La politica di contrasto allo spreco di cibo: alcune considerazioni sul perché e come può funzionare

La politica di contrasto allo spreco di cibo: alcune considerazioni sul perché e come può funzionare

Abstract

L’articolo analizza due misure di contrasto allo spreco introdotte dalla legge 166 del 2016: la semplificazione burocratica delle donazioni e la possibilità di donare cibo oltre il termine minimo di conservazione. L’analisi permette di evidenziare alcuni caratteri generali dell’attuazione delle politiche di contrasto allo spreco: i costi delle donazioni, la diversità di risposta da parte di donatori e associazioni che recuperano e distribuiscono cibo, e le barriere reputazionali che ostacolano le donazioni. 

Introduzione

Il problema dello spreco di cibo è diventato progressivamente centrale nell’agenda di governi e istituzioni, dall’arena internazionale a quella locale. Le politiche di contrasto allo spreco sono però ancora di recente attuazione: pochi sono i dati esistenti sul problema, poche le valutazioni sull’efficacia, altrettanto poca la conoscenza sulle modalità di progettazione e sui processi attuativi (Cox et al., 2010; Thyberg & Tonjes, 2016).
L’articolo presenta un’analisi delle politiche di contrasto allo spreco a partire dagli strumenti esistenti in Italia, con l’obiettivo di identificare alcuni accorgimenti utili al miglioramento delle politiche. Più precisamente, l’articolo analizza due strumenti inaugurati dalla legge 166 del 2016: la riduzione degli oneri burocratici per i donatori e l’allargamento del numero di beni donabili, con particolare riferimento al cibo oltre il termine minimo di conservazione (TMC) (ovvero, il “consumarsi preferibilmente entro”).
Il primo paragrafo fornisce una definizione operativa di spreco di cibo e presenta i possibili obiettivi e interventi di una politica di contrasto allo spreco. Il secondo paragrafo descrive brevemente il caso italiano, mentre i due paragrafi successivi discutono l’efficacia e le prospettive delle innovazioni introdotte dalla legge del 2016. Le conclusioni forniscono alcuni suggerimenti di carattere generale per la progettazione di politiche di contrasto allo spreco. 

Lo spreco: cos’è e cosa fare per ridurlo

Lo spreco di cibo è quel surplus di alimenti perfettamente edibile, che viene prodotto, lavorato o messo in vendita ma che non viene venduto o consumato (Garrone, Melacini, & Perego, 2014a). Due sono i possibili obiettivi delle politiche di contrasto allo spreco: ridurre la produzione di surplus di cibo (agendo in tutte le fasi della filiera del cibo, dalla produzione alla vendita) e recuperare il surplus prodotto per riutilizzarlo per il consumo umano, in particolare da parte delle persone indigenti. La tabella 1 riassume questi obiettivi, i soggetti coinvolti e alcuni esempi di interventi.

Tabella 1 – Il contrasto allo spreco di cibo: obiettivi, soggetti e modalità di intervento

Fonte: (Busetti, 2019)

Seguendo la cosiddetta gerarchia dello spreco alimentare, ridurre la produzione di surplus è certamente l’obiettivo da preferire. Ciò è possibile attraverso l’intervento su infrastrutture e tecnologie, innovazioni logistiche, campagne di informazione e diffusione di conoscenze e buone pratiche, sistemi innovativi di packaging ed etichettatura, incentivi economici e altri strumenti.
Tuttavia, sia nel breve che nel lungo periodo è impossibile immaginare un sistema alimentare senza spreco. Le pratiche individuali dei consumatori, i processi produttivi e fenomeni non prevedibili, come fluttuazioni di mercato eccezionali, continueranno ad alimentare una quota di spreco che andrà gestita. Il secondo obiettivo - quello del recupero e della distribuzione per il consumo umano - resta quindi centrale. In questo secondo caso, i programmi di intervento includono incentivi fiscali alle donazioni di cibo, sconti sulla tariffa rifiuti parametrati al cibo donato, regolazioni che chiariscono le responsabilità del donatore per il cibo conferito alle associazioni di recupero, il sostegno a queste ultime e l’ampliamento del numero di prodotti donabili (ad esempio, i cibi oltre il TMC, ma anche quelli confiscati o con packaging errato). 

Il caso italiano

L’Italia ha una storia consolidata nella lotta allo spreco. La normativa fiscale ha progressivamente introdotto diversi incentivi alle donazioni: esenzioni IVA (dpr 633/1972), esclusione dai ricavi dell’impresa (d.lgs. 460/1997), detrazioni IVA (l. 133/1999), e deduzioni dal reddito imponibile (l. 80/2005). Con la l. 155/2003, l’Italia è stato il primo paese europeo ad approvare una Legge del Buon Samaritano, ovvero l’equiparazione al consumatore finale delle organizzazioni di volontariato che recuperano e distribuiscono cibo (limitando quindi la responsabilità del donatore al momento della consegna a queste organizzazioni). L’ultimo tassello della politica italiana di contrasto allo spreco è stata la cosiddetta legge Gadda (l. 166/2016 e successive integrazioni), che, sulla scia dell’Esposizione Universale di Milano del 2015, ha approvato nuove disposizioni che accoglievano il lavoro svolto dal Piano Nazionale di Prevenzione degli Sprechi Alimentari (PINPAS). Tra le diverse innovazioni introdotte dalla legge del 2016 si ricordano: la riduzione degli oneri amministrativi per i donatori, l’inclusione di nuovi prodotti tra quelli che possono essere donati (e in particolare i cibi oltre il TMC), e la possibilità per i comuni di introdurre sconti sulla tariffa rifiuti parametrati alle donazioni di cibo.
Nell’articolo ci soffermiamo sui primi due provvedimenti, sia perché direttamente applicabili, sia perché considerati fortemente innovativi (Deloitte, 2014), sia infine perché rappresentano classi più generali di strumenti di contrasto e quindi il ragionamento che faremo può essere esteso ad altri casi. La discussione che segue si basa su un’analisi documentale (letteratura, documentazione grigia, verbali di commissioni parlamentari, articoli di giornale) e cinque interviste semi-strutturate a informatori privilegiati (un policy-maker locale; 2 rappresentanti di associazioni di distribuzione, due manager di imprese del settore, donatrici e non).

L’efficacia delle semplificazioni

La legge Gadda introduce una notevole semplificazione delle procedure di donazione. La precedente disciplina prevedeva una comunicazione preventiva all’amministrazione finanziaria per ogni donazione superiore a 5.164,57 euro e la redazione di documenti di trasporto con una descrizione dettagliata dei prodotti che venivano donati. La nuova legge elimina le comunicazioni preventive sostituendole con una comunicazione cumulativa mensile, esonera dall’obbligo di comunicazione per le donazioni di valore inferiore ai 15.000 euro o riguardanti beni facilmente deperibili, e semplifica i documenti di trasporto (ad esempio, potendo riportare semplicemente il peso complessivo dei beni donati).  
La logica della semplificazione si spiega in tre passaggi: se si riducono i costi per i donatori, questi aumenteranno le donazioni e quindi aumenterà la quota di surplus che viene recuperato. Questa interpretazione nasconde alcune complicazioni che è necessario considerare nell’apprezzare l’efficacia della disciplina e nel pensare a come migliorarla. Analizziamo quindi i tre passaggi uno alla volta. 
Per quanto riguarda i costi dei donatori, se è certo che una semplificazione contribuisce a ridurli, il punto è quanto questa riduzione sia determinante nella scelta se intraprendere o meno una donazione. La prima considerazione da fare è che donare è costoso. Non solo corrisponde a un mancato guadagno, ma le operazioni necessarie alla donazione (selezione dei prodotti e stoccaggio) richiedono spazi, personale e conoscenze (Lebersorger & Schneider, 2014). È poi necessario accordarsi con una organizzazione che effettua il recupero, organizzare le donazioni, e colmare alcuni gap conoscitivi su procedure e legislazione. Inoltre, questi costi vanno comparati alle alternative alla donazione: smaltimento e riciclo. Rispetto a queste alternative, il regime fiscale delle donazioni non è particolarmente favorevole (Baglioni, De Pieri, & Tallarico, 2016; PINPAS, 2015) e riciclo e smaltimento hanno anche il vantaggio di essere già praticate, conosciute, e comunque necessarie. In questo quadro, la riduzione dei costi amministrativi, certamente positiva, rischia di avere una portata limitata.
Per quanto riguarda il secondo passaggio, la risposta dei donatori, è necessario considerare che il gruppo target (i soggetti che devono cambiare comportamento in risposta alla politica) non è mai omogeneo. I donatori possono essere molto diversi - per capacità, risorse, conoscenze - e quindi rispondere al provvedimento in modo altrettanto diverso. Allo stesso tempo, i costi della donazione possono variare in base al tipo e alle quantità di surplus prodotto. I costi aumentano se i donatori devono far uso di speciali sistemi di conservazione e stoccaggio (ad esempio refrigeranti), se il surplus prodotto è eterogeneo (se ad esempio sono necessarie diverse procedure per diversi prodotti) e se le quantità sono ridotte. Come illustrato in tabella 2, è possibile immaginare due tipi di donatori che rappresentano un continuum dal caso più propenso a quello più restio alla donazione (Busetti, 2019).

Tabella 2 – Due tipi ideali di donatori

Fonte: (Busetti, 2019)

Come si vede, i donatori del primo tipo sono quelli con grandi quantità di surplus omogeneo che non richiede particolari costi gestionali (ad esempio, il produttore di pasta o di prodotti in scatola). Questi soggetti non solo hanno minori costi, ma hanno tutte le risorse e le capacità per gestire le operazioni e assolvere alle procedure di donazione. Possono pianificare donazioni di grandi quantità con largo anticipo e sono probabilmente quelli sui quali una riduzione dei costi amministrativi è meno determinante nello scegliere se donare o no.
I donatori del secondo tipo sono quelli con quantità inferiori di surplus prodotto, con alimenti eterogenei, in parte facilmente deperibili, e che necessitano di utilizzare diverse modalità di gestione, alcune delle quali costose. Questo tipo di donatori (supermercati, mense, ristoranti) hanno difficoltà e costi nel gestire le donazioni e saranno decisamente favoriti da una riduzione dei costi amministrativi.
Nel valutare la risposta dei donatori di secondo tipo, va però fatta un’ulteriore distinzione tra soggetti che hanno il potere decisionale di attivare una donazione e quelli che invece non possono donare se non a seguito di una decisione centrale e di una apposita politica aziendale (ad esempio, i punti vendita che fanno parte di catene commerciali). Questi ultimi gestiscono il cibo secondo precisi protocolli aziendali e non hanno autonomia nel decidere cosa fare del cibo invenduto. Ciò vuol dire che un incentivo diretto ai punti vendita, sebbene vantaggioso, può non sortire alcun effetto proprio perché non agisce sulle preferenze dei decisori ‘corporate’. Il rischio è di generare uno scarto tra i soggetti cui la politica è indirizzata e quelli che devono davvero cambiare comportamento perché la politica sia efficace.
Infine, l’ultimo passaggio riguarda la risposta delle associazioni che recuperano e utilizzano il cibo donato. La distinzione tra donatori di tipo 1 e donatori di tipo 2 è ancora rilevante: il surplus prodotto dai donatori di tipo 2 comporterà maggiori costi di recupero, sia per ragioni logistiche che per la minore vita utile del prodotto donato. Più in generale, un aumento delle donazioni corrisponde sempre ad un aumento dei costi di recupero per le associazioni (Kantor, Lipton, Manchester, & Oliveira, 1997) che spesso hanno mezzi e capacità limitate (De Boeck, Jacxsens, Goubert, & Uyttendaele, 2017). In sintesi, incrementare il dono senza aumentare le capacità e le risorse delle associazioni rischia di sovraccaricare queste ultime, che raccoglieranno solo una parte del cibo donato, preferibilmente quella di più facile recupero.

Il Termine Minimo di Conservazione e il danno reputazionale

L’innovazione maggiore della legge 166 riguarda la possibilità di donare il cibo oltre il TMC, ovvero il cosiddetto ‘consumarsi preferibilmente entro’. Inoltre, la legge include altri prodotti, come i cibi confiscati, il pane oltre le 24 ore dalla panificazione, i medicinali o i vestiti.
La logica di questi provvedimenti è apparentemente semplice: se aumenta lo stock di prodotti che possono essere donati, i donatori decideranno di donare invece che riciclare o smaltire quei prodotti, e le associazioni recupereranno e distribuiranno una maggiore quantità di surplus. Alcuni degli aspetti discussi nel paragrafo precedente sono validi anche in questo caso: donare è un costo per i donatori, non tutti i donatori hanno il potere decisionale di decidere la destinazione del cibo donabile e la capacità delle associazioni di recupero e ridistribuzione è limitata. In questo paragrafo vediamo ulteriori elementi che influenzano l’efficacia della politica con riferimento al cibo oltre il TMC, analizzando i tre passaggi che abbiamo definito.
Per quanto riguarda il primo - l’aumento dei cibi donabili - l’ipotesi è che esista uno stock di cibo oltre il TMC che viene smaltito e che, con l’introduzione del provvedimento, può finalmente essere donato. Per capire l’effettiva rilevanza di questo fenomeno, vale la pena notare che la legge non si occupa dei consumatori, che secondo le stime FAOstat sono responsabili in Italia di circa il 40% dello spreco di cibo (Priefer, Jörissen, & Bräutigam, 2016). Secondo le stesse stime, inoltre, un ulteriore 40% dello spreco avviene nella produzione agricola e nella conservazione dopo il raccolto, ovvero in fasi della filiera dove il cibo oltre il TMC non è ovviamente una ragione dello spreco. Infine, la restante percentuale di spreco avviene durante le fasi di lavorazione, confezionamento e distribuzione. È su questo 20% che la disciplina può fare la differenza, ma è necessario analizzare quanto il cibo oltre il TMC sia davvero una ragione di spreco in queste fasi.
Per quanto riguarda le imprese di lavorazione del cibo, Garrone, Melacini, & Perego (2014b) riportano che la prima causa di spreco, pari al 66,9% del surplus prodotto, riguarda cibo che ha oltrepassato la data di vendita interna. Per quanto riguarda i distributori, questa percentuale ammonta al 48,7%. La data di vendita interna è normalmente stabilita a un terzo della vita utile del prodotto in modo da permettere l’arrivo sugli scaffali in tempo utile per il consumatore. Le altre cause di spreco in queste due fasi riguardano gli standard di vendita dei prodotti, i criteri estetici, e il packaging. In tutti questi casi, si tratta di cibo molto lontano dal TMC, che infatti non costituisce un fenomeno rilevante né nella produzione né nella distribuzione. Nonostante non siano disponibili dati comparabili sui punti vendita, è immaginabile che in questa fase della filiera lo spreco da TMC sia invece un problema: Lebersorger e Schneider (2014) stimano che circa il 28% dello spreco dei punti vendita sia dovuto all’aver oltrepassato la data in etichetta, di scadenza o di TMC.
Per quanto riguarda il secondo passaggio - la risposta dei donatori - anche nel caso del cibo oltre il TMC è utile tener presente che diversi tipi di donatori risponderanno al provvedimento in modo diverso.
Per quanto riguarda i venditori, ad esempio, il rischio è che la qualità del cibo donato possa diminuire: più lontano il termine in cui è possibile donare, minore la vita utile del cibo donato. Alexander & Smaje (2008) segnalano l’esistenza di una gerarchia nella gestione dei prodotti in vendita compatibile con questi rischi: vendere, vendere ad un prezzo ridotto, utilizzare il cibo nella mensa aziendale se esistente, vendere ai propri dipendenti e a questo punto donare. Allo stesso modo, De Boeck et al. (2017) riportano che spesso soltanto una parte delle donazioni è davvero utilizzabile e che parte dei costi di smaltimento rischiano di essere trasferiti dai venditori alle associazioni di recupero; un rischio possibilmente aumentato dalla possibilità di donare oltre il TMC.
I produttori di cibo hanno invece preferenze diverse e manifestano delle forti resistenze a donare cibo oltre il TMC. Quando il cibo è riconoscibile dal nome del produttore, la prospettiva di un danno reputazionale è tale da preferire usi alternativi al dono. Il rischio è che donare possa danneggiare piuttosto che accrescere la reputazione del donatore (Baglioni et al., 2017). In sintesi, il permesso legale di donare cibo oltre al TMC non risolve il carattere ancora stigmatizzante dell’aver oltrepassato il “consumarsi preferibilmente entro” ed è quindi insufficiente a eliminare il danno reputazionale che ostacola le donazioni.
Infine, l’ultimo passaggio riguarda la raccolta e la distribuzione da parte delle associazioni di recupero. Per definizione, il cibo oltre il TMC necessita di una raccolta immediata e quindi di un livello di risorse e capacità - logistiche, di conservazione e di distribuzione - tutt’altro che scontate. È quindi plausibile immaginare non tanto resistenze, quanto difficoltà oggettive nel raccogliere questo cibo, soprattutto nel caso di associazioni locali con dotazioni di mezzi e personale limitate.
Per quanto riguarda invece la distribuzione del cibo agli indigenti, è possibile distinguere tra quelle associazioni che distribuiscono borse spesa e pacchi alimentari e le mense che preparano pasti da consumare direttamente in sede. Mentre queste ultime possono utilizzare senza problemi il cibo oltre il TMC nella preparazione dei pasti, le associazioni che distribuiscono pacchi spesa tendono ad essere restie ad includere prodotti oltre il TMC. La ragione è duplice. Innanzitutto, c’è la priorità di distribuire cibo di alta qualità, ovvero con una vita utile tale che il cibo sia di massimo valore per chi lo riceve. E qui si inserisce la seconda ragione, che è ancora reputazionale: evitare di danneggiare l’immagine dell’associazione distribuendo alle persone bisognose cibo che è largamente percepito come di qualità inferiore, se non addirittura del tutto inadatto al consumo.

Alcune implicazioni per la politica di contrasto allo spreco

Dall’analisi svolta, è possibile trarre cinque implicazioni utili alla progettazione di politiche di contrasto allo spreco. Si tratta di considerazioni che, pur partendo dai due strumenti discussi nei paragrafi precedenti, hanno una valenza più generale e sono potenzialmente applicabili ad altri interventi. 
La prima è che la donazione è soltanto una delle possibili alternative per la gestione del surplus di cibo e, al di là del suo valore sociale, è comunque costosa e non necessariamente la più semplice. Ridurre i costi amministrativi è senz’altro un passo in avanti, ma un approccio coordinato allo spreco necessita di rendere la donazione il più possibile favorita, anche attraverso interventi di natura fiscale che consentano di far prevalere il dono su opzioni già praticate come riciclo e smaltimento.
La seconda implicazione è quella di calibrare gli incentivi rispetto a chi può decidere di attivare le procedure di donazione, che non sempre coincide con il soggetto produttore dello spreco. Certamente le operazioni di donazione nei punti vendita devono essere semplici, ma si può pensare a politiche che incentivino l’impresa, cercando di facilitare gli accordi di donazione a livello corporate e valorizzando l’immagine aziendale.
La terza implicazione è che le organizzazioni di volontariato sono uno dei cardini di un’attuazione efficace e vanno sostenute. Ciò può essere fatto in molti modi, sia attraverso il sostegno economico diretto, sia attraverso interventi di natura organizzativa o logistica che ne facilitino le operazioni. Un buon esempio sono gli ‘hub’ di quartiere per lo stoccaggio e la distribuzione progettati a Milano: riducono i costi di recupero, garantiscono la sicurezza del cibo e in generale ottimizzano il circuito del dono.
Il quarto punto da segnalare riguarda i rischi reputazionali, che sono generali ma certamente accresciuti dal cibo oltre il TMC. Oltre alle questioni già affrontate, vale la pena ragionare sul fatto che è la generale percezione che questo cibo sia di qualità inferiore e non adatto al consumo a renderne stigmatizzante la donazione, il recupero e la distribuzione. Di fronte a questo tipo di ostacoli, regolazioni e protezioni legali rischiano di essere poco efficaci. Piuttosto, strumenti di lungo periodo che puntino a cambiare la generale percezione del TMC, quali educazione e formazione, possono favorire questo cambiamento. Lo stesso può dirsi per diciture che chiariscano in modo il più possibile evidente la differenza tra ‘consumarsi preferibilmente entro’ e la data di scadenza, in modo da segnalare il valore del cibo oltre il TMC. 
Da ultimo, vale la pena notare un fatto in parte ovvio ma che merita di essere ripetuto. Tutte le politiche - anche provvedimenti che appaiono di funzionamento semplice e quasi automatico come quelli analizzati - si indirizzano a soggetti autonomi, ovvero con preferenze proprie che non necessariamente sono congruenti con gli obiettivi della politica. Inoltre, questi soggetti non costituiscono mai un gruppo omogeneo, ma hanno obiettivi, capacità e risorse diverse. Come si è visto sia per il caso dei soggetti donatori che per le associazioni di recupero e di distribuzione, lo stesso provvedimento può generare effetti eterogenei e queste differenze sono centrali nel progettare politiche efficaci. 

Riferimenti bibliografici

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