Introduzione1
L’agricoltura biologica italiana offre ormai materiali di analisi che per sedimentazione storica, spessore di esperienze, varietà di produzioni interessate e accumulo di risultati di una ramificata attività di ricerca, consentono approfondimenti secondo molteplici chiavi di lettura. Il presente scritto riferisce i primi risultati dello studio relativo ad un campione di imprese biologiche, diretto a cogliere l’influenza che sugli assetti stratetici ed organizzativi delle stesse deriva dal loro incorporamento (embeddedness) istituzionale, in un periodo che sembra favorevole alla formazione di filiere locali. Più in dettaglio, le domande, reciprocamente connesse, che hanno animato la nostra esplorazione sono state le seguenti: a quali modelli transazionali (sul lato della vendita), cioè di filiera locale o extra-locale, sono conformati gli orientamenti strategici delle imprese in esame? Quali legami questi orientamenti hanno con le dotazioni di fattori produttivi e con l’offerta (anche) di servizi, culturali ed educativi (del tipo “fattoria didattica” o “aperta”), coerenti con la filosofia del biologico e suscettibili, a loro volta, di intrecci istituzionali specifici? Quale è il ruolo che in aspetti così rilevanti giuoca il radicamento territoriale delle imprese, e dunque i caratteri tanto delle politiche agricole (strutturali-regionali), quanto dell’ambiente produttivo e tecnologico, il cosiddetto Technological and Administrative Task Environment (TATE) (Benvenuti 19832), in cui esse sono immerse e dal quale risultano fortemente modellate?
La complessità di simili quesiti, insieme con una ricognizione teorica sulle letterature economica e sociologica, ha comportato, per la fase empirica del lavoro, la scelta di un segmento produttivo, l’ortofrutticolo, e di un orizzonte territoriale, le regioni Emilia-Romagna, Marche e Abruzzo, che dessero ampie garanzie circa la varietà dell’evidenza da scrutinare3.
Incorporamento istituzionale e produzione biologica
Il concetto di incorporamento istituzionale è stato messo a fuoco in alcuni studi delle connessioni esistenti fra l’attività d’impresa e la cornice istituzionale in cui quell’attività si svolge ed evolve (Di Maggio-Powell 1983; Fombrun 1986, 1988). Per cornice istituzionale (l’attività del TATE, con riguardo all’agricoltura) intendiamo qui ciò che si è soliti chiamare governance, ovvero la combinazione di meccanismi di regolazione i più vari (statuali, regionali, tradizionali-locali, mercatistici, organizzativi, etc. (Campbell et al., 1991), diretti a risolvere i problemi di coordinamento (ottica contrattuale) e le esigenze di cooperazione (ottica relazionale) posti dai soggetti che compongono un determinato sistema di produzione-offerta di merci. Per incorporamento si intende, poi, il processo con cui le imprese introiettano le prescrizioni della cornice istituzionale e, quindi, le esigenze dei soggetti (pubblici, privati e misti) che interagiscono con loro.
Sia per i nuovi economisti istituzionalisti, che per i cosiddetti nuovi sociologi del mercato è in primo luogo l’incertezza (da asimmetria informativa, ma non esclusivamente) che ne pervade le interazioni a modellare il comportamento degli agenti economici e, quindi, la forma e la governance delle transazioni cui essi danno vita. Per i primi l’incertezza funge da causa naturale del comportamento degli agenti e le istituzioni rappresentano delle entità indipendenti che si curano di garantire il rispetto delle regole tra le parti. Per i secondi, invece, l’incertezza si situa all’interno del contesto operativo, politico e culturale che gli stessi attori contribuiscono a formare e dal quale sono a loro volta condizionati a livello di obiettivi, strategie e indirizzi cognitivi (Beckert, 2009).
Per ciò che riguarda il comparto agro-alimentare, ai fenomeni di incertezza comuni a qualsiasi altro comparto si aggiungono quelli della sicurezza-salubrità (safety). Gli scandali che negli ultimi anni hanno minato la credibilità dell’agrimarketing (mucca pazza e pollo alla diossina in primis) sono valsi a seminare diffidenza (verso le stesse certificazioni) anche nei riguardi degli alimenti biologici, di cui, del resto, si sono ampiamente impadroniti i produttori più intensivi e la grande distribuzione (Guthman 2004, Baqué 2011).
In un simile stato di cose, gli strati salutisticamente più sensibili tanto del consumo, quanto della platea dei produttori stanno accrescendo la propria attenzione per le cosiddette filiere locali, ossia per tipologie di collegamento fra domanda e offerta imperniate sul contenuto fiduciario, e di condivisione culturale, dei legami di prossimità (Marsden et al. 2001, Renting et al. 2003, Murdoch and Miele, 1999; Seyfang, 2006). Il mondo dell’agricoltura biologica, che delle filiere locali è promotore-precursore, per così dire, naturale costituisce, a nostro avviso, un ambito di osservazione privilegiato di questa nuova tendenza, in modo speciale per leggere, e possibilmente interpretare, la pluralità organizzativa delle imprese.
I modelli transazionali individuati tramite la riflessione teorica preliminare e su cui si è poi cercato di orientare la fase survey della ricerca sono quattro (Tabella 1). Tre identificano dei tipi di filiera locale, caratterizzati da un mix di competizione e cooperazione (fra imprese, per l’uso di fattori produttivi e/o la fornitura di prodotti finiti, e fra imprese e operatori pubblici) e da rapporti con gli acquirenti volti a costruire rapporti stabili (meglio: relazioni). Ci riferiamo alla vendita (diretta) in azienda; alla vendita diretta che comporta un coinvolgimento stretto di diverse componenti della società locale (con una qualche forzatura da noi definita comunità) o in chiave regolatoria (i mercati contadini, che sono pur sempre una forma di mercato pubblico (Pagano 2000)), o tramite la formazione di gruppi di acquisto formali o informali (vendita con consegna a domicilio); e alla catena locale, cioè la vendita a dettaglianti, ristoranti o mense locali. Il quarto modello considerato è quello della filiera extra-locale, basato sulla fornitura e sub-fornitura a imprese manifatturiere trasformatrici, cooperative o grossisti che operano per catene lunghe e, attraverso legami esclusivamente funzionali, fanno valere un potere contrattuale dominante.
Tabella 1 - Modelli transazionali
Selezione delle imprese ed analisi statistica
Il campione oggetto4 di survey, con riferimento al 2010 e tramite somministrazione di questionario, ha compreso 60 imprese che esperti e tecnici del settore indicano di particolare successo e dinamismo e quindi in grado di fare luce sull’ortofrutticoltura “di punta” delle tre regioni selezionate. I suggerimenti dei quali ci si è avvalsi provengono per l’Emilia-Romagna da PROBER (Associazione di Produttori Biologici per l’Emilia-Romagna), per le Marche da CRA-ORA (Unità di ricerca per l’orticoltura di Monsampaolo del Tronto) e per l’Abruzzo dall’AIAB (Associazione Italiana di Agricoltura Biologica) - sede regionale.
Completato lo spoglio dei questionari raccolti e messa a punto la base dati relativa, le 60 imprese sono state classificate tramite analisi dei grappoli (cluster analysis5). I cluster ottenuti sono quattro e per la loro decifrazione (Tabella 2), oltre che le variabili adoperate nell’algoritmo di classificazione (variabili attive) abbiamo impiegato le più significative informazioni (variabili descrittive) inerenti alle strutture e ai lineamenti agronomici6.
Tabella 2 - Caratteristiche dei cluster
Per referenziare geograficamente i cluster (nel senso di individuarne una sorta di matrice territoriale) più della stratificazione ex-Regioni politico-amministrative (Emilia-Romagna, Marche ed Abruzzo), che sarebbe giustificata dal punto di vista delle politiche agricole-strutturali, si è rivelata utile la riaggregazione in altre tre aree: Emilia, Romagna - alte Marche (province di Pesaro-Urbino e Ancona), basse Marche (province di Macerata e Ascoli) - Abruzzo. Riaggregazione che ci è stata suggerita, in particolare da un nostro vecchio lavoro (Musotti 2001), sulla scorta di riflessioni derivabili dalla storia socio-economica, con tutti i riflessi istituzionali del caso. Le tre regioni, in effetti, hanno vissuto processi di sviluppo non coincidenti coi confini politico-amministrativi. Romagna e Marche settentrionali sono riuscite a fruire dei fattori propri di un denso tessuto urbano combinatisi con il potenziale turistico della costa. L’Emilia ha goduto, in via essenziale, di una industrializzazione in cui si sono combinati in modo stretto città e campagne e prerequisiti di tipo artigianale ed esperienze di grande impresa (Musotti 2009). Marche meridionali e Abruzzo, da parte loro, vivono di un’organizzazione territoriale fortemente disseminata, che riflette ancora una fuoriuscita dall’”epoca agricola” relativamente tardiva (a cavallo fra anni sessanta e settanta) e abbastanza variegata nelle modalità.
Quattro ortofrutticolture biologiche
I risultati dell’esercizio di clustering, che di seguito esponiamo in grande sintesi, paiono piuttosto interessanti: i grappoli colgono strati ben distinti e univocamente ritraibili del mondo ortofrutticolo biologico e del retroterra geografico che li ha generati.
Cluster 1: il biologico omologato
Il primo cluster, comprende 17 unità, e “cattura” imprese relativamente omologate, ossia abbastanza assimilate (come scala e logica produttiva), all’agricoltura convenzionale, cui si associano nei canali distributivi, come evidenzia la ricerca sulla GDO (Rama - Boccaletti 2007), in ragione di una tendenza alla differenziazione merceologica che non può non collegare l’offerta del prodotto convenzionale con quella del biologico, usando il secondo non in alternativa, ma in integrazione al primo. Le catene commerciali lunghe assorbono, infatti, il 78% (in media) della Plv di queste imprese, che sono localizzate per stragrande parte (88%), e uniformemente, nei blocchi territoriali (Romagna-Marche-Abruzzo) dove maggiore è l’incidenza del clima costiero, in cui l’ortofrutta può trovare migliore insediamento e, di conseguenza, darsi la cornice più congrua di TATE ed economie esterne di agglomerazione. I numerosi collegamenti (in media 10 per ciascuna), che, a vario titolo, queste imprese dichiarano di avere con altri produttori agricoli locali sembrano una chiara testimonianza in questo senso.
La dimensione aziendale media è la più grande (29 ettari complessivi e 6 investiti a ortofrutta, il doppio di tutte le altre unità del campione). Rara l’attività nei servizi educativo-culturali (12% dei casi), che poco si coniugano con una strategia produttiva, per così dire, simil-convenzionale, mentre il livello di soddisfazione dell’imprenditore supera il valore mediano del campione con una frequenza molto bassa (24%), quasi a rivelare l’intima contraddizione tra filosofia del biologico e il modo appunto, produttivista (fordista!) di coniugarla.
Cluster 2: i motori delle filiere locali
Il secondo cluster è formato da 11 imprese, orientate di gran lunga (75% della Plv) alla commercializzazione per catene locali. Sono anche le imprese nettamente più impegnate nei servizi educativo-culturali (64% dei casi) e in buone pratiche agronomiche (36%). Altissima anche la frequenza con cui si presenta una soddisfazione dichiarata dall’imprenditore superiore alla mediana (73%!)
Si tratta di imprese che hanno assorbito la filosofia del biologico nella forma e nella misura più pervasive e fungono da veri e propri motori di filiere locali che possono giocare un certo ruolo a livello di sviluppo turistico. Così da valorizzare le risorse che riescono a mobilitare, direttamente e indirettamente, in termini di maggiore apertura del tessuto economico.
Territorialmente anche la distribuzione di queste imprese riguarda in quota stragrande (91%) Romagna-Marche-Abruzzo, maa differenza dell’uniformità del gruppo 1, qui si registra la prevalenza (55%) di Romagna e Marche settentrionali, favorite, si può almeno ipotizzare, da un addensamento urbano (la cosiddetta città adriatica lineare) e turistico suscettibile di offrire una grande abbondanza di sbocchi commerciali agevoli e comunque convenientemente alternativi alle catene lunghe.
Cluster 3: il biologico isolato
Il terzo cluster assomma 15 imprese, che rappresentano l’ortofrutticoltura biologica della vendita in azienda (79% della Plv). Ovvero istituzionalmente tanto meno indotta (e aiutata) a “inseguire” i consumatori finali (da qui la definizione di isolamento, che potrebbe apparire un po’ drastica), quanto più predisposta ad attrarlo (anzitutto fisicamente) in rapporti di fidelizzazione. Che poi si propaga, per contagio informativo, da consumatore a consumatore, a ritmi magari lenti, ma, sul lungo andare, con robusti effetti cumulativi.
La focalizzazione su un’attività di vendita molto polverizzata (diciamo pure al dettaglio) assorbe grandi quantità di lavoro (in media due unità extra-familiari) e si direbbe che distolga strategicamente dalla buona pratica agricola (riscontrata in appena il 7% dei casi). Un elemento questo che permette di leggere la propensione ai servizi educativo-ambientali (53% dei casi), più come fattore di estensione dell’ordinamento produttivo, che quale corollario (come nel gruppo 2) di filosofia del biologico.
I legami con le altre imprese agricole, che dovrebbero riguardare le forniture necessarie all’assortimento merceologico richiesto dal contatto diretto coi consumatori finali, sono mediamente modesti (in media soltanto 3), in linea con l’isolamento sottolineato.
La distribuzione territoriale è meno squilibrata che negli altri cluster, ma quasi la metà delle imprese (47%) appartiene al segmento Marche meridionali-Abruzzo, ossia alla parte meridionale dell’intero blocco geografico considerato. Vale a dire la parte dove non opera un TATE comparabile, per spessore e attivismo, al modello emiliano-romagnolo e in cui la densità urbana (ove si eccettui l’aggregato Pescara-Chieti) e il movimento turistico non sono comparabili con quelli di Marche settentrionali-Romagna.
Cluster 4: l’integrazione comunitaria
Il quarto cluster, che raccoglie 17 imprese, è caratterizzato dalla prevalenza (65%) della vendita diretta comunitaria, ma registra pure una quota non piccola (25%) di vendita in azienda. Elevata è l’offerta di servizi educativo-culturali (59%), in analogia con quella del cluster 2, come non troppo inferiore a quella dello stesso gruppo 2 è la frequenza della buona pratica agronomica (29%).
In complesso, quindi, ci sembrerebbe di avere individuato imprese che praticano il più pervasivo assorbimento della filosofia del biologico (che dalla sensibilità salutistica si riversa nella cura ambientale), con una forte partecipazione al tessuto istituzionale della società locale. La quale può consistere tanto di partecipazione ai mercati contadini, quanto di consegna a domicilio programmata con gruppi organizzati di consumatori. Non di meno robusta è l’integrazione nella sfera ristretta delle imprese agricole (in media 9 legami, 1 soltanto in meno rispetto al cluster 1).
Sul piano territoriale è il raggruppamento più squilibrato, per la grande prevalenza delle imprese emiliane (71%). In ragione, è da ritenere, dell’effetto che può avere un TATE proverbialmente ramificato e una straordinaria atmosfera cooperativa che la società civile è in grado di sprigionare secondo ambiti e forme sempre nuovi.
Dualismi e agricoltura civile
Riteniamo che i riscontri della survey abbiano dato sufficiente conforto all’impianto concettuale sul quale la nostra ricerca è stata impostata. L’incorporamento istituzionale fornisce una chiave di lettura essenziale circa i modelli strategico-organizzativi delle imprese studiate, le quali, è il caso di sottolineare, sono identificabili come i casi di maggiore successo nelle rispettive regioni e quindi, verosimilmente, in grado di rappresentare le tendenze più solide dell’ortofrutticoltura biologica.
Le evidenze di fondo che emergono dall’insieme dei riscontri ottenuti ci sembrano almeno due ed entrambe sono sintetizzabili secondo uno schema di tipo dualistico. In primo luogo appare chiaro che una grande linea di discriminazione è ricavabile dal “macro-tipo” di filiera in cui le imprese sono inserite. Da un lato possiamo individuare quelle che operano in filiere extra-locali, e quindi relativamente lunghe: si tratta delle imprese più grandi, come dotazioni fisiche e volumi produttivi, immesse in una logica commerciale secondo cui il prodotto biologico giuoca in chiave, al tempo stesso, di differenziazione e complementarietà rispetto a quello convenzionale. Dall’altro lato, invece, si collocano le imprese inserite in filiere locali, strutturalmente più piccole e proiettate alla massima valorizzazione di ciò che, tanto in senso funzionale quanto in senso simbolico, nella sensibilità dei consumatori vale a distinguere il prodotto biologico dal convenzionale. Di qualche significato è, a nostro avviso, il fatto che quasi i tre quarti delle imprese del campione e quindi dell’insieme produttivo segnalatoci dagli esperti contattati come di successo appartengano a questo macro-tipo di filiera.
Un secondo dualismo si può intravvedere all’interno delle imprese che rientrano nel macro-tipo della filiera locale. Da un lato abbiamo imprese (da noi definite “isolate”) che vivono in virtù di una filosofia di pura nicchia commerciale, fondando la propria ragione di essere sul premium price di cui il prodotto biologico può usufruire grazie ad una clientela fortemente fidelizzata. Dall’altro troviamo, invece, le imprese che, sulla scorta di quanto elaborano e ci insegnano i nuovi economisti civili italiani (Bruni-Zamagni 2004 e 2009) potremmo, appunto, ritenere civili7. Allorché, come pensiamo, sia civile coniugare la filosofia del biologico oltre che come cambiamento dell’offerta agro-alimentare (in senso salutistico e di conservazione ambientale), quale fattore di radicale rinnovamento (oseremmo dire rieducazione) della domanda. Tali imprese, tramite l’offerta (anche) di servizi educativo-culturali cercano di riportare i consumatori, potenziali ed effettivi, a contatto con le caratteristiche distintive del mondo agricolo. E si danno un ruolo diffusivo dello sviluppo locale, tramite l’integrazione nell’offerta turistica, o lo sviluppo di modalità d’interazione coi consumatori che creino occasioni d’incontro fra persone.
Riferimenti bibliografici
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Seyfang G. (2006), “Ecological citizenship and sustainable consumption examining local organic food networks”, Journal of Rural Studies, vol. 22, pp. 383-395
- 1. In questo testo, si rielabora, oltre che tradurre, il paper, dal titolo “Institutional embeddedness in organic farming systems”, presentato al 6th International European Forum su System Dynamics and Innovation on Food Networks di Innsbruk (13-17 febbraio 2011). La ricerca da cui il lavoro ha avuto origine consiste in un Progetto finanziato dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (Dipartimento delle politiche di sviluppo – Direzione generale dello sviluppo rurale) dal titolo: ORT.BIO Analisi dei sistemi aziendali che valorizzano la “Filiera Corta” e riducono i consumi energetici nelle produzioni biologiche orticole, coordinato dal Prof Aldo Bertazzoli, Polo Scientifico-Didattico di Cesena, Università di Bologna. Le altre UO afferenti al progetto, e che hanno collaborato nella raccolta dei dati empirici, sono: C.R.P.V. (Centro Ricerche Produzioni Vegetali) Soc. Coop., coordinata dal Dr Vanni Tisselli; Prober Ass. (Produttori biologici Emilia-Romagna) coordinata da Pierangela Schiatti; CRA ORA, Unità di Ricerca per l’Orticoltura di Monsampolo coordinata dal Dr Gabriele Campanelli.
- 2. Con TATE qualifichiamo il complesso di istituzioni, cioè di organizzazioni e prescrizioni regolative (formali e informali) che si posizionano a monte e a valle dell’impresa agricola e concorrono a definire tanto le sue attività (ordinamento produttivo), quanto i modi di effettuarle (tecniche) e di premiarne o sanzionarne i risultati. Gli studi sul TATE risalgono alla prima metà degli anni Settanta (Benvenuti 1983).
- 3. La scelta di più comparti avrebbe esteso la varietà tecnico-commerciale intrinseca dei casi in esame a elementi suscettibili di “oscurare” l’effetto-strategia imprenditoriale che ci premeva cogliere.
- 4. Il questionario era articolato nelle seguenti sezioni tematiche: ordinamento produttivo; risorse umane; area geografica di vendita; tipologie dei canali di vendita; caratteristiche geografiche dei canali di vendita; strutture fisiche e meccaniche della produzione; lineamenti agronomici; dati del bilancio energetico, volumi di vendita.
- 5. In particolare: è stata applicata la tecnica (gerarchica) del legame completo sui dati, espressi in forma binaria, relativi al peso (in percentuale di PLV) che per ciascuna impresa hanno i quattro modelli transazionali specificati.
- 6. Una simile strategia di clustering è la più coerente con l’assunto teorico-chiave della nostra analisi e cioè che il modello transazionale si rifletta giocoforza in tutte le altre variabili che esprimono il profilo strutturale-strategico dell’impresa.
- 7. “Le imprese civili intervengono anche sul lato della domanda, consentendo ad essa di strutturarsi e organizzarsi per interloquire in modo autonomo con i soggetti di offerta, e ciò allo scopo di affermare il principio secondo cui le attività prestate nei processi di riproduzione sociale riguardano anche la produzione di significati e non soltanto di output” (Bruni-Zamagni 2004, pp. 183-184).