tecnologica. Una miscela indispensabile se si vuole veramente promuovere comportamenti innovativi e strategie imprenditoriali attive tra gli operatori del settore.
La diversificazione di prodotto e di processo rappresenta un’altra strategia da promuovere, sia per i beni che per i servizi che gli operatori sono in grado di attivare. Con riferimento alle indicazioni che provengono dal mercato, non mancano opportunità anche lungo questa direzione. La domanda di beni e/o di servizi espressa dalla società civile è, infatti, in continua evoluzione; massima deve essere l’attenzione degli imprenditori a definire efficienti organizzazioni per cogliere in tempi rapidi le informazioni del mercato, anzi, se possibile, per anticiparlo. In questo percorso, uno specifico interesse si sta proponendo per le produzioni no-food, in particolare per quelle inerenti alle filiere bio-energetiche (pioppo, sorgo, girasole, ecc.) e per quelle a destinazione multipla utili per vari tipi di industria (lino, canapa, girasole, ecc.). Un percorso che, in ogni caso, richiede confronti preliminari tra i produttori agricoli e quelli industriali per definire forme contrattuali valide per tutte le categorie. Fondamentale, per la vitalità delle imprese agrarie, la proposta di nuovi servizi commerciali; da quelli che sono connessi al turismo rurale (l'ippoturismo, le attività faunistico-venatorie, le aziende didattico-ambientali, ecc.), sino a quelli rivolti a realizzare e gestire itinerari tematici per il trekking, a gestire le aree naturali protette, a svolgere attività di manutenzione dei terreni demaniali, ad organizzare momenti formativi da dedicare ai cittadini che coltivano l'hobby di "fare gli agricoltori" su fazzoletti di terra, ecc..
La qualità della produzione agro-alimentare è una direzione importante per la vitalità degli operatori. Importante e, allo stesso tempo, alquanto complessa, in quanto la qualità è una condizione di sintesi di diversi fattori: la salubrità alimentare, la tipicità e la specialità dei prodotti, la qualità intrinseca dei prodotti. Senza entrare nel merito di questa complessità, comunque fondamentale da considerare per definire le azioni operative, si deve sottolineare che la qualità è, sì, importante, ma non infinita. I consumatori, infatti, manifestano un deciso interesse e una palese disponibilità a pagare per ottenere il “bene aggiunto” qualità, ma, come dimostra il comportamento attuale del consumatore che si deve confrontare con un minore potere di acquisto del reddito, non è pensabile di sfruttare il fattore qualità con scelte che vanno oltre le tendenze del mercato e le attese dei consumatori. La qualità deve essere valutabile in modo più oggettivo e percepibile; sono da incentivare, quindi, tutte le iniziative inerenti alla certificazione, alla tracciabilità delle produzioni e all’etichettatura delle stesse. Condizione necessaria, ma non sufficiente; per far sì che queste iniziative svolgano a pieno le funzioni per le quali sono realizzate sono indispensabili almeno due azioni parallele. La prima; le informazioni che sono fornite dall’etichettatura o dalla tracciabilità servono a ben poco se il destinatario, il consumatore, non è in grado di comprenderne a pieno il significato. Per questo, è importante l’educazione alimentare dei consumatori, in modo tale che siano in grado di dare il giusto valore ai prodotti di qualità. La seconda; le stesse iniziative potrebbero risultare più efficaci se definite in modo congiunto da produttori e consumatori. Per questo, sono da valutare in modo positivo le iniziative tese a realizzare un patto tra produttori agricoli e consumatori, ma diventa sempre più necessario dare concretezza a questi patti “politici” realizzando associazioni di prodotto che vedano la presenza anche dei consumatori.
La partecipazione delle imprese agricole ai processi di trasformazione e/o di distribuzione è l’obiettivo prioritario per la vitalità delle imprese agricole. Non è pensabile, infatti, che le imprese agricole raggiungano il successo senza riappropriarsi in modo significativo di alcuni spazi produttivi all’interno dei quali si forma la parte preponderante del valore dei prodotti alimentari finali. Le filiere corte sono efficaci, ma sicuramente non frequentabili per una gran parte della produzione agro-alimentare. Ecco, allora, l’esigenza dell’integrazione di filiera, necessaria anche per migliorare l’efficienza e l’efficacia dei vari stadi che concorrono a portare la produzione aziendale al consumatore finale. Una necessità reale che richiede un deciso rinnovamento delle differenti forme organizzative ed associative attualmente operanti, ma è indispensabile che gli operatori agricoli si facciano promotori di nuove iniziative imprenditoriali nella trasformazione e nella distribuzione delle produzioni, con una loro presenza dominante sia in termini finanziari che rispetto alle forme organizzative e gestionali. Un percorso necessario non solo per la vitalità delle imprese agricole, ma essenziale anche per la vitalità dei sistemi territoriali. Di fronte alla forte difficoltà di competere sul piano produttivo aziendale con le nuove economie mondiali, è questa la scommessa da vincere nel futuro.
Per garantire il posizionamento vitale dei territori rurali e delle imprese sulla scena mondiale, sempre maggiore importanza va assumendo la strategia della competitività territoriale che rappresenta l’espressione strumentale dello sviluppo rurale integrato. Essere in grado di sostenere la concorrenza del mercato con la logica della competitività territoriale, non vuole superare il significato economico che è implicito nella competitività, ma cerca di affermare il principio che il successo delle imprese e del territorio è legato, da una parte, al complesso di elementi materiali ed immateriali presenti in un dato sistema e, dall’altra, alla sostenibilità ambientale, sociale e culturale delle azioni che sono effettuate all’interno dello stesso sistema. Per questo, è necessario che gli attori di ciascun territorio, dagli imprenditori agricoli a quelli extra-agricoli, dalle istituzioni ai consumatori, diventino i principali protagonisti delle decisioni da prendere. Essi, infatti, sono in grado di avere una visione consapevole e sistemica delle componenti del territorio, attraverso la quale è possibile individuare i punti di forza e di debolezza del territorio e fissare i percorsi per il suo sviluppo.
La strategia della competitività territoriale, oltre ad essere importante per generare sviluppo in senso lato, rappresenta un metodo efficace per valorizzare le produzioni del settore. Collegare la produzione agro-alimentare con il territorio nel quale si realizza significa, infatti, avere la possibilità di migliorarne la visibilità commerciale avendo come veicolo principale le peculiarità del territorio stesso. E’ fondamentale mettere sul mercato non solo prodotti di qualità, ma prodotti unici, con la condizione di unicità che è data dalle specificità culturali, artistiche, paesistiche di ogni sistema. Ne consegue che, nella logica di sistema, è importante che il decisore pubblico dedichi risorse appropriate alla salvaguardia ed alla valorizzazioni di tali risorse, ma anche si impegni alla definizione di regole appropriate che non pregiudichino la qualità delle stesse risorse.
Non è improprio ribadire che ognuna delle diverse linee strategiche descritte dovrà essere attivata tenendo in considerazione che, oltre alla finalità di miglioramento della condizione economica dei singoli soggetti che partecipano al settore, si deve preoccupare in modo non evasivo ed occasionale di fornire risposte efficaci alla dimensione sociale ed ambientale. La politica di sviluppo rurale, infatti, deve puntare a migliorare la coesione sociale all’interno dei vari sistemi territoriali e l’equilibrio tra quantità e natura delle attività umane e qualità e consistenza delle risorse naturali.
Le pre-condizioni per rendere concrete le strategie
Il terzo livello è quello inerente all’attuazione di azioni concrete e di procedure appropriate a promuovere e realizzare i percorsi strategici individuati. Livello fondamentale, al quale è necessario dedicare particolare attenzione, cosa che non è stata fatta in modo appropriato negli ultimi tempi, in quanto si è pensato, sbagliando, che, una volta fissate le strategie, la fase attuativa delle stesse fosse una questione più facile da affrontare. Risultato: c’è un’ampia condivisione dei percorsi di medio-lungo periodo verso i quali ci si vorrebbe muovere, ma non si riesce a percorrerli in modo efficace, vuoi perché non si ottiene la stessa condivisione sulle azioni di breve periodo con le quali avviare il percorso – spesso per la non più legittima volontà dei diversi soggetti di conservare l’acquisito -, vuoi perché le strutture decisionali – da quelle private a quelle istituzionali – non sono attrezzate, sia in termini formali che culturali, per affrontare in modo valido il percorso. Per tentare di conquistare i benefici insiti nel modello multifunzionale, le scommesse da vincere sono, da una parte, quella di riuscire a sfruttare in modo appropriato la complementarietà tra i due pilastri della politica agricola comune e, dall’altra, di superare i fattori inerziali che si manifestano per far decollare le azioni concrete di questo livello. Una scommessa difficile, ma indispensabile e non rimandabile che, per essere vinta, rende necessaria una rifondazione organizzativa e culturale di tutti i nodi che compongono la rete della produzione agro-alimentare. Per essere chiari sino in fondo, anche i nodi attivi nella formazione e nella ricerca non possono fare a meno di partecipare a questa ristrutturazione.
In termini concreti. Date le strategie, quali sono le azioni da attivare per ridare slancio al settore agro-alimentare? Come si può intuire, non è facile, e forse neanche possibile, dare una risposta unica al quesito, in quanto le imprenditorialità, i territori, le agricolture si propongono in modo alquanto differenziato nella realtà nazionale. I problemi e, di conseguenza, le risposte devono essere, necessariamente, differenziate. Ciò non significa voler evadere il quesito, anche perché, in realtà, le azioni da attivare sono già definite nei documenti normativi di riforma della politica agraria. Tanto nelle politiche di sostegno al mercato ed ai redditi, quanto in quelle di promozione dello sviluppo rurale. Il disaccoppiamento, con le differenti possibilità gestionali, l’eco-condizionalità, la modulazione, le proposte avanzate di modifica di alcune OCM, ecc. per quanto riguarda il primo pilastro. Le numerose azioni proposte per il miglioramento della competitività dei settori agricolo e forestale, per la gestione del territorio, per la diversificazione dell’economia rurale e la qualità della vita in ambiente rurale, oltre a quelle rese possibili dall’approccio leader, per il secondo pilastro.
Ciò di cui vi è bisogno, dunque, è già stato individuato e, forse, non c’è bisogno di affannarsi a trovare altre azioni. Certo, se fosse possibile, si potrebbe affermare che è necessario rimettere in discussione la natura stessa delle politiche disegnate. Ma, sicuramente, non è questo il momento per farlo. Quello, invece, di cui vi è, palesemente, necessità è la definizione di procedure efficienti ed efficaci per sfruttare le azioni già proposte dalla nuova politica agraria comune. Definizione che, per essere attivata, richiede scelte politiche importanti, in grado di determinare cambiamenti appropriati nel comportamento di tutti i soggetti che operano nel settore.
Il punto dal quale partire, per rendere esplicite le ultime considerazioni, può essere proprio quello relativo al tema odierno: la costruzione e la gestione di piani di sviluppo regionali. Come è stato affermato nelle pagine precedenti, i soggetti decisionali interessati al processo di sviluppo sono le imprese singole, le filiere ed i territori. Soggetti caratterizzati da natura e complessità differenti; il loro successo è fondamentale per la vitalità tanto del settore agro-alimentare che dei sistemi locali. Il piano di sviluppo rurale partendo da questa constatazione, deve prevedere l’obbligo, per qualunque soggetto, di presentare un progetto di sviluppo dettagliato, sia in termini tecnici che economici, per beneficiare delle risorse pubbliche, ma deve anche prevedere il diritto, per ognuno di essi, di costruire il progetto in modo elastico rispetto alle varie misure previste. E’ necessario, cioè, abbandonare la direzione operativa seguita nel passato, quando ciascun soggetto – in realtà prevalentemente le imprese singole – ha visto la propria capacità decisionale vincolata dalla volontà del decisore pubblico di attivare questa o quella misura, in tempi differenti. Spesso, rendendo impossibile la costruzione di un progetto articolato ed efficace. I soggetti, tutti, devono avere la possibilità di confrontarsi con azioni che sono sempre aperte, di fare richiesta per più di una azione; possibilità resa legittima dalla presentazione del progetto di sviluppo.
Questa proposta che, a prima vista, potrebbe sembrare di non difficile attuazione, richiede, invece, adattamenti tutt’altro che secondari sia dei criteri che delle procedure di attivazione. Ad esempio, rispetto ai criteri, potrebbe essere utile stabilire una qualche forma di priorità rispetto ai territori verso i quali si ritiene necessario concentrare l’attenzione, ma anche nei confronti dei soggetti che possono presentare i progetti di sviluppo. Due aspetti fondamentali che meritano una qualche riflessione, seppure sintetica. Nella nostra Regione, dei circa 800 mila ettari di superficie territoriale solo il 19% ha un’altitudine inferiore ai 250 metri, più del 65% supera la pendenza del 10%. E’, cioè, una Regione ricca di aree cosiddette marginali tanto che la superficie agricola utilizzata rappresenta poco più del 45% della superficie territoriale ed ha una produttività media inferiore di circa il 30% di quella nazionale. Quali le prospettive per le imprese che operano in questi contesti e per gli stesse aree, alla luce della riforma di medio termine e delle prossime modifiche delle organizzazioni di mercato? Quale il ruolo che si intende attribuire a queste aree? Ma un’analoga considerazione dovrebbe essere fatta anche per le aree sensibili in termini ambientali che potrebbero trovarsi eccessivamente vincolate da piani di azione che, per quanto razionali, impediscono agli operatori di realizzare in modo conveniente le proprie attività economiche.
Rispetto alla priorità ai soggetti. Anche in questo caso, potrebbe essere utile fare delle scelte selettive tra le imprese che decidono di frequentare da sole un piano di sviluppo, quelle che lo fanno all’interno di una filiera e quelle che decidono di coordinarsi a livello di territorio. Sicuramente, nel rispetto del principio di sussidiarietà, qualsiasi soggetto è legittimato a presentare un proprio percorso di sviluppo, ma, di fronte ai momenti di crescente difficoltà ed incertezza, ritengo che sia il soggetto sistema territoriale quello verso il quale dedicare maggiore attenzione. L’impresa è sempre fondamentale, ma, oggi più che mai, è il sistema nel suo insieme che deve trovare le condizioni della vitalità, piuttosto che le singole componenti. Basta far mente locale al ruolo strategico che i sistemi locali possono svolgere per affrontare la crescente competitività internazionale; la vitalità di ogni sistema e delle sue componenti è correlata al modo in cui si riusciranno a sfruttare le peculiarità territoriali, sociali, economiche e culturali del sistema stesso. Il modo vincente che si intravede è quello di una forte integrazione organizzativa e gestionale di tutte le componenti territoriali.
Ammesso di accettare sino in fondo quanto detto, si propongono altre questioni di rilievo per la gestione dello sviluppo rurale. Ad esempio, è fondamentale individuare come si individua la scala territoriale appropriata alla quale riferire i progetti. Un aspetto nei confronti del quale è, attualmente, vivace il dibattito all’interno della Regione, ancorché svolto attorno a motivazioni che, almeno in apparenza, sembrerebbero più di ordine politico che socio-economico, come dovrebbe essere. Un tale atteggiamento non ha alcun senso e, se continuerà, non potrà essere di alcun aiuto per la vitalità dei territori. Come noto, questo dibattito non è rivolto in modo specifico al tema sviluppo rurale, ma riguarda l’intera tematica della governance del territorio. E’ probabile, dunque, che non si riuscirà a trovare una soluzione nei tempi necessari per la programmazione e l’avvio della politica di sviluppo rurale. Si deve, dunque, pensare a fissare i riferimenti territoriali che possono proporre progetti e, un buon punto di partenza, potrebbe essere rappresentato dai sistemi locali individuati come bacini autocontenuti del lavoro. Essi, infatti, rappresentano delle unità omogenee al loro interno rispetto alle condizioni socio-economiche.
Un secondo aspetto sul quale riflettere riguarda la natura dei soggetti che, per quanto detto, possono presentare progetti: le imprese singole, le filiere ed i territori. E’ evidente, infatti, che, ancorché indicati come soggetti, le filiere ed i territori assumono la specie di soggetto in quanto si riescono a definire forme di coordinamento tra imprese singole di segmenti produttivi differenti, istituzioni pubbliche ed altri soggetti privati. Come si dovrebbero proporre queste forme di coordinamento e tra chi? Sicuramente le recenti esperienze relative al finanziamento di progetti di filiera e quelle più consolidate relative ai progetti leader possono essere migliorate. Sia per avere all’interno di ciascuna filiera tutte le componenti che la caratterizzano, sia per modificare la natura dei partecipanti ai progetti territoriali, con l’intento di avere una presenza più consistenze di imprese. Su tali questioni si deve ragionare per individuare criteri che rendano i finanziamenti pubblici più efficaci.
Ancora in questo ambito, una scelta di fondo dovrebbe essere fatta a vantaggio dei progetti che sono presentati da giovani imprenditori agricoli, sia che si propongano da soli o all’interno di progetti di filiera e territoriali. Non è difficile comprendere che la possibilità di migliorare la presenza di aziende agricole multifunzionali di successo sarà tanto maggiore per quanto più alta risulterà la presenza di giovani in agricoltura. Ciò, non solo perché i giovani sono caratterizzati da: alta propensione ad investire sulle nuove direzioni strategiche dello sviluppo integrato del territorio; più immediata comprensione delle innovazioni di processo e di prodotto necessarie per il nuovo modello di sviluppo; una propensione al rischio economico importante; un comportamento non eccessivamente condizionato dalle linee strategiche prevalenti nel passato e, quindi, un accesso più libero alle regole nuove che la società determina. Caratteri, sicuramente, fondamentali; ma accanto ad essi non ci deve dimenticare che le strategie vengono poste in atto dall’uomo. Se un sistema non è in grado di garantirsi un appropriato rinnovamento del fattore umano, tanto in termini quantitativi, quanto e soprattutto in termini di qualità delle competenze, quel sistema prima o poi entra in collasso sociale ed economico.
Una terza questione centrale che si pone riguarda le modalità per valutare l’importanza e la qualità dei progetti di sviluppo che sono presentati; soprattutto, nell’ipotesi, reale, che le risorse disponibili non siano sufficienti per esaudire le richieste di tutti i progetti. Momento centrale, quello della valutazione, in quanto dovrebbe spostare l’attenzione del finanziatore dal criterio dell’efficienza della spesa a quello dell’efficacia. Centrale, ma tutt’altro che semplice da attivare in modo obiettivo ed imparziale. Non è sufficiente, infatti, costruire il metodo della valutazione dei progetti di sviluppo sulla base di indicatori, per quanto analitici ed articolati possano essere, ma sarebbe opportuno valutarli attraverso percorsi negoziali tra il soggetto proponente ed il soggetto finanziatore. E’ molto probabile che potrebbero presentarsi problemi inerenti alle capacità professionali del valutatore e, perché no, di non perfetta neutralità dello stesso. Massimo, dunque, l’impegno del decisore pubblico a definire una procedura di valutazione che renda possibile selezionare, ex ante, i progetti capaci di raggiungere le mete individuate con le strategie, ma anche di verificare, in itinere ed ex post, l’effettiva efficacia degli stessi.
In sostanza, se si condividono le considerazioni sin qui svolte, vuol dire che si approva anche l’osservazione, sempre più spesso proposta, relativa all’esigenza di poter operare in un ambiente sociale, politico ed economico in grado di condividere gli obiettivi della multifunzionalità. Trovare risposte adatte a soddisfare questa esigenza rappresenta, tra i diversi aspetti sinora affrontati, quello più complesso ed impegnativo. In ogni caso, un’esigenza da affrontare in tempi brevi, attraverso la presa in esame di alcuni aspetti decisivi: le competenze decisionali ed organizzative dei differenti livelli decisionali ed il livello di coordinamento tra i livelli stessi; l’efficacia organizzativa e gestionale delle istituzioni, il ruolo e l’intensità di partecipazione degli operatori locali, pubblici e privati, alla definizione ed all’attuazione delle azioni di indirizzo ed, in particolare, la volontà e la possibilità di superare la natura settoriale della politica di sviluppo rurale. Lo sviluppo dei territori rurali, infatti, deve essere realizzato utilizzando tutte le possibilità di intervento di cui dispone una regione, sia quelle di derivazione europea, nazionale che quelle proprie. Ciò con l’intento di definire uno stato di coesione sociale ed economica tra le varie realtà presenti al suo interno ed, in sintesi, di riuscire a costruire un modello di sviluppo regionale che risulti efficace, per tutti i cittadini, a cogliere le numerose opportunità che si presentano in un mondo sempre più globalizzato.
Non è improbabile ipotizzare, a questo punto, i pensieri di chi, nella sala, immaginando che possano esistere percorsi per lo sviluppo più pragmatici e che debbano essere trovate soluzioni concrete in tempi brevi, ha già classificato questo intervento come quello che non voleva essere: un mero esercizio di intenzioni, esposte in modo altezzoso come sanno fare gli accademici. Se così fosse, se, cioè, non saremo in grado di stimolare, ognuno di noi con la propria competenza ed il proprio ruolo, una trasformazione decisa della struttura agro-alimentare e delle strategie e delle politiche ad essa dedicate, è molto realistico pensare che un’evoluzione basata sui piccoli passi, sugli aggiustamenti delle posizioni acquisite e sui compromessi utilitaristici, non permetterà al settore di guadagnare la posizione di centralità che le compete, non per diritto divino, ma perché componente determinante per la definizione di quel nuovo modello di sviluppo a misura dei cittadini che l’Unione Europea reclama in termini molto chiari, almeno a parole.
Per non deludere chi vuole risposte concrete e semplici
Il prossimo appuntamento che l’Umbria dovrà affrontare è quello della costruzione del Piano di sviluppo rurale regionale, seguendo le regole stabilite a livello europeo e le indicazioni del piano strategico nazionale. A tal fine, a titolo di indicazione di massima, di seguito sono evidenziate le azioni che dovrebbero caratterizzare il percorso necessario per definire un Piano di sviluppo rurale regionale che sia, almeno nelle intenzioni, innovativo. Nel rispetto degli obiettivi propri dell’agricoltura multifunzionale, i momenti verso i quali si deve concentrare l’attenzione riguardano:
- l’analisi della situazione agro-alimentare regionale in atto in termini di punti di forza e di debolezza, anche con riferimento al contesto socio-economico generale della regione ed extra-regionale;
- l’individuazione degli obiettivi di sviluppo rurale che si intendono perseguire nel corso del prossimo periodo di programmazione; tenendo in considerazione che la politica dello sviluppo rurale deve essere complementare con le altre politiche comunitarie, in particolare con la politica dei mercati agricoli e con quella di coesione;
- la fissazione del criterio di base per l’accesso ai finanziamenti che, dovrebbe essere quello della presentazione di progetti di sviluppo da parte delle imprese singole, delle filiere e dei territori, lasciando liberi questi soggetti di richiedere interventi integrati su tutte le azioni previste nel piano,
- l’organizzazione dell’offerta dei servizi alle imprese inerenti agli aspetti amministrativi, finanziari, tecnici, di consulenza, formazione, orientamento commerciale. L’obiettivo è quello di determinare un maggiore coordinamento tra organismi diversi per ottimizzare le azioni e l’uso delle risorse e per evitare duplicazioni;
- l’istituzione di un Centro R&S regionale per l’agroalimentare, all’interno del quale è prevista la presenza dei rappresentanti delle istituzioni dedite alla ricerca, dei rappresentanti dei soggetti delle filiere produttive, dei soggetti che sono dediti alla promozione e valorizzazione delle produzioni agro-alimentari e dei rappresentanti delle istituzioni regionali. Lo scopo è quello di confrontarsi sulle direzioni efficaci per il rinnovamento strategico dell’agroalimentare regionale;
- la definizione delle priorità degli interventi da ammettere a beneficio pubblico, con riferimento ai soggetti che presentano le domande, alle filiere ritenute strategiche, alle aree sulle quali realizzare gli interventi ed alle tematiche ritenute più importanti;
- la verifica delle competenze della struttura amministrativa pubblica a gestire in modo efficace il piano di sviluppo, con particolare riferimento ai criteri ed alle procedure necessarie per attivare un sistema efficiente ed efficace di valutazione dei progetti di sviluppo.