Con il regolamento n. 1182/2007 è stata approvata, dopo una lunga gestazione, la nuova OCM ortofrutta che si sovrappone, in gran parte, a quella già vigente tracciata dai regolamenti n. 2200 e 2201 del 1996 a cui si sono aggiunte le innovazioni del regolamento n. 2699/2000. Forse vale la pena di ricordare i capisaldi della precedente OCM e poi illustrare le novità introdotte dal regolamento appena entrato in vigore.
I capisaldi della precedente OCM ortofrutta e i principali risultati
Il fulcro del vecchio regolamento erano le Organizzazioni di Produttori (OP), e questa non è una novità perché lo erano anche nel regolamento base 1035/72, mentre la vera innovazione erano i Programmi Operativi, nei quali le OP dovevano presentare programmi quinquennali di sviluppo per obiettivi ed aree ben definite dal regolamento, da attuarsi in regime di cofinanziamento tra UE, OP e soci delle OP, attraverso la costituzione di un Fondo di Esercizio, dove confluivano tutte le risorse, appoggiato e gestito in un conto corrente bancario dedicato. Il cofinanziamento della UE poteva raggiungere il 50% dei fondi necessari all’attuazione del Programma, con un limite fissato al 4,1% del valore della produzione commercializzata da ciascuna OP beneficiaria.
Altro caposaldo era l’introduzione delle Organizzazioni Interprofessionali destinate a migliorare la trasparenza del mercato e a garantire il coordinamento delle relazioni di filiera tra produzione, trasformazione e commercializzazione attraverso la conclusione di accordi interprofessionali e di contratti tipo. Questo progetto organizzativo della filiera ortofrutticola proposto dal regolamento n. 2200/96 si realizzava anche con la creazione delle cosiddette circoscrizioni economiche, aree caratterizzate da condizioni di produzione e commercializzazione omogenee, dove le OP rappresentative dei produttori e delle produzioni dell’area avrebbero potuto chiedere allo Stato l’estensione anche ai non aderenti delle regole di ritiro e di vendita della produzione applicate ai propri soci.
Nel settore dei prodotti trasformati le misure più importanti da comparare con le novità introdotte dalla OCM del 2007 non sono quelle previste nel regolamento n. 2201/96, perché superate successivamente dal regolamento n.2699/2000. Questo regolamento ha tolto il regime delle quote assegnate alle industrie di trasformazione del pomodoro, sostituito con un meccanismo di soglie nazionali, e ha trasformato l’aiuto pagato alle industrie per pomodoro, pesche e pere in un aiuto erogato direttamente ai produttori tramite le OP.
Sembra opportuno aggiungere alcune note sugli effetti più evidenti di queste misure nel nostro paese. Dopo un avvio lento della trasformazione in OP delle esistenti associazioni di produttori e della costituzione di nuove a causa degli alti parametri fissati dalla legge nazionale (art. 40, comma 2, punto a, della legge n. 128/98) - almeno 100 produttori e 10 milioni di ECU di fatturato - con l’obiettivo di spingere verso una maggiore concentrazione dell’offerta, la revisione della norma (art. 16, legge n.25/1999), che li ha riportati entro i limiti fissati dal regolamento n. 412/97 - 40 produttori e 1,5 milioni di ECU - ha favorito la proliferazione di nuove OP (1). Per avere alcuni dati, basta considerare che nel 1998 le OP ortofrutticole che avevano presentato il Programma Operativo erano 118 per una produzione commercializzata di 2,2 miliardi di Euro, mentre nel 2006 erano diventate 239 per un valore della produzione commercializzata superiore a 3,6 miliardi di Euro. Se si considera che nel 2006 il Fondo di Esercizio finale, vale a dire ammesso e accertato ai fini delle azioni previste e attuate nel corso dell’anno, è stato superiore a 182 milioni di Euro (2), comprensivo dell’importo dell’aiuto e dei contributi finanziari dei soci dell’OP, si può avere la misura dell’impatto che ha avuto l’impiego del Fondo di esercizio per attuare le azioni previste dai Programmi Operativi, che vanno dal rinnovo degli impianti, alle azioni per aumentare l’efficienza delle imprese, per sostenere e promuovere la penetrazione nel mercato e per migliorare l’impatto ambientale. Oltre alle azioni previste nei Programmi Operativi le spese del Fondo Esercizio potevano essere dirette ad effettuare anche ritiri di mercato, in misura decrescente rispetto all’ammontare complessivo del Fondo e, in concreto, effettuati con una incidenza marginale rispetto al totale dei fondi impiegati.
A parte l’importante impatto sullo sviluppo della struttura e del potenziale produttivo che hanno avuto gli investimenti dei Programmi Operativi finanziati dal Fondo di Esercizio, si deve riconoscere che l’attuazione dell’OCM ortofrutta del 1996 non ha modificato, o ha modificato molto poco, l’organizzazione dell’offerta della nostra ortofrutticoltura. Come è stato osservato da altri, le nostre OP presentano ancora una distribuzione e una organizzazione sul territorio non sempre in linea con l’importanza che l’ortofrutticoltura ha nelle diverse regioni. Ad esempio, la concentrazione di OP in Emilia-Romagna e Trentino Alto Adige per numero e dimensione è certamente coerente con l’importanza che l’ortofrutticoltura ha in queste regioni, ma certamente non avviene lo stesso in altre, soprattutto meridionali, dove il settore necessiterebbe di una più forte concentrazione e organizzazione dell’offerta (3). Come dato finale su cui riflettere, l’Italia, il più importante produttore di ortofrutticoli d’Europa, raggiunge una concentrazione della propria produzione nelle OP attorno al 30% (4), rispetto a una media del 33,7 nella UE 25, inferiore a Olanda, Francia, Spagna e persino all’Inghilterra (5).
Questo inadeguato sviluppo dell’organizzazione dell’offerta nel settore ortofrutticolo del nostro paese non dipende però dalle inefficienze dell’OCM ortofrutta del 2006, ma ha una lunga storia legata alle resistenze delle organizzazioni professionali agricole e anche del mondo cooperativo italiano di fronte alla nascita di un terzo soggetto destinato ad organizzare gli agricoltori. Purtroppo questo terzo soggetto, così era stato sentito, veniva considerato un concorrente dalle altre forme organizzate, mentre doveva essere accolto come uno strumento capace di rafforzare le potenzialità già presenti nell’organizzazione dell’offerta nazionale, come quelle rappresentate dalla cooperazione. Il riconoscimento della natura di OP poteva significare, infatti, un rafforzamento degli strumenti di aggregazione disponibili e dei compiti che le imprese cooperative possono svolgere. Ovviamente la mancanza di una domanda proveniente dal mondo agricolo organizzato e le ovvie resistenze provenienti da quello non organizzato non hanno spinto Governo e Regioni a legiferare con convinzione per dare alle OP a livello nazionale una struttura giuridica adeguata ai compiti che avrebbero dovuto svolgere e incentivi sufficienti per favorire la loro nascita e aumentarne la capacità organizzativa (6).
Una dimostrazione dell’insufficiente attenzione allo sviluppo dell’organizzazione dell’offerta in agricoltura si può anche ritrovare nella mancata individuazione delle circoscrizioni economiche che avrebbero dovuto costituire l’area di riferimento dell’azione delle OP per estendere ai non associati norme di comportamento in linea con gli obiettivi di interesse generale da esse rappresentati e nel ritardo, rispetto ad altri paesi comunitari, con cui il mondo agricolo è riuscito a creare la prima e unica organizzazione interprofessionale del settore ortofrutticolo che peraltro svolge, per il momento, compiti piuttosto limitatati e non significativamente incidenti sul mercato.
Su questo punto bisogna riconoscere che qualche cosa è cambiato. Le innovazioni introdotte dalla cosiddetta Legge di Orientamento (D.Lgs. n. 228/2001), a cui è seguito il D.Lgs. 27 maggio 2005, n. 102, Regolazione dei mercati agroalimentari, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera c) della legge 7 marzo 2005, n. 38, hanno dato un assetto più certo alla natura delle OP, che ora devono assumere forma giuridica societaria, e hanno introdotto nuovi strumenti per regolare i rapporti interprofessionali, rappresentati dagli accordi di filiera e dai contratti quadro, che costituiscono le linee di indirizzo e gli atti contrattuali di tipo collettivo che possono rafforzare la responsabilità e la capacità negoziale delle OP. Ovviamente non basta la norma per dare impulso all’organizzazione dell’offerta, bisogna che ci sia anche la volontà delle parti interessate.
Le novità della nuova OCM ortofrutta e le sue prime applicazioni
La nuova OCM ortofrutta, approvata con il regolamento n. 1182/2007, può certamente aiutare in questa direzione, perché conferma e rinforza il ruolo delle OP. Nel Titolo III, Organizzazioni di Produttori, oltre a non prevedere più la costituzione di OP per categoria di prodotto, ma solo che i prodotti ortofrutticoli interessati sono sia quelli freschi che trasformati, aggiunge un nuovo obiettivo ai Programmi Operativi, la prevenzione e la gestione delle crisi, stabilendo che, qualora le misure previste per raggiungere questo obiettivo siano realizzate, l’aiuto finanziario comunitario destinato al Fondo di Esercizio può essere portato dal 4,1% al 4,6% del valore della produzione commercializzata.
Tale obiettivo è particolarmente importante dopo le crisi conosciute da alcune produzioni frutticole negli anni 2004 e 2005 (pesche, nettarine e uva da tavola). Inoltre, le misure non consistono soltanto nel ritiro dal mercato, ma comprendono (art.9): la raccolta prima della maturazione o la mancata raccolta, la promozione e comunicazione, le iniziative di formazione, l’assicurazione del raccolto e il sostegno a fronte delle spese amministrative a fronte della costituzione di fondi comuni di investimento.
Con riferimento al recente documento dell’Health Check, il quale presenta il caso della prevenzione e gestione del rischio dell’OCM ortofrutta, come un esempio delle misure complementari che la Commissione ritiene debbano essere attivate a sostegno del disaccoppiamento da finanziarsi con risorse provenienti dalla modulazione, vale a dire dal II° Pilastro, si può osservare che la gestione del rischio, come delineata nell’OCM ortofrutta, riguarda solo le crisi “prevedibili”, mentre l’Health Check considera anche le crisi “imprevedibili”, per le quali non si può pretendere che le OP destinino risorse prelevate dal proprio Fondo di Esercizio (7).
Altro punto molto significativo per rafforzare il ruolo di organizzatori dell’offerta delle OP e per dare alla loro azione un quadro programmatico che vada al di là degli obiettivi della singola OP, è contenuto nell’art. 12, Disciplina e strategia nazionali applicabili ai programmi operativi, il quale stabilisce che gli Stati membri devono elaborare una strategia nazionale relativa ai Programmi Operativi delle OP, garantendo che le diverse azioni rispondano ai requisiti di complementarietà, coerenza e conformità stabiliti dal regolamento n. 1698/2005.
Tale strategia deve comprendere i seguenti elementi:
- analisi della situazione in termini di punti di forza e debolezze e potenziali di sviluppo;
- giustificazione delle priorità adottate;
- obiettivi e strumenti dei programmi operativi, nonché indicatori di rendimento;
- valutazione dei programmi operativi;
- obblighi di notifica a carico delle organizzazioni di produttori.
Come si può notare tale schema si rifà a quello tracciato dal regolamento n. 1698/2005 per i piani di sviluppo rurale, e se riuscirà a trasferire i contenuti delle linee strategiche in concrete azioni programmatiche delle OP potrà rappresentare forse il primo esempio di strumento per misurare l’efficienza e l’efficacia degli interventi di mercato di una OCM in un quadro di compatibilità con gli obiettivi fissati dal II° Pilastro.
L’inclusione nei Programmi Operativi della prevenzione e gestione delle crisi e la definizione di strategie nazionali alle quali i Programmi Operativi devono adeguarsi, dovrebbero rendere non più rinviabile la delimitazione delle circoscrizione economiche e l’applicazione delle procedure per l’estensione delle regole ai produttori non aderenti alle OP, previste anche da questo regolamento (art. 14). Dato che i Programmi Operativi saranno compatibili con la strategia nazionale è evidente che le azioni che da essi discendono corrispondono ad un interesse più generale di quello rappresentato dai soli aderenti, per cui anche i non soci dovrebbero essere chiamati ad attenersi alle regole e a contribuire alla realizzazione di azioni che hanno una ricaduta di interesse generale come, ad esempio la prevenzione e la gestione delle crisi.
Gli articoli relativi alle Organizzazioni e accordi interprofessionali (artt. 20, 21 ,22) non sono stati significativamente modificati rispetto al precedente regolamento n. 2200/96: si tratta soltanto di darne attuazione a livello nazionale, ma ciò dipenderà dal ruolo che le OP riusciranno concretamente a svolgere nell’organizzazione dell’offerta, risultato che dipenderà dalla volontà del mondo agricolo organizzato e dai supporti normativi messi in atto da Stato e Regioni.
Dove il regolamento n. 1182/2007 è veramente innovativo, è nella introduzione anche nell’OCM ortofrutta della misura del disaccoppiamento con riferimento ai comparti interessati dalla erogazione di aiuti diretti, come quelli dei prodotti trasformati, a cui ha aggiunto il superamento del limite imposto dall’art. 51 del regolamento n. 1782/2003, che considerava superfici non ammissibili al pagamento unico aziendale (PUA) quelle destinate alle produzioni ortofrutticole.
Queste sono le misure che hanno fatto sorgere le maggiori resistenze negli Stati membri interessati, in particolare nel nostro, soprattutto per il pomodoro, che riceveva ben il 50% del ricavo unitario dall’aiuto comunitario. La conclusione è stata che la Commissione ha accettato di inserire nel regolamento n.1182/2007 la previsione di un periodo transitorio per l’applicazione del disaccoppiamento totale per i prodotti destinati alla trasformazione, fino al 2011 per il pomodoro e fino al 2012 per gli altri prodotti (pere, pesche, prugne e agrumi), data entro la quale gli Stati membri avrebbero potuto adottare anche il regime di disaccoppiamento parziale. Il regolamento n. 1182/2007 ha modificato (art. 52) , infatti, il regolamento n. 1782/2003 integrandolo con l’art. 68 ter, con l’art. 110 unvicies, con l’art. 110 duovicies, nonché con l’allegato VII, lettera M, e ha stabilito (comma 1) che gli Stati membri potevano decidere entro il 1° novembre 2007, di mantenere per il pomodoro una quota accoppiata dell’aiuto, purché non eccedente il 50% del corrispondente massimale nazionale. Per gli altri prodotti (comma 2) gli Stati membri potevano decidere, entro la stessa data, di mantenere l’aiuto totalmente accoppiato fino al 31 dicembre 2010, purché dopo, nel 2011 e nel 2012, non superasse il 75% della corrispondente quota del massimale nazionale.
Con successivi decreti il Ministero dell’agricoltura ha dato attuazione a tali disposizioni. Il D.M. n. 1540 del 22.10.2007 ha stabilito che alla produzione di pomodoro degli anni 2008, 2009, 2010 venga corrisposto un aiuto fissato nella misura del 50% del massimale nazionale, con la riserva che dopo il primo anno il Ministero, d’intesa con la Conferenza Stato Regioni, potrà verificarne l’efficacia per apportarvi eventualmente dei perfezionamenti, che in pratica potrebbero comportare una riduzione. Il criterio adottato per l’assegnazione dei titoli all’aiuto è quello “storico”, calcolato sulla base di un periodo rappresentativo che comprende le campagne di commercializzazione 2004/2005, 2005/2006 e 2006/2007.
Il D.M. n. 3635 del 21 dicembre 2007 ha stabilito invece che ai produttori di agrumi, con effetto dal 1° gennaio 2008, venga applicato il disaccoppiamento totale e che i relativi titoli dell’aiuto per ettaro vengano assegnati sulla base della superficie agrumicola delle aziende nell’anno 2006. Le ragioni portate dal D.M a sostegno di questa scelta sono che l’aiuto accoppiato sosterrebbe soprattutto la produzione di minore qualità non destinata alla commercializzazione come fresco, mentre si vuole incentivare il settore a confrontarsi con la realtà del mercato.
Il D.M. n. 1537 del 22.10.2007 ha stabilito che per le pere e le pesche da industria l’aiuto resta accoppiato per gli anni 2008, 2009, 2010 e erogato solo a produttori associati in OP, mentre nel 2011 e 2012 l’aiuto sarà totalmente disaccoppiato e i relativi titoli per ettaro calcolati in base alla media delle produzioni destinate alla trasformazione nelle campagne 2004/2005,2005/2006 e 2006/2007. Per queste produzioni il D.M. sostiene che il mantenimento degli aiuti accoppiati per ettaro nei primi tre anni è giustificato dal fatto che l’Italia svolge un ruolo primario nella produzione comunitaria di frutta allo sciroppo e che è necessario consentire un passaggio graduale al regime di aiuti non più collegati alla produzione.
Per ultimo, il D.M. n. 1539 del 22/10/2007 ritiene che anche per le prugne da industria sia auspicabile un passaggio graduale al disaccoppiamento, per cui stabilisce che nei primi tre anni l’aiuto resti totalmente accoppiato e negli anni 2011 e 2012 venga ridotto al 75% del massimale nazionale. Il calcolo dei titoli all’aiuto per ettaro è effettuato sulla base di un periodo rappresentativo che comprende le campagne 2004/2005, 2005/2006, 2006/2007.
Salvo il caso degli agrumi, il Ministero ha scelto per gli altri prodotti trasformati di adottare un periodo transitorio prima di passare al disaccoppiamento totale, al fine di favorire un atterraggio morbido della filiera verso il regime di pagamento unico aziendale. Le resistenze maggiori contro la scelta di passare attraverso un periodo transitorio sono venute a livello nazionale, e anche negli altri paesi produttori, soprattutto dai produttori di pomodoro da industria.
Pare, tuttavia, che vi siano buoni argomenti che possono giustificare la scelta Ministeriale. Limitandoci al pomodoro, finora l’aiuto rappresentava circa il 50% del ricavo unitario del produttore agricolo e costituiva un formidabile strumento per contenere i costi di acquisto della materia prima da parte dell’industria di trasformazione. Industria impegnata al Nord in misura preponderante nella produzione di concentrato di pomodoro, semilavorato povero e soggetto a una crescente concorrenza internazionale, e dotata di impianti, soprattutto nel bacino meridionale, in gran parte da rinnovare per portarli a standard comparabili a quelli della concorrenza anche europea (Spagna) o per competere con la produzione proveniente dai paesi a più basso costo di manodopera.
In uno studio promosso dall’INEA (Arfini, Donati, Giacomini, 2007) con l’obiettivo di stimare il possibile impatto del passaggio al disaccoppiamento totale per il pomodoro da industria, è stato adottato un modello di programmazione matematica agli ordinamenti colturali e ai dati tecnico-economici di 93 aziende dell’Emilia Romagna, Veneto e Puglia con coltivazione di pomodoro. Lo studio arrivava a stimare un forte crollo della coltura del pomodoro da industria (-78,1%) nelle regioni del Nord e persino del 92,0% in Puglia qualora venisse applicato il disaccoppiamento totale. Lo stesso studio stimava che, a seguito della nuova distribuzione delle colture in azienda dovuta ai mutati rapporti di prezzo tra le colture, il margine lordo e quindi il reddito per azienda aumentava del 12,1% nelle aziende collocate nelle due regioni settentrionali e perfino del 47% in Puglia a causa della forte ripresa del grano duro e del consolidamento degli aiuti nel pagamento unico. I risultati economici danno certamente ragione a coloro che sostengono la bontà del regime di disaccoppiamento totale perché permette agli agricoltori di scegliere liberamente le colture che ritengono più convenienti, ma è anche vero che una caduta della coltura del pomodoro nella misura stimata potrebbe portare al crollo della filiera italiana del pomodoro. Ovviamente i sostenitori del disaccoppiamento totale possono rispondere che ciò non interessa gli agricoltori, che potrebbero trovare migliori redditi in altre scelte colturali. Questa pare una risposta piuttosto miope perché l’imprenditore non può inseguire continuamente nuove opportunità di mercato, ma deve cercare di creare stabili e convenienti sbocchi commerciali alla sua produzione, come dimostra lo studio citato, che ipotizza un possibile e graduale aumento dei prezzi pagati dall’industria, situazione realizzabile in presenza della ristrutturazione e del rinnovamento dell’industria nazionale di trasformazione.
Le vicende di questi giorni (8) della contrattazione del pomodoro tra OP rappresentative della produzione di pomodoro e associazioni dell’industria di trasformazione, pur con forti contrasti tra le parti, dimostrano che la trattativa si è posizionata su prezzi che vanno da 72 Euro/ton offerti dall’industria contro 80-88 Euro/ton richiesti dalla produzione, che incasserà anche il 50% dell’aiuto ricevuto nella precedente campagna oltre all’altro 50% già consolidato nel pagamento unico aziendale, mentre il prezzo pagato dall’industria nella precedente campagna si aggirava su 49 Euro/ton.
Con un altro decreto, D.M. n. 1535 del 22/10/2007, il Ministero ha anche disciplinato (art. 52, par. 8) il superamento dei limiti imposti all’uso agricolo del suolo al fine di riconoscerne l’ammissibilità per l’assegnazione dei titoli del pagamento unico per ettaro precedentemente disposto dall’art. 51 del regolamento 1782/03. Ha stabilito, infatti, che fino al 2010 le superfici dichiarate al regime di pagamento unico non possono essere utilizzate per la produzione di patate da consumo, di vivai e di frutta in coltura permanente, ad eccezione degli agrumi. Il mantenimento in via transitoria di questo divieto è giustificato, come è scritto nel D.M., dal fatto che la sua rimozione potrebbe provocare una crescita eccessiva del volume di produzione delle colture prima elencate. Quando era stata resa nota la bozza di regolamento contro tale disposizione erano sorte molte reazioni negative da parte del mondo agricolo che temeva che la possibilità di effettuare colture ortofrutticole su terreni già beneficiari del pagamento unico avrebbe portato a un aumento non controllato delle produzioni interessate e a una forma di concorrenza sleale da parte di quei produttori che avrebbero potuto beneficiare anche di quell’aiuto al reddito.
In realtà tale timore è stato successivamente superato, salvo il mantenimento di un limite di carattere transitorio e solo per alcune colture, perché ci si è resi conto che le scelte di investimento sono guidate dai prezzi relativi delle diverse produzioni e non dal pagamento unico aziendale, che è un diritto già consolidato nel reddito del beneficiario.
Alcune considerazioni conclusive
Due sono gli aspetti più interessanti della nuova OCM ortofrutta: il primo, inserendo i Programmi Operativi delle OP nelle linee strategiche nazionali, il regolamento n. 1182/2007 colloca le politiche di mercato all’interno di un quadro di carattere programmatorio che non può essere scollegato con gli obiettivi di sostegno allo sviluppo rurale e di tutela ambientale propri del II° Pilastro. Il secondo consiste nella decisione di applicare anche in questo settore la scelta di fondo della Riforma Fischler, vale a dire il disaccoppiamento degli aiuti. Un ulteriore passo avanti in questa direzione riguarda la previsione (art. 52, par. 1, punto a; All. II°, par. 2, punto 4) che questi aiuti vadano a concorrere alla formazione del pagamento unico aziendale non solo degli originari beneficiari dei pagamenti per i prodotti trasformati, ma di tutti i produttori ortofrutticoli, superando in certa misura il criterio “storico” nel regime di calcolo del pagamento unico e anticipando le indicazioni verso la “regionalizzazione” dell’Health Check.
Per quanto riguarda il nostro Paese bisogna sperare che la nuova OCM possa fornire un ulteriore incentivo all’organizzazione dell’offerta attraverso il rafforzamento delle OP. E’ vero che l’interprofessione ha dimostrato di non essere una formula sicuramente vincente, ma è ancora l’unica forma di organizzazione di filiera che può consentire di migliorare la forza contrattuale della produzione nei confronti delle fasi più a valle, il cui potere di mercato sta diventando sempre più incontrollabile.
Note
(1) Su questo punto si vedano i volumi pubblicati dall’INEA (A.Bertazzoli, C.Giacomini, G.Petriccione 2004; A. Bertazzoli, G.Petriccione 2006) e il sito www.inea.it/ocm/ortofrutta/, nei quali l’analisi sullo stato di attuazione dell’OCM ortofrutta approvato nel 1996 è molto più approfondita e dettagliata.
(2) I dati sono di fonte INEA; da considerare che nel calcolo del Fondo di Esercizio manca quello di 25 OP che non hanno fornito il dato.
(3) Nel 2006 a fronte di una dimensione media del valore della produzione commercializzata di 6 milioni di Euro delle 40 OP attive in Sicilia, la dimensione media delle 18 OP attive in Emilia Romagna era di 60 milioni di Euro. Nello stesso anno in Emilia Romagna e Trentino Alto Adige era concentrato quasi il 50% dell’ammontare complessivo dei fondi disponibili sui Fondi di Esercizio.
(4) Era circa il 25% nel 1998.
(5) DG AGRI sulla base dei dati comunicati dagli Stati Membri.
(6) Su questo tema la letteratura è molto ricca, per tutti ricordiamo un’analisi dell’evoluzione storica di queste esperienze (Giacomini, 2000).
(7) Sul concetto di crisi “prevedibile” e “imprevedibile” si veda la Comunicazione della Commissione al Consiglio relativa alla gestione dei rischi e delle crisi nel settore agricolo, COM (2005)74.
(8) Si veda Agrisole del 8-14 febbraio 2008, n. 6.
Riferimenti bibliografici
- Arfini F., Donati M., Giacomini C. (2007), Possibili impatti della nuova OCM ortofrutta sulla filiera del pomodoro da industria in Italia, Working Paper n. 23, INEA, Roma
- Bertazzoli A., Giacomini C.,Petriccione G. (2004), Il sistema ortofrutticolo italiano di fronte ai nuovi scenari competitivi, INEA, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma
- Bertazzoli A., Petriccione G. (2006), OCM ortofrutta e processi di adattamento delle organizzazioni di produttori: materiali e metodi di valutazione, INEA, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma
- Giacomini C. (2000), “Le organizzazioni professionali ed economiche degli agricoltori nel Novecento”, in AA.VV, L’Italia Agricola nel XX Secolo. Storia e scenari, Meridiana Libri, Donzelli Editore, Roma