Introduzione
Lo scorso 15 ottobre 2008 la Commissione europea ha pubblicato l’atteso “Green Paper” sulla qualità dei prodotti agricoli, documento con il quale si propone di lanciare una fase di riflessione, approfondimento e coinvolgimento sulle politiche e sulle modalità più utili al fine di “proteggere e promuovere la qualità dei prodotti agricoli” senza creare inutili costi o impegni addizionali per gli agricoltori e gli altri soggetti delle filiere. Con questo atto la Commissione ha aperto formalmente una fase di consultazione, sulla adeguatezza o meno degli attuali strumenti presenti nella normativa dell’Unione Europea, sui possibili miglioramenti da apportare e sulle eventuali nuove iniziative da lanciare.
Il documento è suddiviso in tre parti: la prima è relativa al tema dei requisiti minimi e degli standard commerciali comuni dell’UE per i prodotti agricoli; la seconda si concentra sulle problematiche connesse con le indicazioni geografiche (DOP e IGP, Denominazione di Origine Protetta e Indicazione Geografica Protetta), le attestazioni di specificità (STG, o Specialità Tradizionali Garantite), i prodotti biologici ed i prodotti delle regioni periferiche; nell’ultima parte, infine, si affrontano i temi relativi agli altri schemi di certificazione, prevalentemente promossi e adottati da privati, di uso abbastanza comune anche nell’ambito agroalimentare.
Prendendo spunto da questo documento e dai temi affrontati, con questo contributo ci si propone di sviluppare anzitutto alcune considerazioni sull’evoluzione delle politiche UE per la qualità dei prodotti agro-alimentari; successivamente ci si sofferma sulle ragioni economiche che possono giustificare un’attenzione a questo tema maggiore di quella ad esso riservata in passato, ed infine si svolgono alcune valutazioni su alcuni problemi che il Green Paper non sembra affrontare in modo adeguato.
La difficile affermazione di una politica agricola comune per la valorizzazione della qualità
Le politiche per la valorizzazione dei prodotti agro-alimentari di qualità, anche nell’Unione Europea, si sono affermate piuttosto tardi nel percorso della Politica Agricola Comune. Se si escludono specifiche misure per il settore vitivinicolo, infatti, è solo nel 1991 che viene emesso il primo regolamento relativo alla identificazione, tutela e valorizzazione dei prodotti biologici (reg. 2092/91) e bisogna attendere la riforma Mac Sharry dell’anno successivo per giungere alla definizione e tutela, a livello UE, delle denominazioni di origine per i prodotti agroalimentari, le ormai ben note DOP e IGP, con il regolamento 2081/92. Parallelamente, sempre “a margine” della prima profonda riforma degli strumenti che per decenni avevano guidato e sostenuto l’agricoltura europea, tra le cosiddette misure di accompagnamento, furono introdotti per la prima volta anche sostegni specifici per i produttori che decidevano di passare alla produzione di prodotti agroalimentari “di qualità”, quali i prodotti bio e quelli ottenuti con tecniche di produzione integrata (Reg. 2078/92).
La politica UE per la qualità, quindi, nasce in coincidenza della crisi della PAC tutta incentrata sui mercati delle materie prime agricole e su strategie competitive basate esclusivamente sul contenimento dei costi di produzione e sul miglioramento delle strutture aziendali e di filiera, ma sempre in vista di un recupero di competitività basato sui costi. Per i primi decenni, quindi, la PAC ha considerato i prodotti agricoli solo come prodotti indifferenziati e indifferenziabili.
Per la verità anche i primi passi in direzione di una politica di valorizzazione delle opportunità di differenziazione dei prodotti agroalimentari furono molto rallentati; dopo l’approvazione del primo regolamento sulle DOP e le IGP del 1992, furono necessari ben quattro anni prima di ottenere il formale riconoscimento di DOP per le produzioni storiche, quali ad esempio Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Prosciutto di Parma, che già avevano riconoscimenti simili in Italia e Francia e che avrebbero dovuto avvantaggiarsi di procedure semplificate e accelerate. In realtà, le pressioni in direzione contraria da parte di imprese industriali della trasformazione alimentare e dei paesi più interessati a queste realtà produttive erano, e forse in parte sono ancora, molto forti. Basti solo pensare al caso del formaggio greco “Feta” che dopo anni di sfruttamento industriale principalmente da parte di produttori europei ma non greci, è riuscito ad ottenere la DOP solo dopo lunghissimi anni di contrasti nell’ottobre 2002.
Altro elemento da considerare, nella ricostruzione dello sviluppo di una strategia dell’UE sulle produzioni agroalimentari di qualità, è la lunga assenza di specifiche misure di sostegno anche nell’ambito della politica di sviluppo rurale avviata in modo più organico con il reg. 1257/99 approvato nel pacchetto di misure noto come Agenda 2000. Bisogna attendere l’ultima riforma della PAC, quella appunto del 2003, per trovare, finalmente, qualche specifica anche se timida misura a sostegno delle produzioni di qualità.
La qualità come strategia per l’agro-alimentare
La riforma Fischler del 2003, la cui applicazione è iniziata in Italia nel 2005, ha lanciato una grande sfida all’intero sistema agroalimentare nazionale: quella di adeguarsi rapidamente ed efficacemente ad un cambiamento profondo di contesto competitivo che imporrà modificazioni, talvolta drastiche, delle strategie competitive delle aziende agricole, delle filiere, degli stessi territori.
Come anticipato già qualche anno orsono (Canali, 2004) il disaccoppiamento degli aiuti “tra gli altri, avrà certamente anche i seguenti effetti:
1. renderà gli agricoltori molto più attenti ai segnali di mercato;
2. porterà ad un’ulteriore accentuazione dell’instabilità dei prezzi dei prodotti agricoli;
3. renderà quindi gli imprenditori agricoli più attenti a tutte le possibilità di incremento dei pezzi di vendita dei loro prodotti mediante la risposta a una domanda di qualità sempre più multiforme e complessa”.
Il nuovo contesto, quindi, è stato uno degli elementi che hanno favorito una maggiore attenzione anche alle politiche di sostegno delle produzioni agroalimentari di qualità che peraltro, possono anche essere promosse con interventi che non richiedono necessariamente ingenti risorse (Canali, 1998).
Come anticipato, con la riforma del 2003, l’UE ha messo a disposizione di Stati membri e Regioni, nell’ambito del nuovo regolamento sullo sviluppo rurale, nuovi strumenti utili a questo fine quali, ad esempio, un sostegno agli agricoltori che decidano di entrare in sistemi di qualità comunitari o nazionali, e un contributo importante alle iniziative di informazione e promozione di questi prodotti presso i consumatori.
Ma una strategia di valorizzazione delle produzioni alimentari di qualità richiede soprattutto un approccio complessivo, aziendale e di filiera; per questo è ancor più importante, sempre nel contesto dell’applicazione delle misure di sviluppo rurale, adottare un approccio complessivo ed integrato che unisca in modo sinergico diversi elementi.
Il “Green Paper”: le lacune e le debolezze principali
Rispetto ai contenuti del “Green Paper” si possono individuare, almeno in prima approssimazione, quattro grandi temi che meritano ulteriori sviluppi ed approfondimenti, o in quanto non affrontati in modo adeguato o non affrontati affatto.
DOP e IGP: i problemi dell’applicazione al settore vitivinicolo e le contraddizioni da risolvere
Le indicazioni geografiche (DOP e IGP), unitamente al biologico, sono certamente le certificazioni di qualità più importanti a livello UE. Proprio per questo la loro analisi sembra veramente solo accennata e troppo poco approfondita.
Da un lato, è importante ed apprezzabile il richiamo esplicito dell’impegno dell’UE a ricercare accordi commerciali su basi bilaterali volti ad ottenere il mutuo riconoscimento delle Indicazioni Geografiche agroalimentari in un numero sempre più ampio di paesi, come pure a perseguire con determinazione e costanza il raggiungimento di questo stesso obiettivo nell’ambito del round negoziale attualmente in corso dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC, o WTO).
Tuttavia non si fa praticamente alcuna menzione ai problemi enormi di applicazione di questo sistema di Indicazioni geografiche (DOP e IGP) anche ai vini, deciso con l’ultima riforma della relativa Organizzazione Comune di Mercato (OCM) approvata nel dicembre 2007 e pubblicata nel 2008.
Se il percorso verso un’unificazione delle indicazioni geografiche per tutte le produzioni agroalimentari, compresi vini e bevande, può essere condivisibile, le modalità operative di questo processo e i problemi di “reputazione” che comporterà la scomparsa dei marchi ben conosciuti su diversi mercati, quali le DOC e le DOCG, non saranno privi di conseguenze. Altro aspetto particolarmente rilevante, e assolutamente trascurato dal documento, è quello delle modalità concesse ai produttori, anche attraverso loro idonee rappresentanze, di controllare quantità e qualità delle produzioni, in modo di evitare gravi crisi di mercato e forti fluttuazioni dei prezzi che potrebbero minare alla base le possibilità di successo di queste produzioni. Il tema è certamente molto delicato, ma è ormai ora di affrontarlo in modo chiaro e puntuale, pur ponendo la dovuta attenzione ai problemi di antitrust che si potrebbero eventualmente determinare.
Sulla necessità di adottare una certificazione UE per la produzione integrata
Il concetto di produzione integrata si è evoluto nel tempo fino a giungere ad una definizione ormai sufficientemente chiara e condivisa, almeno nei suoi principi ispiratori e nelle sue motivazioni tecniche ed ambientali. Gli obiettivi sono: ottimizzare gli interventi tecnici ed agronomici ricorrendo ad agrofarmaci di sintesi solo quando necessario e giustificato; integrare le diverse forme di gestione agronomica e di intervento sulle colture; ridurre, per quanto possibile, l’impiego dei diversi fattori di produzione, dagli agrofarmaci all’acqua e ai fertilizzanti, sia al fine di ridurre i possibili effetti negativi sull’ambiente, che per ridurre i costi di produzione e/o massimizzare la redditività delle colture, garantendo prodotti sicuri sia per i consumatori che per gli operatori e l’ambiente, in un’ottica di contenimento dei costi di produzione (Canali, 2008). Si tratta, quindi, di una produzione che si potrebbe altrimenti definire, in modo più facilmente comunicabile, “produzione sostenibile”.
Tuttavia, fino ad ora, con il termine di produzione integrata si sono identificate modalità produttive definite da diversi disciplinari di produzione, anche perché aventi varia origine e motivazione, sia tecnica che economica. Questa situazione ha ormai dimostrato tutti i suoi limiti ed i suoi costi, sia per gli operatori che per i consumatori finali; su queste considerazioni si stanno allineando, quindi, sia gli agricoltori che le imprese di confezionamento e/o trasformazione, come pure le grandi catene distributive. In questo contesto, diventa ormai decisivo poter giungere a nuove forme di certificazione ed identificabilità della produzione integrata, condivise a livello UE e quindi comunicabili.
Rispetto a questo tema, invece, il “Green Paper” non fa nessun cenno o riferimento, ma proposte in questa direzione dovrebbero certo venire, specie da un paese come l’Italia che svolge un ruolo particolarmente importante sia a livello di produzione che di commercio di prodotti ortofrutticoli.
Sulla possibilità di adottare una certificazione UE per le produzioni agroalimentari di montagna
Un altro tema non affrontato esplicitamente dal documento della Commissione è quello della possibilità di introdurre una certificazione, anche a livello UE, dei prodotti di montagna. Come è noto, infatti, già esiste una forma specifica di certificazione delle produzioni agroalimentari prodotte nelle regioni ultraperiferiche (ad esempio i territori d’Oltremare della Francia). In modo simile, si potrebbe forse procedere utilmente in questa direzione anche per i prodotti della montagna europea, cogliendo così a livello UE le opportunità che a livello nazionale il nostro Paese non è riuscito ad ottenere, nonostante l’approvazione di una legge nazionale che consentiva e consente questa possibilità.
Il tema del “made in”
Altro tema particolarmente importante è quello della identificazione, tutela e promozione dei prodotti agroalimentari ottenuti nell’Unione Europea, così come di quelli ottenuti nei singoli Paesi. Anche se non viene mai citato, il tema delle indicazioni “made in” riferito ai singoli paesi o all’UE è certamente sul tavolo della discussione.
Da un lato, l’indicazione del “made in UE” potrebbe consentire di risolvere il tema posto molto chiaramente nella parte iniziale del documento: l’UE, infatti, ad esempio con le misure della condizionalità, ha fissato requisiti minimi non solo relativi all’igiene e alla sicurezza dei prodotti agroalimentari, ma anche relativi alle tecniche di coltivazione, alla sostenibilità ambientale e alla sicurezza del lavoro, che non sono necessariamente applicabili ai prodotti di importazione. In questo caso, quindi l’indicazione di origine UE potrebbe acquisire un valore.
In modo analogo, ma anche questo non è in alcun modo menzionato nel Green Paper, l’indicazione di origine in singoli Paesi membri potrebbe contribuire a comunicare ai consumatori finali caratteristiche dei prodotti che essi potrebbero essere interessati ad apprezzare anche economicamente, una volta rese riconoscibili: si pensi ad esempio, a produzioni ortofrutticole ottenute in pieno campo e in condizioni climatiche di tipo mediterraneo, rispetto a prodotti di serra o ottenuti in coltivazioni forzate in altre parti d’Europa. Anche questo tema, certamente complesso, dovrà essere opportunamente posto sul tavolo della discussione.
Conclusioni
Il “Green paper” sulla qualità dei prodotti agricoli rappresenta anzitutto un importante segnale: la Commissione (e con essa l’intera Unione Europea) sembra essersi finalmente resa conto che il futuro dell’agricoltura e dell’agroalimentare europeo si giocherà non solo su strategie competitive, aziendali o territoriali, basate sui costi di produzione, ma anche, se non soprattutto, sulla differenziazione dei prodotti e quindi sulla capacità di produrre e comunicare correttamente ed efficacemente “la qualità”. Come si è cercato sinteticamente di mostrare, si tratta di un passaggio importante in quanto segna, o potrebbe e dovrebbe segnare, una nuova fase della politica agricola dell’UE.
Ad una prima, analisi il documento si presenta certamente ricco di spunti importanti, ma anche carente rispetto a diversi temi, alcuni dei quali ad un tempo importanti e controversi, sui quali il nostro Paese, in particolare, potrà e dovrà esprimere una propria posizione in modo possibilmente unito ed efficace, al fine di permettere ai produttori agricoli di ottenere una sempre migliore remunerazione per la propria capacità imprenditoriale, e ai consumatori di trovare con facilità le diverse varianti di prodotti agroalimentari ricercati ad un prezzo adeguato.
Riferimenti bibliografici
- Canali G. (1998), “I prodotti tipici nello scenario competitivo internazionale”, in Regazzi D. (a cura di), L’agricoltura italiana tra prospettiva continentale e mediterranea, Atti del XXXIII Convegno di Studi della SIDEA, Napoli, pp. 349-358.
- Canali G. (2004), “Qualità come strategia”, L’informatore agrario, n. 51, p. 7.
- Canali G. (2008), “The role of “integrated production” schemes in the new fruit and vegetable CMO: a tool for competitiveness, sustainability or oligopsony by large retail chains?”, paper presentato al 109th Seminario EAAE "The CAP after the Fischler reform: national implementations, impact assessment and the agenda for future reforms", Viterbo (Italy), 20-21 novembre.
- Commissione UE (2008), Green paper on agricultural product quality: product standards, farming, requirements and quality schemes, Com(2008) 641.[pdf]