Aree interne
Le aree interne sono state attraversate lungo il secolo XX, soprattutto nella sua seconda parte, da un vero e proprio processo di marginalizzazione (noto per la Sardegna come effetto ciambella – Bottazzi, 2014) che ha generato calo delle attività e dell’occupazione, contrazione della produttività e rarefazione sociale, abbandono della terra, venir meno della tutela del suolo, la modificazione del paesaggio. A una prima lettura del fenomeno, le aree territoriali si definiscono per differenza (fisica, culturale, strutturale), cosicché le aree interne sono tutto ciò che resta una volta tolte le aree costiere, le pianure fertili, le città. Si è andata affermando, così, una rappresentazione unitaria in negativo. Ed è in tal senso che vengono definite come “periferiche”, in quanto soggette a un rapporto negativo centro-periferia che riguarda l’accesso ai servizi e ad altre opportunità come lavoro, interazione sociale, cultura (Dematteis, 2012).
Una più attenta lettura mostra come le aree interne sono aree rurali differenziate. La campagna interna non si è convertita in modo unilineare in un’area marginale generalizzata, ma si rivela un universo variegato, con «diverse tipologie di ruralità» (Bertolini, 2012), dotato di capitale territoriale specifico, suscettibile di possibili diversi indirizzi di sviluppo. Ciò per esempio emerge se si focalizzano differenze e specificità delle regioni storiche collocate nelle aree interne. Muta il giudizio di valore e se ne delineano, dunque, i punti di forza: sono aree meno soggette a pressioni antropiche, con potenzialità di sviluppo energetiche, idriche, turistiche, che offrono risorse ecosistemiche, ambientali, paesaggistiche, culturali, che in molti casi sono massime in periferia e minime negli agglomerati centrali (Dematteis, 2012).
Ed è in quest’ottica che è stato definito il Progetto aree interne coordinato da Fabrizio Barca: le Aree Interne rappresentano una parte ampia del paese − circa tre quinti del territorio e poco meno di un quarto della popolazione − assai diversificata al proprio interno, distante da grandi centri di agglomerazione e di servizio e con traiettorie di sviluppo instabili ma tuttavia dotata di risorse che mancano alle aree centrali, rugosa, con problemi demografici ma anche fortemente policentrica e con forte potenziale di attrazione […] E richiede attenzione al fatto che da queste aree vengono beni necessari per tutti noi: acqua, aria buona, cibo, paesaggi, cultura (Barca 2013).
Le Aree interne vanno pensate e progettate, quindi, da un lato come destinatarie di beni collettivi e servizi e, dall’altro come aree capaci di produrre e offrire beni collettivi (Oecd, 2001), che rispondono a bisogni espressi da tutta la società, e che si concretizzano quali servizi in grado di rafforzare i nuovi legami tra le aree interne e le città. Grazie anche al carattere policentrico, sono in grado di offrire una diversità di qualche tipo, produzioni specifiche, identitarie, di qualità, quindi di rispondere alla forte domanda di specificità (Barca, 2013) – teoria dei consumi di Lancaster – che emerge dal cambiamento dei modelli e delle pratiche di consumo.
Si tratta di luoghi che cominciano a esercitare un potere attrattivo, che porta con se la nascita di un nuovo fenomeno: le aree interne si aprono e accolgono “nuove popolazioni”, non assimilabili al turismo estivo, balneare, montano stagionale, non soggette quindi alla tradizionale stagionalità. Sono persone alla ricerca di legami comunitari (e altro), cittadini temporanei, residenti part-time o “definitivi” (Cersosimo, 2013), montanari per scelta (Dematteis, 2012), rural users (Meloni 2006). Un’indagine sui “nuovi montanari” (Pascolini, 2008; Euromontana, 2010; Dematteis, 2011; Corrado, 2013) ha, per esempio, mostrato che negli ultimi decenni si è avviata, in Europa come in Italia, una ripresa demografica in aree montane che nei decenni precedenti avevano subito un forte spopolamento. Un processo di reinsediamento certamente ancora limitato nei numeri, ma non per questo di ridotto interesse: nei 1742 Comuni alpini italiani (compresi quelli solo parzialmente montani, posti sul confine tra montagna e pianura), tra i censimenti del 2001 e del 2011 la popolazione residente è cresciuta di 212 656 unità su un totale odierno di 4,3 milioni. Senza ricadere nella mitologia che avvolge le narrazioni per cui «Il borgo non è più soltanto luogo fisico, ma anche luogo della mente» (Censis, 2003) e i borghi come «luoghi vocazionali» (Barbera, 2014), il fenomeno potrebbe intendersi quale possibile risposta (pur parziale e non sufficiente) al problema dello spopolamento, soprattutto se incentivato attraverso policy specifiche.
Aree interne, agricoltura multifunzionale e beni comuni
Per secoli l’agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne” (Bevilacqua 2014), vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola; sebbene vi fosse anche – e talora fiorente – l’agricoltura delle pianure e delle valli subappenniniche. Parlare di agricoltura oggi per le aree interne non è un’utopia senza alcun fondamento economico, bensì significa aprirsi a una nuova concezione: una nuova agricoltura multifunzionale (ivi).
Tra gli studiosi vi è chi parla di “nuovi contadini” (Van der Ploeg, 2008), di “rivincita delle campagne” (Barberis, 2009), del riaffacciarsi delle giovani generazioni (Cersosimo, 2012). Vere e proprie strategie di resistenza si stanno attuano attraverso un processo di differenziazione multifunzionale che si caratterizza come riemersione del modello contadino (Van der Ploeg, 1999; 2000; Pérez-Vitoria, 2005; Ventura e Milone,2007; Vitale, 2013). Un processo produttivo i cui output finali sono molteplici non solo la produzione di beni alimentari base tipo commodity ma anche beni non commodity (con la vigna e l’oliveto si fa anche rigenerazione idraulica e paesaggio) e ancora servizi anch’essi considerati non commodity come sicurezza alimentare, qualità e varietà degli alimenti, biodiversità, energie rinnovabili, controllo dell’inquinamento, benessere animale, paesaggio, tradizioni ed eredità culturali, inclusione sociale, servizi alla popolazione − educazione/formazione, svago-. Beni e servizi non riproducibili in un contesto specializzato e intensivo, non importabili, e per i quali la localizzazione delle imprese conta e assume significato (Van der Ploeg, 2008). Tra questi alcuni beni e servizi hanno un mercato, mentre altri sono definiti come beni collettivi o comuni, hanno caratteristiche di non commerciabilità e si presentano quali esternalità positive sul territorio come il paesaggio, la qualità delle acque, la biodiversità, la cultura (Oecd, 2001; Cavazzani, 2006; Polman et al., 2010). Risorse “localmente prodotte”, che funzionano come beni collettivi e che individuano “risorse comuni” (Ostrom, 1990).
Le modalità e l'intensità con cui queste funzioni si combinano con l'agricoltura stabiliscono una sorta di gradiente di multifunzionalità che varia per livelli e per sistemi locali e contesti specifici (Wilson, 2008). E’ interessante osservare come la collocazione spaziale condizioni il livello di multifunzionalità aziendale. Le aziende che si collocano in montagna o nelle aree interne hanno un livello di multifunzionalità generalmente alto, mentre quelle che si collocano nelle aree più fertili di pianura tendono a essere più monofunzionali (Wilson, 2008, Henke e Salvioni, 2009). Un’elevata multifunzionalità è tipica anche delle aree periurbane, dove essa garantisce alle aziende agricole migliori opportunità e una maggior capacità di “resistenza” alle esternalità negative, derivanti dalla vicinanza con grandi agglomerati urbani (Locci, 2013; Corrado, 2013).
Rapporto aree interne e città
Il rapporto città-campagna va ripensato e considerato in questa prospettiva multifunzionale (Oecd, 2001), attraverso la relazione esistente tra la produzione di beni di mercato e quelli non di mercato che l’agricoltura intrinsecamente genera. In pratica, le aziende multifunzionali svolgono un ruolo di “connessione” tra le attività produttive e i beni comuni. È stato dimostrato che le produzioni di qualità (e le relative reti) sono spesso legate a forme di cooperazione locale, filiere corte, vendita diretta, agricoltura di prossimità, nuovi servizi agriturismi, ma anche care facilities), agricoltura sociale (Di Iacovo, 2008), Gruppi di Acquisto Solidale (Fonte, 2013), che coinvolgono un numero crescente di attori, appartenenti a sistemi socio-economici istituzionali diversi compresi quelli urbani.
È necessario tuttavia comprendere il senso di questa evoluzione recente del rapporto città-campagna per superare le retoriche dell’urbanesimo, dell’antiurbanesimo e del neoruralismo. Si tratta di una relazione estremamente articolata nel tempo e nello spazio, come testimoniano gli studi della Scuola degli Annales. Dall’epoca antica, sino a quella contemporanea, la storia ci racconta di un avvicendarsi di situazioni di confronto e di scontro, nel quale non sempre è la città a prevalere. Lanaro (1988), in una bella Storia dell’Italia, rileva, per esempio, la centralità della campagna in rapporto ad un tessuto di città piccole e medie soprattutto dell’Italia centro-settentrionale. Egli sostiene che si tratti di città create dalla disponibilità di surplus di prodotti agricoli, luoghi di mercati, di materie prime da trasformare in prodotti finiti da commerciare, la cui organizzazione territoriale, prima che venissero invase dalla campagna urbanizzata che oggi conosciamo, conservava ancora questo marchio d’origine: «questa è stata la media città italiana, che ha in qualche modo governato il contado ma contemporaneamente ne è stata governata, in rapporto dialettico, per quanto riguarda la distribuzione e la dimensione di nuclei urbani minori» (Lanaro, 1989: 55-56).
Nell’immediato dopoguerra, con l’intensificarsi dei processi di modernizzazione e di urbanizzazione, con i fenomeni migratori verso le aree urbane e spopolamento di quelle interne, il rapporto tra la città e la campagna inizia a divenire problematico e la reciprocità città-campagna si spezza. Il rapporto rurale-urbano viene analizzato in termini oppositivi e dicotomici, si delinea un rapporto di dominanza-dipendenza tra città e campagna, aumenta la dipendenza dalle città, specie per quanto riguarda servizi, investimenti e occupazione. Una reciprocità che si spezza anche a causa di fenomeni interni al mondo stesso dell’agricoltura: lo sviluppo agricolo è volto alla modernizzazione per settori, con la specializzazione dell’agricoltura nella produzione di beni alimentari; le politiche agricole si caratterizzano per una natura marcatamente settoriale, a scapito della sostenibilità ambientale e sociale.
A partire dagli anni Novanta, la crisi del modello di sviluppo agricolo settoriale basato sulla modernizzazione si accompagna all’emergere di forme variegate di sviluppo rurale, al consolidarsi di politiche che assumono la centralita dei territori rurali nella loro dimensione ampia, ovvero attraverso la valorizzazione delle specifiche potenzialità-risorse umane, fisiche, ambientali ecc. In questo contesto, il ruolo dell’agricoltura è molto più ampio della sola funzione produttiva.
La strategia multifunzionale si articola, come abbiamo visto, nella attivazione congiunta delle commodity, e delle non commodity prodotte simultaneamente dall’agricoltura. Mentre le prime hanno per oggetto i beni tipici delle produzioni agricole – dei quali la città ampiamente beneficia per i propri bisogni alimentari – i secondi si riferiscono a tutti quegli output prodotti dall’agricoltura le cui esternalità si caratterizzano come beni collettivi
La multifunzionalità in agricoltura assume valore economico nel momento in cui diventa una strategia per diversificare le attività aziendali, in risposta alla nuova domanda di beni e servizi espressa dai cittadini consumatori nei confronti del settore primario. Tutto questo avviene – è importante prenderne atto – attraverso il cambiamento degli stili di vita e di consumo, con l’emergere di nuove popolazioni (rural users, ambientalisti, ecc.). Più in generale il rurale e le dimensioni a esso collegate sono sostenute in modo endogeno dai mutamenti legati agli stili di vita del ceto medio, come nel caso delle tematiche ambientali e del neoruralismo. Si tratta di nuovi stili di vita che investono le scelte residenziali, i consumi, l’edilizia, gli investimenti economico-finanziari e possono essere collegati alla rivoluzione “postmaterialista”, una rivolta morale contro il consumismo rilevata dalle ricerche di Inglehart (1997). Si tratta inoltre di scelte “private” (consumi, residenzialità e stili di vita) che hanno una non trascurabile dimensione pubblica e politica e che, come tali, costringono a ripensare la dinamica tra interesse individuale e azione pubblica (Hirschman, 1982). I nuovi modelli di multifunzionalità agricola riescono a rispondere più agevolmente a questa nuova domanda sociale che emerge nei confronti dell’agricoltura e che è portata avanti da un consumatore più consapevole (Brunori et al., 2008). La diffusione dell’agricoltura sociale (Di Iacovo, 2008) e l’esperienza della rete dei Gruppi di Acquisto Solidale (Fonte, 2013), hanno mostrato come lo sviluppo rurale coinvolga un numero crescente di attori, che appartengono a sistemi socio-economico-istituzionali diversi, compresi quelli non rurali soprattutto in ambito urbano (società civile, Ong, movimenti sociali e culturali, gruppi di opinione).
La sinergia tra attori interni al rurale e all’urbano ha portato allo sviluppo dei così detti nested market (Oostindie et al., 2010; Polman et al., 2010) La forma distintiva di questi ultimi è quella di nuovi mercati in grado di offrire beni e servizi specifici. Si tratta di nuovi beni e servizi, ad alto grado di qualità, che sostengono la creazione di nuovi rapporti città-campagna e consentono di considerare proprio tale rapporto entro una prospettiva multifunzionale (Oecd, 2001). In questo quadro, l’agricoltura di prossimità può contribuire al miglioramento della qualità della vita urbana grazie al suo carattere multifunzionale (Brunori et al., 2008). I nuovi beni e servizi, ad alto grado di qualità, sostengono la creazione di nuovi rapporti città-campagna (Oostindie, Van der Ploeg e Renting, 2002).
È possibile per esempio leggere, come propone Dematteis (2014), i rapporti attuali di prossimità città montagna in termini di regolazione solidale. Egli osserva come la montagna rurale dà alla città beni con un buon grado di non sostituibilità, beni e servizi ecosistemici, idrici ed energetici, spazi di attraversamento delle grandi infrastrutture, un consistente patrimonio fondiario e architettonico tradizionale, la qualità delle produzioni alimentari locali, la cura dell’ambiente e del paesaggio fruito dagli abitanti della città; contemporaneamente garantisce la cura del territorio che protegge le città pedemontane e i corridoi vallivi di accesso dal rischio idrogeologico e idraulico. La montagna rurale riceve dalla città più vicina alcuni input di importanza vitale e quindi la forte dipendenza dalle città più vicine per i servizi necessari quali ospedali, istruzione superiore, offerta commerciale specializzata, amministrazione e gestione pubblica sovralocale… Inoltre i flussi di visitatori e villeggianti sono in molti casi il principale sostegno dell’economia locale. Si tratta tuttavia di una interdipendenza che avvantaggia la città a scapito della montagna che non potrebbe vivere senza di essa. Tuttavia le città medie pedemontane godono di vantaggi che altre città non hanno, grazie alla loro collocazione che garantisce risorse significative provenienti dal loro retroterra. Tutto ciò porta l’autore a ipotizzare una potenziale convergenza di interessi, su cui è possibile sviluppare una progettualità territoriale non limitata ai due contesti ma basata sull’interscambio con un significativo vantaggio reciproco.
Rapporto tra rurale e urbano e gli obiettivi di policy
All’interno di un discorso di policy, partendo dalla centralità che l’Europa assegna al tema della multifunzionalità e attraverso l’utilizzo dei Fondi europei 2014-2020, occorre oggi mettere a valore l’interdipendenza tra aree rurali e urbane, tra aree deboli e forti.
Tuttavia, le politiche definite place-based, portano con sé il rischio di adottare alla fine un approccio territorialista puro, che separa, come osservano alcuni studiosi, aree per ambiti progettuali. Per cui se distinguere le aree interne dai poli urbani funziona bene, non bisognerebbe dettare le policy in modo meccanico, ma occorre utilizzare criteri funzionali che mettono a tema l’interdipendenza tra i territori (Barbera, 2014). Città medie e Aree interne, due importanti programmi di utilizzo dei fondi europei 2014-2020 (Investimenti Territoriali Integrati, Psr), dovrebbero dare luogo ad azioni interdipendenti e non separate. Può accadere invece, come osserva Dematteis (2015) che nel Programma Aree interne le aree montane più prossime alle città non sono considerate “interne”, mentre il progetto andrebbe articolato su come si può mettere a valore l’interdipendenza tra aree rurali montane nel loro insieme e quelle urbane.
Più in generale ciò si riflette sui modelli di regolazione e sulle connessioni tra policy. Molti dei beni prodotti dall’agricoltura multifunzionale sono esternalità, prodotte in maniera inconsapevole. Allora, uno dei problemi o uno degli obiettivi delle politiche dovrebbe essere proprio quello di trasformare l’esternalpositiva in obiettivo consapevole. Occorre dunque elaborare soluzioni (invenzioni) istituzionali che siano in grado di determinare un’uscita dalla dicotomia pubblico/privato (Pichierri, 2015). Se devono essere gli abitanti a prendersi cura dei luoghi, questo richiede politiche specifiche. Se la valorizzazione delle risorse naturali, e le azioni di governo degli spazi rurali volti per esempio alla prevenzione incendi e tutela idrogeologica presuppone un’idea di “tutela attiva”, occorre restituire la tutela del territorio alle comunità locali (Cersosimo, 2013) e riconoscere il ruolo dell’impresa agricola multifunzionale, individuando specifiche modalità di compensazione economica per la vasta gamma di “beni pubblici” prodotti, associati alla produzione di alimenti. Non si tratta tuttavia di incentivare solo i comportamenti di singoli operatori, ma anche di promuovere l’aggregazione dei produttori agricoli dentro strutture di coordinamento e cooperazione finalizzate ad azioni di tutela e riproduzione.
Occorre nelle politiche 2014-2020 superare la dimensione settoriale, coordinando fondi piani e misure, elaborando strumenti di pianificazione integrata degli spazi rurali, compresi i piani paesaggistici (Agnoletti, 2011; Magnaghi, 2011). Politiche multilivello pensate come “patti collettivi”, all’interno di specifici sistemi locali, in grado di generare convenienza nella produzione di valore aggiunto territoriale, ambientale e paesaggistico, Tutto ciò è coerente con con gli obiettivi volti alla promozione della diversità culturale e naturale e con l’approccio pluri-fondo impiegato dal progetto aree interne che permette di utilizzare finanziamenti provenienti da più fondi. La migliore calibratura delle strategia locale del progetto aree interne passa di conseguenza per una maggiore attenzione all’accesso ai servizi di una parte non irrilevante della popolazione, e per processi di policy volti alla generazione di beni comuni collettivi.
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